Il corpo inverso di Barbara Guazzini – (non) recensione
Assenza. Perdita. Potrebbero essere queste le parole per orientarsi nella lettura de Il corpo inverso di Barbara Guazzini.
Insomma, scrivo solo le (non) recensioni di libri che sono entrati, in un modo o nell’altro, ogni volta diverso, nella mia Biblioteca di Babele.
Una frase, un passaggio. Un’epifania. Il riconoscersi nel dipanarsi della trama. L’idea. Il linguaggio. Una particolare forma, una particolare struttura. La capacità di contenere tutto il possibile. Un certo senso di urgenza. La complessità che scivola fluida.
Scrivo le (non) recensioni di libri che hanno lasciato cadere qualcosa, non importa se grande o piccolo, questo qualcosa, l’importante è che è caduto, e si sedimentato.
A ciascuna parete di ciascun esagono corrispondono cinque scaffali; ciascuno scaffale contiene trentadue libri di formato uniforme; ciascun libro è di quattrocentodieci pagine; ciascuna pagina, di quaranta righe; ciascuna riga, di quaranta lettere di colore nero. Vi sono anche delle lettere sulla costola di ciascun libro; non, però, che indichino o prefigurino ciò che diranno le pagine. So che questa incoerenza, un tempo, parve misteriosa.
La Biblioteca di Babele, Jorge Luis Borges
Assenza. Perdita. Potrebbero essere queste le parole per orientarsi nella lettura de Il corpo inverso di Barbara Guazzini.
Sono fame di Natalia Guerrieri è un libro appiccicoso, intriso di sudore, e un velo di polvere. E una rondine che sulla sua bicicletta scarta le macchine, gli sguardi, il livore, la noia, l’abbandono, l’immondizia di una Capitale che è tutte le capitali di cemento, solitudine e alienazione.
Denti di latte di Silvia Calderoni è, cito dalla pagina di Fandango Libri, un libro indefinibile, inedito, umanissimo.
Un centinaio di pagine così dense che non si riesce bene a capire come Silvia Tebaldi sia riuscita a far stare così tanto in così poco spazio.
Pelleossa di Veronica Galletta è come un mosaico, piccole tessere colorate che solo quando hai messo giù l’ultima ti puoi allontanare e vedere, e capire, il disegno che si è formato durante la lettura.
Ultramarino di Mariette Navarro è narrazione in purezza. Narrazione intesa come l’atto del narrare, di rappresentare con la parola scritta, o altri strumenti, storie, situazioni reali o fantastiche.
L’invincibile estate di Liliana di Cristina Rivera Garza è un memoir, è una biografia e un’autobiografia. È un romanzo, ma è anche una storia vera. È ri-costruzione e de-costruzione.
Disarticolato. Ecco la prima parola che mi viene in mente se penso al romanzo Sangue e viscere al liceo di Kathy Acker.
Noi siamo campo di battaglia di Nicoletta Vallorani mi ha colpito molto più di quanto pensassi. Qualcosa, di questa storia, si è sedimentato e non smette di ticchettare.
Certi libri, li senti arrivare. Subito. Qualcosa, già dalle prime pagine. Qualcosa nella struttura, nel linguaggio. O forse nel suono. Qualcosa ti dice chiaramente che stai per leggere uno di quei libri.
Scena di apertura, la fuga. Qualcuno corre, nel buio, scappa. Un ponte di legno e corde, delle siepi. Cinghiali dalle zanne gialle e appuntite che con i denti rompono il metallo.
La cronologia dell’acqua è voce. Voce che torna, su carta, attraverso la carta e grazie alla carta, potente, dissacrante, onesta. Reale. Vera. Una voce piena di segreti furiosi, rotture e vergogna.
È una mano che allarga la ferita aperta e mostra la carne viva, sangue, muscoli, tendini. E manifesta l’illusione perpetua delle rivoluzioni. È la descrizione del potere che alimenta, difende e replica se stesso.
Nina sull’argine è un romanzo interno, ti dice quello che accade dentro Nina. I pensieri, le paure, domande e fiumi da arginare mentre all’esterno le cose si muovono. Amori da interrompere, ponti da costruire.
Sistema nervoso è un romanzo denso. Nessun passaggio neutro, né paragrafi di sosta o raccordi di sospensione. Nessuna descrizione o digressione su cui soffermarsi a decomprimere la lettura, per prendere fiato.
Ho sempre guardato all’urgenza come ad un elemento necessario, imprescindibile per la scrittura. Per la buona scrittura. Quella di Filo Sottile, di urgenza, percorre tutta la totalità del suo testo, a volte come un sottofondo quasi irriconoscibile, a volte come una scarica.
È un profondo senso di frustrazione che guida la scrittura di quel post in cui Reni Eddo-Lodge dice, con chiarezza ed estrema lucidità, che non parlerà più di razzismo con le persone bianche. O almeno,
Scopami è un romanzo che parla dal margine, quel margine che può essere abitato, decostruito e trasformato in terreno di lotta o che ti sovrasta, ti definisce, ti maciulla e ti marchia con solchi profondi.
La scrittura è netta, minimale, solo apparentemente semplice e lineare. Il gioco di ripetizioni all’interno del testo segna l’incedere della trama così come l’incedere della protagonista, un pensiero dopo l’altro, un’azione dopo l’altra.
Io non sono sicura che si possa parlare, scrivere, di questo libro. Questo libro che è romanzo, questo libro che è un documentario. Questo libro monumentale. Daša Drndić ha un controllo della parola e del materiale narrativo che mette in soggezione. Daša Drndić accumula, uno dopo l’altro, i pezzi di un puzzle, li accumula, li ordina, li sparpaglia, li unisce, i pezzi di un puzzle. Il puzzle. Ma senza cornice, perché la Storia non vuole cornici. La Storia preferisce rimanere aperta, perché può essere continuamente aggiornata e moltiplicata. Daša Drndić, nella traduzione di Ljiljana Avirović, avanza, una pagina dopo l’altra. Nessuna tregua, nessuna sosta. Non c’è spazio bianco, non c’è sospensione. Non c’è parola che possa essere spazio bianco neutro per sospendere la lettura o i pensieri. Tanti pensieri. Che non confluiscono nel pianto nato dalle corde della commozione. Non gioca con quelle corde, Daša Drndić. I pensieri si sommano, si accalcano, un nome dopo l’altro, un luogo dopo l’altro, un’informazione dopo l’altra, nessuno si salva davvero, il puzzle si compone, un pezzo dopo l’altro e i pensieri si ordinano compatti intorno alla rabbia, al rancore, allo sgomento davanti all’osceno, di fronte alla totalità del male, nessuna banalità, nessuno si salva davvero ed è raro, in ogni caso, che la guerra lasci qualcuno ai margini”. Trieste, Görz Gorizia Gorica. I ricordi, la storia di una famiglia, di tante famiglie. La finzione che si innesta sulla Storia. L’Isonzo, l’archivio liquido della storia. Triblinka, le trincee, i vagoni piombati, il processo di Norimberga. La Svizzera neutrale e la Croce Rossa. D’altra parte ognuno si para il culo per quanto può, compresa la Croce Rossa internazionale. Compresa la Chiesa, in particolare quella cattolica. Kurt Franz, Ja, Tedeschi. Ein jüdischer Name. Il processo del 1976 per i crimini nella Risiera di San Sabba. Bad Arolsen, la biblioteca dell’orrore. I figlie e le figlie del progetto Lebensborn. Come i figli e le figlie dell’Auxilio Social, Spagna 1939.E una donna seduta di fronte ad una finestra che svelle gli arbusti dei propri ricordi, senza sapere se sono sprofondati nel terreno della memoria oppure se si muovono smarriti, disorientati in un presente rimosso.Nessuno si salva davvero. Le serate danzanti, il valzer. Il cinematografo. Oh happy days. Il passato, che torna. Una cesta rossa piena di foto, ritagli di giornale, locandine. Nomi. Luoghi. La ricostruzione dei fatti. Della storia. Della Storia. Del puzzle. Il puzzle. Com’è che non sono mai riuscita a vedere? Un romanzo che è documentario, ricostruzione, archivio in cui Daša Drndić non tocca, quindi, le corde della commozione ma quelle dell’accusa e della responsabilità. Per i più, per gli ubbidienti e i taciturni, per coloro che se ne stanno in disparte, per i bystander, la vita comincia a diventare una piccola valigia che non viene mai aperta, un leggero bagaglio ficcato sotto il letto, una borsa destinata a nessun luogo, nella quale tutto è ordinatamente riposto – giorni, lacrime, morti e piccole gioie – e da cui si sprigiona un odore di muffa. Chi se ne rimane in disparte non sai mai cosa pensa, per chi fa il tifo, visto che se ne sta semplicemente lì e osserva cosa gli accade intorno, come se nulla in realtà accadesse. Si adatta alle regole e alle leggi di chiunque, cosa che, una volta terminate le guerre, può sempre tornare a suo favore. E i bystander sono molti, la maggioranza.Osservatori ciechi, gente “semplice” che gioca solo le carte sicure, sono i cosiddetti “sichere Menschen”. Intendono vivere i propri giorni senza essere disturbati. In guerra e fuori dalla guerra, questi osservatori ciechi girano la testa dall’altra parte, mostrano indifferenza e si rifiutano di compatire chicchessia; la loro autodifesa è uno scudo coriaceo, una corazza all’interno della quale si trastullano, gioiosi, come delle larve.Sono dappertutto. Nei governi neutrali degli Stati neutrali, tra gli Alleati, nei Paesi occupati, tra la maggioranza, tra la minoranza, tra di noi. I bystander siamo noi.Per sessant’anni questi osservatori ciechi si battono il petto dicendo, anzi gridando, siamo innocenti, perché non sapevamo, e con l’arrivo di nuove guerre e nuovi guai, fanno il loro ingresso nuovi osservatori, nascono nuovi eserciti di giovani e robusti bystander dagli occhi bendati, che si nutrono dell’innocenza dell’osservatore, di un’inossidabile compatibilità. Sono gli adattati, coloro che assecondano il male. Nessuna banalità. Grazie ad acqueagitate che mi ha portato da questo libro, qui. Daša DrndićTrieste. Un romanzo documentario trad. Liliana Avirovićpp. 444Bompiani, Milano 2015 Una citazione, qui