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Tag: recensioni libri

la storia di elsa morante
(non) recensioni di libri

La Storia di Elsa Morante – (non) recensione

È una mano che allarga la ferita aperta e mostra la carne viva, sangue, muscoli, tendini. E manifesta l’illusione perpetua delle rivoluzioni. È la descrizione del potere che alimenta, difende e replica se stesso.

sistema nervoso 3
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Sistema nervoso – Lina Meruane – (non) recensione

Sistema nervoso è un romanzo denso. Nessun passaggio neutro, né paragrafi di sosta o raccordi di sospensione. Nessuna descrizione o digressione su cui soffermarsi a decomprimere la lettura, per prendere fiato.

senza titolo di viaggio
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Senza titolo di viaggio – Filo Sottile – (non) recensione

Ho sempre guardato all’urgenza come ad un elemento necessario, imprescindibile per la scrittura. Per la buona scrittura. Quella di Filo Sottile, di urgenza, percorre tutta la totalità del suo testo, a volte come un sottofondo quasi irriconoscibile, a volte come una scarica.

Scopami Virginie Despentes
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Scopami – Virginie Despentes – (non) recensione

Scopami è un romanzo che parla dal margine, quel margine che può essere abitato, decostruito e trasformato in terreno di lotta o che ti sovrasta, ti definisce, ti maciulla e ti marchia con solchi profondi.

sporco weekend
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Sporco weekend – Helen Zahavi – (non recensione)

La scrittura è netta, minimale, solo apparentemente semplice e lineare. Il gioco di ripetizioni all’interno del testo segna l’incedere della trama così come l’incedere della protagonista, un pensiero dopo l’altro, un’azione dopo l’altra.

Daša Drndić
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Trieste. Un romanzo documentario – Daša Drndić – (non) recensione

Io non sono sicura che si possa parlare, scrivere, di questo libro. Questo libro che è romanzo, questo libro che è un documentario. Questo libro monumentale. Daša Drndić ha un controllo della parola e del materiale narrativo che mette in soggezione. Daša Drndić accumula, uno dopo l’altro, i pezzi di un puzzle, li accumula, li ordina, li sparpaglia, li unisce, i pezzi di un puzzle. Il puzzle. Ma senza cornice, perché la Storia non vuole cornici. La Storia preferisce rimanere aperta, perché può essere continuamente aggiornata e moltiplicata. Daša Drndić, nella traduzione di Ljiljana Avirović, avanza, una pagina dopo l’altra. Nessuna tregua, nessuna sosta. Non c’è spazio bianco, non c’è sospensione. Non c’è parola che possa essere spazio bianco neutro per sospendere la lettura o i pensieri. Tanti pensieri. Che non confluiscono nel pianto nato dalle corde della commozione. Non gioca con quelle corde, Daša Drndić. I pensieri si sommano, si accalcano, un nome dopo l’altro, un luogo dopo l’altro, un’informazione dopo l’altra, nessuno si salva davvero, il puzzle si compone, un pezzo dopo l’altro e i pensieri si ordinano compatti intorno alla rabbia, al rancore, allo sgomento davanti all’osceno, di fronte alla totalità del male, nessuna banalità, nessuno si salva davvero ed è raro, in ogni caso, che la guerra lasci qualcuno ai margini”. Trieste, Görz Gorizia Gorica. I ricordi, la storia di una famiglia, di tante famiglie. La finzione che si innesta sulla Storia. L’Isonzo, l’archivio liquido della storia. Triblinka, le trincee, i vagoni piombati, il processo di Norimberga. La Svizzera neutrale e la Croce Rossa. D’altra parte ognuno si para il culo per quanto può, compresa la Croce Rossa internazionale. Compresa la Chiesa, in particolare quella cattolica. Kurt Franz, Ja, Tedeschi. Ein jüdischer Name. Il processo del 1976 per i crimini nella Risiera di San Sabba. Bad Arolsen, la biblioteca dell’orrore. I figlie e le figlie del progetto Lebensborn. Come i figli e le figlie dell’Auxilio Social, Spagna 1939.E una donna seduta di fronte ad una finestra che svelle gli arbusti dei propri ricordi, senza sapere se sono sprofondati nel terreno della memoria oppure se si muovono smarriti, disorientati in un presente rimosso.Nessuno si salva davvero. Le serate danzanti, il valzer. Il cinematografo. Oh happy days. Il passato, che torna. Una cesta rossa piena di foto, ritagli di giornale, locandine. Nomi. Luoghi. La ricostruzione dei fatti. Della storia. Della Storia. Del puzzle. Il puzzle. Com’è che non sono mai riuscita a vedere? Un romanzo che è documentario, ricostruzione, archivio in cui Daša Drndić non tocca, quindi, le corde della commozione ma quelle dell’accusa e della responsabilità. Per i più, per gli ubbidienti e i taciturni, per coloro che se ne stanno in disparte, per i bystander, la vita comincia a diventare una piccola valigia che non viene mai aperta, un leggero bagaglio ficcato sotto il letto, una borsa destinata a nessun luogo, nella quale tutto è ordinatamente riposto – giorni, lacrime, morti e piccole gioie – e da cui si sprigiona un odore di muffa. Chi se ne rimane in disparte non sai mai cosa pensa, per chi fa il tifo, visto che se ne sta sempli­cemente lì e osserva cosa gli accade intorno, come se nulla in realtà accadesse. Si adatta alle regole e alle leggi di chiunque, cosa che, una volta terminate le guerre, può sempre tornare a suo favore. E i bystander sono molti, la maggioranza.Osservatori ciechi, gente “semplice” che gioca solo le carte sicure, sono i cosiddetti “sichere Menschen”. Intendono vivere i propri giorni senza essere disturbati. In guerra e fuori dalla guerra, questi osservatori ciechi girano la testa dall’altra parte, mostrano indifferenza e si rifiutano di compatire chicchessia; la loro autodifesa è uno scudo coriaceo, una corazza all’interno della quale si trastullano, gioiosi, come delle larve.Sono dappertutto. Nei governi neutrali degli Stati neutrali, tra gli Alleati, nei Paesi occupati, tra la maggioranza, tra la mino­ranza, tra di noi. I bystander siamo noi.Per sessant’anni questi osservatori ciechi si battono il petto dicendo, anzi gridando, siamo innocenti, perché non sapevamo, e con l’arrivo di nuove guerre e nuovi guai, fanno il loro ingresso nuovi osservatori, nascono nuovi eserciti di giovani e robusti bystander dagli occhi bendati, che si nutrono dell’innocenza dell’osservatore, di un’inossidabile compatibilità. Sono gli adattati, coloro che assecondano il male. Nessuna banalità. Grazie ad acqueagitate che mi ha portato da questo libro, qui. Daša DrndićTrieste. Un romanzo documentario trad. Liliana Avirovićpp. 444Bompiani, Milano 2015 Una citazione, qui

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La vita bugiarda degli adulti – Elena Ferrante – (non) recensione

La vita bugiarda degli adulti. La banalità della vita bugiarda degli adulti, ho pensato leggendo il nuovo libro di Elena Ferrante.L’umana banalità, sarebbe meglio dire. La vita bugiarda degli adulti osservata e smascherata dallo sguardo implacabile dell’adolescenza. Dallo sguardo implacabile di una adolescente. Dalla scrittura sgradevole e ipnotica di Elena Ferrante. Crescere, e trovare il proprio spazio tra gli affetti e il proprio posto nel mondo. Quel mondo che dalla strada sotto casa si allarga e si allarga. All’infinito.Crescere. Ma assomigliando a chi? Desiderando cosa? Aspirando a cosa?Con il corpo nascosto, il corpo esposto. Scoperto nella dolcezza, nella maleducazione, nella fretta, nella tenerezza.Il corpo riflesso. Nello specchio, nei corpi delle altre. Nei corpi degli altri.Nelle parole, degli altri. Nel giudizio. Anche questo implacabile. Nella frattura, spesso scomposta, di un passaggio obbligato. La formazione del sé, la definizione dei propri desideri. La scrittura della propria mappa emozionale.Nella frattura, dolorosa, provocata dalla caduta di fronte a quello che è stato taciuto, nascosto, travisato, allontanato. Mascherato.Nel rifiuto e nell’allontanamento. Nello smarrimento, nella rabbia. Nel cratere, nell’abisso. Forse si spezzò in quel momento qualcosa in qualche parte del mio corpo, forse dovrei collocare lì la fine dell’infanzia. Nella delusione, implacabile. Totale e totalizzante. Per questi adulti e per le loro menzogne, per le loro debolezze camuffate, per quelle vite che si sgretolano e si svelano. Per questi corpi che si piegano e questi sguardi che si perdono, arroganti e codardi, deboli e spaventati. E per le parole misurate, inconcludenti. Violente. Parole confuse.Bugiarde. Cosa succedeva, insomma, nel mondo degli adulti, nella testa di persone ragionevolissime, nei loro corpi carichi di sapere? Cosa li riduceva ad animali tra i più inaffidabili, peggio dei rettili? La vita bugiarda degli adultiElena Ferranteedizioni e/opp. 336   Sempre su Elena Ferrante, per tutte le sue smarginature.L’amica geniale (non) recensioneStoria della bambina perduta (cit.)Storia di chi fugge e di chi resta (cit.)Storia del nuovo cognome (cit.)L’amica geniale (cit.)

La mischia
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La mischia – Valentina Maini – (non) recensione

Perché non sento parlare ovunque di questo romanzo, perché non leggo ovunque di questo romanzo, La mischia di Valentina Maini? Di questo romanzo con una sua voce netta e nitida che canta su una musica complessa, che prima ci vuole un po’ di tempo, il tempo di abituarsi al ritmo per poi ritrovarsi completamente in immersione.Di questo romanzo in cui niente è scontato, in cui ogni dettaglio, frammento è indagato in profondità e da punti di vista inusuali. E sfumature e traiettorie che illuminano, nascondono, mostrano, dicono tutto e il contrario di tutto. Questo romanzo che scava, che scava in profondità e scava in obliquo. Questo romanzo di cui non si riesce ad immaginare, intuire, indovinare la frase successiva. Questo romanzo dove non c’è il giudizio, il giusto e lo sbagliato, il simpatico e l’antipatico, il bello e il brutto.Il vero o il falso. Di questo romanzo che dice “procurandomi per la prima volta nell’alto torace una morsa quasi letale.” Questo romanzo che non è un esercizio di stile, ma una narrazione tenuta stretta dalla prima all’ultima pagina. Di questo romanzo che scende nel perturbante, niente sentimenti accondiscendenti, ma suoni che stridono, bombe sganciate, sentimenti disfunzionali.Di questo romanzo che racconta una storia, di quest’autrice che non lascia andare, che tiene le trame, che dice delle cose. Quest’autrice che sceglie chi, sceglie dove, sceglie come, sceglie quando. E sceglie i perché.Questo romanzo che ti costringe a fissare il disordine, a contemplare lo sporco. A respirare il dolore, il malessere. L’errore. Di questo romanzo che è un caleidoscopio. Scrittura a struttura che scartano, spiazzano. Diverse forme, diversi linguaggi. Di questo romanzo preciso, così preciso da risultare irrimediabilmente, meravigliosamente, drammaticamente universale. Questo romanzo che affronta la massa distruttrice. Di questo romanzo in cui abitano personaggi pieni, difettosi, reali. Così difettosi che se ti volti all’improvviso li puoi vedere in piedi alle tue spalle.Questo romanzo che è un coro, questo romanzo che corre, rallenta, cammina, si ferma. Simula. Di questo romanzo che a tratti toglie il fiato, e fa indietreggiare di qualche millimetro. Questo romanzo che è Jokin che si cerca sotto l’epidermide. Desideravo vederlo, conoscerlo a tutti i costi, aprirmi un varco in direzione del mio sottosuolo e chiedergli qualcosa… Questo romanzo che è Gorane.Io non sopporto le mescolanze perché ci sono cresciuta, nella mischia, perché nessuno mi ha insegnato come separare il sogno dalla verità… Di questo romanzo che dice quando ti incammini per la strada sbagliata diventi come lo strascico delle spose, come i jeans a zampa di elefante, come la lingua dei cani, perché tiri su tutto, la merda, i resti del cibo e i diamanti, la luce, la notte e il mezzogiorno, ed è una cosa che non succede quando vai per la strada giusta dove ti capita solo ciò che hai scelto che ti debba capitare. Di questo libro che ho dovuto chiudere, due volte. Perché mi ha colpito dove cedo. Questo libro che ho dovuto chiudere, due volte. Per riprendere fiato, e sbattere veloce le palpebre. E poi svuotare fino in fondo i polmoni.

un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra
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Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra – Claudia Durastanti – (non) recensione

Protagonisti Jane CormickAlexander CormickJonathan Cale (Francis)Dana Fogarty (Zelda)Micheal HaskellEdward HopperGinger KorowieFrank Riley Inizia così Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra di Claudia Durastanti. Con l’elenco dei personaggi, come fosse un testo teatrale.E come un testo teatrale questo romanzo si sviluppa per blocchi in cui i protagonisti di questa storia si alternano e attraversano tempo, spazio, mutamenti. Protagonisti quasi nudi, stesi sulla pagina attraverso il monologo, il dialogo, le pagine di un diario, le pagine di una lettera, lo sguardo dell’altro-a che li osserva e ne restituisce un’immagine necessariamente difettata e difettosa.Otto personaggi che attraversano il tempo dal 1978 al 2003, lo spazio attraverso il New Jersey, New York, camere da letto, stazioni, spiagge, automobili.Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra, un titolo che sembra l’inizio di una poesia. E di poesia questo romanzo è stracolmo. Tutta la poesia che ci può essere nell’adolescenza, e nell’adolescenza che si sfilaccia, si mescola e si dissolve nell’età adulta.E i mutamenti che questi otto protagonisti e protagoniste attraversano in questo sfilacciamento.Ho 42 anni e ancora non ho smesso di dialogare con la mia adolescenza. Non ho ancora smesso di interrogare quegli anni. Ancora mi rivolgo a quell’intensità per ricavarne forza, coerenza e tenacia. La tenacia dei sentimenti totali e totalizzanti, la forza dei desideri che non prevedono ostacoli, la coerenza nella formazione del proprio io che a volte l’età adulta tenta di nascondere o screditare. O dimenticare insieme agli slittamenti, agli errori, ai passi falsi, ai dolori laceranti, alle delusioni indicibili. Forse per questo sono sprofondata nel romanzo di Claudia Durastanti come si sprofonda in un divano che riconosce le forme del tuo corpo. Forse per questo e perché è un romanzo scritto bene, e tanto basta. Ad inforcare gli occhiali appena sveglia, senza neanche aver bevuto il caffé per leggere una pagina, due pagine, tante pagine quante sono quelle che la vita adulta mi concede.Anzi no. Tante pagine quante sono quelle che con tenacia, forza e coerenza riesco a strappare al tempo della vita adulta. Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra è un romanzo corale frammentato, malinconico e reale, sporco e concreto, che Claudia Durastanti ci restituisce con una scrittura piena, precisa, mai banale, con parole puntali che usa per parlarci del disordine, dei dubbi, delle angosce, delle paure, delle aspettative, dei passi falsi, delle promesse non mantenute, dell’assenza e della solitudine di questi personaggi che sono tutto tranne che perfetti, reali nei loro pensieri, riconoscibili nelle loro mediocrità e meschinità, riconoscibili nella loro ricostruzione, quando oltrepassano lo sfilacciamento e si ritrovano in piedi nell’età adulta dove quello che si immaginava di essere da grandi combacia, o non combacia, con quello che si diventa, che siamo riusciti e riuscite a diventare, che non potevamo fare altro che diventare. […] Rileggendo gli appunti taccuino aveva scoperto che il suo vero obiettivo era accelerare il processo per cui ogni adolescente si trasforma in un semiadulto di merda, con le paranoie della carriera o del nucleo familiare. Passare dai diciotto ai trent’anni, saltare tutto il decennio della grande illusione. […] Claudia DurastantiUn giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestraLa nave di Teseo, collana Oceanipp. 304 Qua potete trovare una citazione, qua invece la (non) recensione di Sangue e viscere a liceo di Kathy Acker che Claudia Durastanti ha tradotto per LiberAria

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Le isole di Norman – Veronica Galletta – (non) recensione

Ci sono libri che iniziano dalla copertina.Che non sai nemmeno spiegare perché.Ci sono libri che prima di essere letti ti chiedono un gesto, antico. Come tirare fuori dal cassetto della scrivania un tagliacarte per separare le pagine lì dove sono ancora unite. Come aprire uno scrigno, uno scrigno dopo l’altro. Ci sono libri con cui si crea una relazione immediata. La prima pagina è già un affondo e la lettura diventa una questione intima e personale. Le isole di Norman di Veronica Galletta è uno di questi. E poi. È un libro che mostra come alle volte il passato possa colonizzare a tal punto il presente da impedirti di concepire il futuro, un futuro. E di come l’umana illusoria necessità di mettere ordine nel caos organizzato che si chiama vita possa paralizzarci in movimenti ripetuti dentro ad uno schema da cui si può uscire solo rinunciando all’idea di poter organizzare e ridurre tutto a colonne di libri, da mettere in ordine su una griglia da analizzare.Così da poter concepire un futuro, il futuro, prendendo il passato per quello che è. Qualcosa che non esiste, non in quella forma in cui lo abbiamo sempre pensato. Così da poter cambiare. E poi. Struttura e architettura. La scrittura di Veronica Galletta riesce a sovrapporre e far combaciare la struttura e l’architettura della narrazione con la struttura e l’architettura di Ortigia. Con la struttura e l’architettura dei pensieri e dei passi di Elena.Una scrittura che è come una visione aerea, dall’alto, per abbracciare, con la lettura, tutta la complessità della mappa. Delle mappe.E per poterla osservare, Elena, senza riuscire ad avvicinarla. Non del tutto. Non fino in fondo. Il suo camminare, e depositare ricordi e libri. La sua ricerca, le sue domande, le sue isole. Nell’assenza, lo spazio vuoto lasciato da qualcosa che prima era presente e adesso non c’è più. E poi. Ortigia. … di nuovo arriva la luce gialla di una piazza, dentro la quale prendere fiato, seduti sulla scalinata di una chiesa. Questa è l’Isola, che sorprende e poi abbandona, che provoca e blandisce, che conquista e poi scompare, nella perfezione di una colonna, nello scintillio dell’alluminio degli infissi, nell’eternità di un gatto che dorme, nel tanfo del sacchetto di rifiuti che ha appena sventrato. Solo abitandola quotidianamente, accettandone le contraddizioni e affidandoti a lei, Ortigia si rivela, come una cura. E poi. La parmigiana di melanzane. Bellissimo. Le isole di NormanVeronica GallettaItalo Svevo (collana Incursioni), 2020304 pagine arabe intonseImmagine di copertina Maurizio Ceccato – IFIX   Sempre di Veronica Galleta, potete leggere qui la (non) recensione di Nina sull’argine.

Copertina Isola di Siri Ranva hjelm jacobsen
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Isola – Siri Ranva Hjelm Jacobsen – (non) recensione

E poi ci sono i libri scritti, e tradotti, bene.Isola di Siri Ranva Hjelm Jacobsen è uno di questi libri. Libri gentili, ma che comunque affondano lì dove devono affondare. Libri costruiti intorno alla parola, la sua bellezza, il suono, il significato.  Parole che arrivano e aderiscono perfettamente a quella parte senza nome del corpo che si attiva durante la lettura, come un lenzuolo leggero che avvolge e sottolinea le forme. Libri in cui la poesia si fonde nella prosa senza strappi. E dalla fusione sbucano metafore che si inanellano una dopo l’altra senza eccessi o sbavatura, in equilibrio con trama e struttura. Libri scritti, e tradotti, bene. Che sciolgono la tensione muscolare e allargano la gabbia toracica. Isola è la storia di un ritorno, e della ricerca, in questo ritorno, di un luogo da poter chiamare casa. La ricerca di un’Itaca, l’isola alla fine del viaggio. È la storia di omma e abbi, nonno e nonna, in principio Marita e Fritz che nei primi anni ‘30 lasciano l’arcipelago delle Faroe per migrare in Danimarca. È un’immersione nel pozzo della famiglia, una memoria estesa, più profonda che fa sì che si chiami casa un luogo dove non si è nate e non si è vissuto ma che ci è comunque scivolato addosso, infiltrandosi e radicandosi.  È una leggera tensione, una corrente che passa attraverso le pagine, sottile ma costante, nella voce narrante, la nipote di Marita e Fritz. Il suo ritorno nell’arcipelago fatto di isole, vento e sole che attraversa nuvole e nebbia, di leggende e tradizioni e natura viva e parlante che a volte sussurra e a volte grida. La terza generazione, una coperta troppo corta, che pronuncia il proprio nome con orgoglio tra gli estranei e a mezza voce con i compatrioti. La terza generazione invisibile, teorica, la cui pelle si confonde con la tappezzeria, e che lo si sappia o no, si porta dentro il viaggio come una perdita. Isola è una storia di partenze, e attese. Di ritorni. Di acquavite e canti popolari. Di giacche a vento e sole di mezzanotte. È una storia di terra e di acqua, a volte buona e a volte meno buona. E d’amore. L’amore di Marita, l’amore di Fritz. L’amore di Ragnar il rosso che chiama i gabbiani i proletari del mare. L’amore di Beate. L’amore dei faroesi per le loro terre in mezzo al mare, l’amore per la famiglia. L’amore di una nipote per la sua omma e il suo abbi che lasciano un’isola senza mai smettere di essere quell’isola, in un modo o in un altro. Senza mai smettere di essere isole. Si dice che nel mare intorno alle Faroe ci fossero isole galleggianti. Alcune si tenevano nascoste nell’abisso durante il giorno per spuntare in superficie la notte. Alcune erano solo di passaggio, altre venivano spostate da un gigante che ne voleva formare una sola molto grande.  Altre, semplicemente, galleggiando, aspettano. Laggiù, sotto il mare, si incontrano tutte le terre emerse. Lì ha luogo il dialogo mormorante delle placche tettoniche. IsolaSiri Ranva Hjelm JacobsenMaria Valeria D’Avino (traduzione)Iperborea, 2018pp. 215

le ragazze elettriche
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Ragazze elettriche – Naomi Alderman – (non) recensione

Una frase, tra le tante evidenziate durante la lettura di Ragazze elettriche, mi ha particolarmente colpita. È questa, Quand’è che il potere esiste? Solo nel momento in cui viene esercitato. Non che non ci avessi mai pensato, ma sapete cosa fanno i libri al volte, no?, racchiudono una frase che ti si svela come la perfetta traduzione per un pensiero che avevi sempre avuto dentro, a galleggiare nella mente, ma che non avevi mai formulato davvero sotto forma di frase strutturata e di senso compiuto. Quand’è che il potere esiste? Solo nel momento in cui viene esercitato. Il potere esiste, non è possibile farlo scomparire negandone l’esistenza come possibile forma, tra le tante possibili forme, dell’agire umano. Ma possiamo disinnescarlo. Possiamo non esercitarlo. Come una forma di obiezione di coscienza. Il titolo originale di questo libro, l’ho scoperto dopo averlo finito, è “The Power”. E tutte le pagine lette hanno trovato una loro collocazione. Ragazze elettriche parla del potere nel momento in cui si sceglie di esercitarlo. Se si sceglie di esercitarlo. E di come si sceglie di esercitarlo. La forma del potere è sempre la stessa; è la forma di un albero. Dalle radici fino alla cima, un tronco centrale che si ramifica e ramifica all’infinito, aprendosi in dita sempre più sottili, protese in avanti. La forma del potere è il disegno di una cosa viva che tende verso l’esterno, e manda i suoi sottili filamenti un po’ oltre, e ancora un po’ più oltre. Sempre un po’ più oltre. Il potere che nutre se stesso, che riproduce e si riproduce. Che corrompe e infetta. Che ubriaca.  Una scena mi ha colpita in particolare, tra le tante di questo romanzo che mi hanno lasciato un piccolo o grande segno. Mi ha colpita e fatta commuovere. Ê arrivata lì, a toccare una corda sempre vibrante della mia sensibilità. È questa,  A Manfouha, a ovest della città, un’anziana etiope esce da un edificio fatiscente, sorretto dalle impalcature, e va in mezzo alla strada per salutarle, con le mani rivolte verso l’alto, gridando qualcosa che nessuna di loro riesce a capire. Ha la schiena curva, le spalle richiuse in avanti, e una gobba lungo la spina dorsale all’altezza delle scapole. Noor le prende una mano e la chiude tra le sue, mentre la vecchia la guarda come una paziente che osservi il trattamento di un dottore. Noor le appoggia due dita sul palmo e le mostra come usare quella cosa che deve essere sempre stata in lei, che per emergere deve aver atteso tutti quegli anni. […] Appena quella dolce energia risveglia in lei le fibre e i legamenti nervosi, l’anziana si mette a piangere. […] Tra la punta delle sue dita e il braccio di Noor scocca una piccola scintilla. Avrà ottant’anni, e mentre ripete quel gesto le lacrime le scorrono lungo il viso. Alza le mani e si mette ad ululare. Le altre donne si uniscono a lei, la strada si riempie di quel suono, la città ne è pervasa; […] La dolce energia è la corrente elettrica che una giovane donna dopo l’altra scopre di avere e di poter usare. Scariche elettriche dal palmi delle mani. Corrente elettrica situata nella matassa, tessuto molle elettrizzato posizionato sotto la clavicola.Le donne, prima le giovani e poi grazie a queste anche le adulte e le anziane, scoprono di poter fare del male.  E lo fanno. Perché possono. Ed ecco che nella narrazione, nel diramarsi e svolgersi della trama, Naomi Alderman, che gestisce questa trama con una abilità narrativa di tutto rispetto, rompe il tabù. Non è la prima, fortunatamente non è l’unica e spero con tutta me stessa che non sia l’ultima a farlo.Le donne di questo romanzo, tutte le donne di questo romanzo, usano la violenza. Feriscono, colpiscono. Uccidono.Donne che reagiscono ad una violenza usando la violenza. In un contesto sociale dove si insegna ancora alle bambine a non reagire perché “non sta bene, non si fa” dovremmo mostrare più donne che reagiscono con forza e determinazione ad una violenza. Mostrare e raccontare donne che si scartano dallo stereotipo della vittima inerme. Abbiamo tutte la matassa sotto la clavicola, possiamo e dobbiamo usarla. Possiamo e dobbiamo imparare a nominarla, conoscerla, interrogarla e maneggiarla. E poi, ci sono donne ubriacate dal potere che riproducono il modello maschile conosciuto, vissuto, subito. La forma del potere è sempre la stessa. Ed è qui che la narrazione diventa politicamente ed intellettualmente complessa. Per niente scontata. Ragazze elettriche non è un libro facile. O almeno non dovrebbe esserlo. Non se ne dovrebbe fare una lettura superficiale riassunta in un “è un romanzo sulla vendetta delle donne contro gli uomini e dice che le donne al potere farebbero schifo come fanno schifo loro”.Perché è più complicato di così.È un romanzo, al netto di tutte le riflessioni assolutamente ben scritto e ben tradotto, che dice, certo, delle cose. Non potrebbe essere altrimenti. Ma non da soluzioni.Del resto, non è compito di un libro di storia o di un romanzo promuovere una tesi.È un distopico, l’autrice capovolge la realtà e ci mette di fronte a passaggi come Ci sono già genitori che dicono ai figli maschi di non uscire da soli, di non allontanarsi troppo. per poi trascinarci dentro una spirale ascendente che non lascia indifferenti. Passaggi che descrivono con grande efficacia e potenza quella che è la nostra condizione, quello che quotidianamente viviamo e siamo costrette ad affrontare in quanto donne. In quanto classe oppressa. Ci dice come potrebbe andare se, non come andrebbe sicuramente se. Non sono risposte, ma materiale di riflessione. Potrà piacere o non piacere quello che dice, ma credo che vada letto, approfittando dei tanti spunti che mette sul tavolo di un ragionamento necessario su violenza (di genere) e autodifesa (femminista), che non sono e non saranno mai la stessa cosa, e sul potere che si ripete e si riproduce. Ragazze elettricheNaomi Aldermantraduzione, Silvia BreNottetempopp. 446

Le formiche festanti Pinar Selek recensione
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Le formiche festanti – Pinar Selek – (non) recensione

Le formiche festanti parla di noi, della strada, dell’incontrarsi e riconoscersi. Dell’essere complici e solidali. A volte succede. Le persone che si incontrano in momenti strani, in luoghi frantumati, possono vedersi veramente e insieme svuotare i loro cuori sul cemento armato. Parla di un Principe dei rifiuti, a cui la madre ha lasciato in eredità la carnagione scura e le spalle larghe, che disegna vele sui muri di Nizza e scrive poesie che infila sotto le porte.Parla di un Cantante di strada, che porta la chitarra come se fosse la sua seconda testa, il suo secondo cuore, che suona e canta per due ore al giorno in Piazza Garibaldi. Un gabbiano clandestino.Parla di una Paranoica che ha imparato a gestire il dolore creando spazi per i sogni, le poesie, le canzoni e i dibattiti.Parla di una Svampita dalle scarpe rosse, a cui piace camminare a piccoli passi per creare il vuoto, anche se ogni tanto si riempie di paura, tendendo verso una leggerezza infinita, del suo passato da assimilare e di quella nonna dagli occhi neri, che aveva conosciuto la rivoluzione nel suo piccolo paesino della Catalogna. “A las barricadas! A las barricadas! Por el triunfo de la Confederación!” Di semi, di alberi liberati dalla schiavitù della loro funzione ornamentale e di cani liberati dai loro guinzagli.Parla dei Paranoici e delle Paranoiche. Parla dell’amore, quel miracolo che trasforma la merda in fiore, il ferro in acqua. Parla dei Folli di Nizza, una città che come tante altre non fa sentire la sua voce se non ci si è adagiati sul suo cuore singhiozzando almeno una volta.E di una donna che ritrova se stessa.E di una donna che alla fine si iscriverà ad un corso di nuoto e niente la fermerà. E parla di resistenza quotidiana. Di lotta sociale e di reti da costruire. Di migranti senza documenti e di desideri ardenti. Di mosaici ribelli, di treni notturni e cimiteri. Della costruzione paziente di un senso che sia Altro, di un mondo che sia Altro. Formiche, festanti, intente a scavare tunnel insospettabili per collegare giardini distanti. Le formiche festantiPinar Selektraduzione di Marta D’EpifanioFandango Libri, 2020pp. 216

recensione La Dragunera di Linda Barbarino
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La Dragunera – Linda Barbarino – (non) recensione

La Dragunera è un romanzo con i tratti somatici della tragedia. Ti restano addosso l’odore del sudore e della resa, della pelle arsa dal sole e della frustrazione, dei letti scaldati con la brace e della rabbia.  La scrittura di Linda Barbarino sa di terra e vento, sa di regole non scritte e sentimenti taciuti. Una scrittura ruvida e dolce, in un ritmo che mescola l’italiano e il dialetto così come riesce a mescolare l’amore con l’odio. La trama è semplice, lineare, perché semplici e lineari sono i personaggi che si muovono tra le vigne e le strade di paese, tra presente e passato. Personaggi immersi nell’ineluttabile, tesi, impauriti. Incapaci. Intrappolati nei ruoli e nelle tradizioni, negli stereotipi e nei gesti ripetuti generazione dopo generazione.  Personaggi che non evolvono, chiusi nella circolarità e nella ripetizione. Che si dibattono in un destino già scritto e già accettato, una via di fuga intravista ma che non è mai stata altro che rimpianto mescolato a tutti gli altri rimpianti.  … Se invece di giocare a casa se ne andava con sua sorella, a lei il gabbo nessuno glielo faceva; se ci andava pure lei, la fuori, a giocare coi maschi, a fare la lotta coi bastoni e pigliarsi a legnate, a imparare a suprastiarli…… Non le sarebbe successo niente. Una famiglia contadina, padre e madre che litigano davanti ai santi e alle sante, che tirano dritto, nella vita come nella vigna, e due figli fatti di caratteri e desideri opposti. Una donna che sogna di poter tornare in una casa che non esiste più e di vivere un amore che non le spetta. E poi c’è lei. La Dragunera. Personaggio muto che sovrasta l’intera narrazione. La Dragunera, carne, istinto, la donna Altra, un’altra possibilità, una traiettoria che esce dalla linearità. La magara, la strega, un’ombra coi raspi in mezzo ai capelli. Un romanzo con i tratti somatici della tragedia, una narrazione con i nervi scoperti che fa una cosa, una cosa soltanto. Difficilissima e delicatissima.Ci racconta una storia, fatta di tante piccole storie, di personaggi semplici e sentimenti umani. La DraguneraLinda BarbarinoIlSaggiatore, 2020pp. 192

recensione Configurazione Tundra Elena Giorgiana Mirabelli pubblicato da Tunué in copertina, sfondo verde acqua bordato di bianco, stile acquerello, al centro un uroboro, un serpente che si morde la coda formando un cerchio
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Configurazione Tundra – Elena Giorgiana Mirabelli – (non) recensione

La sicurezza era la condizione di possibilità della città stessa. Il Modello prevedeva che il confine non fosse visibile perché avrebbe generato ansia. Gli abitanti di Tundra dovevano percepire estensione, ampiezza, orizzonti lontani. Convinti di poter andare ovunque e certi di non volersi allontanare troppo. Bianco, ordine. Decoro, sicurezza, linearità. Interiorità calcolabili, codifica. Spazio urbano, io. Efficienza. Oblio, memoria. Altrove. Nei Saggi dice che l’obiettivo del Modello è di prevedere, sviluppare e produrre emozioni, reazioni, meccanismi codificabili e misurabili. Intrappolare il tempo in uno spazio lineare. Ridurre al minimo le interferenze, la casualità. Le variabili. Codificare sentimenti, emozioni, reazioni. Codificare le relazioni. Sottrarsi all’indeterminatezza. Marta Fiani, architetta responsabile del progetto Tundra, ripeteva a Lea, sua figlia, che c’era un certo tipo di felicità che invidiava agli animali. E stava nella sicurezza con cui sapevano cosa fare, quando e in che modo.Non c’erano deviazioni. Non c’era indecisione. Via il libero arbitrio, dannazione della specie. Sicurezza, pulizia, precisione. Perimetro, bordo. Lea, che non vuole essere invisibile, lascia delle tracce, incrina la linearità. Diana, che passerà il suo Altrove nella casa di Lea, trova quelle tracce. Le percorre.  Configurazione Tundra richiede una lettura attenta, una lettura che sia immersione nella sua architettura narrativa. Configurazione Tundra richiede una lettura che sia capace di uscire dalla linearità, di uscire dal dover procedere in avanti.  La scrittura di Elena Giorgiana Mirabelli è carica, piena. Consapevole. Solida. La storia è satura, aderisce perfettamente alle pareti della struttura narrativa che l’autrice ha scelto per narrare questa storia alienante, questa storia claustrofobica eppure delicata, attenta, estremamente umana. Come se l’umano, la sua indeterminatezza, la sua inclinazione al caos, alle emozioni impreviste, imprevedibile, incalcolabili, come se l’umano, i suoi desideri non regolabili, non codificabili, riuscisse ad infiltrarsi nelle crepe sottili dell’esistente organizzato e a fuoriuscire dall’ordine stabilito.Come se l’umano, in un modo o nell’altro, riuscisse a deviare dalla linea retta.Come se l’umano riuscisse in qualche modo, sempre e comunque, a camminare solo per il gusto di camminare, senza sapere dove andare. Configurazione Tundra è un romanzo distopico che parla di un’urbanistica capace di interferire con i nostri sentimenti, con il nostro sguardo, con il nostro mondo di percepire noi stessi e gli altri. È un romanzo che parla della nostra parte nascosta, fortunatamente, in alcune e alcuni, assolutamente indomabile. Configurazione Tundra è un esordio forte. Qualunque cosa significhi la parola esordio. Configurazione Tundra è un romanzo lucido, inserito nel presente, collegato e derivato dal presente, che lascia delle tracce che dovremmo provare a percorrere. Elena Giorgiana Mirabelli è una scrittrice con delle cose da dire, e con l’immaginario e le capacità di gestire la parola indispensabili per poterle dire, queste cose. Configurazione TundraElena Giorgiana Mirabellitunué – ROMANZIpp. 1062020 Qua potete leggere la (non) recensione di Maizo. A questi due link, invece, altri due romanzi di tunué Tutti gli altri – Francesca Matteoni e Dettato – Sergio Peter

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