Una frase, tra le tante evidenziate durante la lettura di Ragazze elettriche, mi ha particolarmente colpita. È questa,
Quand’è che il potere esiste? Solo nel momento in cui viene esercitato.
Non che non ci avessi mai pensato, ma sapete cosa fanno i libri al volte, no?, racchiudono una frase che ti si svela come la perfetta traduzione per un pensiero che avevi sempre avuto dentro, a galleggiare nella mente, ma che non avevi mai formulato davvero sotto forma di frase strutturata e di senso compiuto.
Quand’è che il potere esiste? Solo nel momento in cui viene esercitato.
Il potere esiste, non è possibile farlo scomparire negandone l’esistenza come possibile forma, tra le tante possibili forme, dell’agire umano.
Ma possiamo disinnescarlo. Possiamo non esercitarlo. Come una forma di obiezione di coscienza.
Il titolo originale di questo libro, l’ho scoperto dopo averlo finito, è “The Power”. E tutte le pagine lette hanno trovato una loro collocazione.
Ragazze elettriche parla del potere nel momento in cui si sceglie di esercitarlo. Se si sceglie di esercitarlo. E di come si sceglie di esercitarlo.
La forma del potere è sempre la stessa; è la forma di un albero. Dalle radici fino alla cima, un tronco centrale che si ramifica e ramifica all’infinito, aprendosi in dita sempre più sottili, protese in avanti. La forma del potere è il disegno di una cosa viva che tende verso l’esterno, e manda i suoi sottili filamenti un po’ oltre, e ancora un po’ più oltre.
Sempre un po’ più oltre. Il potere che nutre se stesso, che riproduce e si riproduce. Che corrompe e infetta. Che ubriaca.
Una scena mi ha colpita in particolare, tra le tante di questo romanzo che mi hanno lasciato un piccolo o grande segno. Mi ha colpita e fatta commuovere. Ê arrivata lì, a toccare una corda sempre vibrante della mia sensibilità. È questa,
A Manfouha, a ovest della città, un’anziana etiope esce da un edificio fatiscente, sorretto dalle impalcature, e va in mezzo alla strada per salutarle, con le mani rivolte verso l’alto, gridando qualcosa che nessuna di loro riesce a capire. Ha la schiena curva, le spalle richiuse in avanti, e una gobba lungo la spina dorsale all’altezza delle scapole. Noor le prende una mano e la chiude tra le sue, mentre la vecchia la guarda come una paziente che osservi il trattamento di un dottore. Noor le appoggia due dita sul palmo e le mostra come usare quella cosa che deve essere sempre stata in lei, che per emergere deve aver atteso tutti quegli anni. […]
Appena quella dolce energia risveglia in lei le fibre e i legamenti nervosi, l’anziana si mette a piangere. […] Tra la punta delle sue dita e il braccio di Noor scocca una piccola scintilla. Avrà ottant’anni, e mentre ripete quel gesto le lacrime le scorrono lungo il viso. Alza le mani e si mette ad ululare. Le altre donne si uniscono a lei, la strada si riempie di quel suono, la città ne è pervasa; […]
La dolce energia è la corrente elettrica che una giovane donna dopo l’altra scopre di avere e di poter usare. Scariche elettriche dal palmi delle mani. Corrente elettrica situata nella matassa, tessuto molle elettrizzato posizionato sotto la clavicola.
Le donne, prima le giovani e poi grazie a queste anche le adulte e le anziane, scoprono di poter fare del male.
E lo fanno.
Perché possono.
Ed ecco che nella narrazione, nel diramarsi e svolgersi della trama, Naomi Alderman, che gestisce questa trama con una abilità narrativa di tutto rispetto, rompe il tabù. Non è la prima, fortunatamente non è l’unica e spero con tutta me stessa che non sia l’ultima a farlo.
Le donne di questo romanzo, tutte le donne di questo romanzo, usano la violenza. Feriscono, colpiscono.
Uccidono.
Donne che reagiscono ad una violenza usando la violenza.
In un contesto sociale dove si insegna ancora alle bambine a non reagire perché “non sta bene, non si fa” dovremmo mostrare più donne che reagiscono con forza e determinazione ad una violenza.
Mostrare e raccontare donne che si scartano dallo stereotipo della vittima inerme.
Abbiamo tutte la matassa sotto la clavicola, possiamo e dobbiamo usarla. Possiamo e dobbiamo imparare a nominarla, conoscerla, interrogarla e maneggiarla.
E poi, ci sono donne ubriacate dal potere che riproducono il modello maschile conosciuto, vissuto, subito.
La forma del potere è sempre la stessa.
Ed è qui che la narrazione diventa politicamente ed intellettualmente complessa. Per niente scontata.
Ragazze elettriche non è un libro facile. O almeno non dovrebbe esserlo. Non se ne dovrebbe fare una lettura superficiale riassunta in un “è un romanzo sulla vendetta delle donne contro gli uomini e dice che le donne al potere farebbero schifo come fanno schifo loro”.
Perché è più complicato di così.
È un romanzo, al netto di tutte le riflessioni assolutamente ben scritto e ben tradotto, che dice, certo, delle cose. Non potrebbe essere altrimenti. Ma non da soluzioni.
Del resto, non è compito di un libro di storia o di un romanzo promuovere una tesi.
È un distopico, l’autrice capovolge la realtà e ci mette di fronte a passaggi come
Ci sono già genitori che dicono ai figli maschi di non uscire da soli, di non allontanarsi troppo.
per poi trascinarci dentro una spirale ascendente che non lascia indifferenti. Passaggi che descrivono con grande efficacia e potenza quella che è la nostra condizione, quello che quotidianamente viviamo e siamo costrette ad affrontare in quanto donne. In quanto classe oppressa.
Ci dice come potrebbe andare se, non come andrebbe sicuramente se. Non sono risposte, ma materiale di riflessione.
Potrà piacere o non piacere quello che dice, ma credo che vada letto, approfittando dei tanti spunti che mette sul tavolo di un ragionamento necessario su violenza (di genere) e autodifesa (femminista), che non sono e non saranno mai la stessa cosa, e sul potere che si ripete e si riproduce.
Ragazze elettriche
Naomi Alderman
traduzione, Silvia Bre
Nottetempo
pp. 446

