Io non sono sicura che si possa parlare, scrivere, di questo libro. Questo libro che è romanzo, questo libro che è un documentario.
Questo libro monumentale.
Daša Drndić ha un controllo della parola e del materiale narrativo che mette in soggezione. Daša Drndić accumula, uno dopo l’altro, i pezzi di un puzzle, li accumula, li ordina, li sparpaglia, li unisce, i pezzi di un puzzle.
Il puzzle.
Ma senza cornice, perché la Storia non vuole cornici. La Storia preferisce rimanere aperta, perché può essere continuamente aggiornata e moltiplicata.
Daša Drndić, nella traduzione di Ljiljana Avirović, avanza, una pagina dopo l’altra. Nessuna tregua, nessuna sosta. Non c’è spazio bianco, non c’è sospensione. Non c’è parola che possa essere spazio bianco neutro per sospendere la lettura o i pensieri.
Tanti pensieri. Che non confluiscono nel pianto nato dalle corde della commozione.
Non gioca con quelle corde, Daša Drndić.
I pensieri si sommano, si accalcano, un nome dopo l’altro, un luogo dopo l’altro, un’informazione dopo l’altra, nessuno si salva davvero, il puzzle si compone, un pezzo dopo l’altro e i pensieri si ordinano compatti intorno alla rabbia, al rancore, allo sgomento davanti all’osceno, di fronte alla totalità del male, nessuna banalità, nessuno si salva davvero ed è raro, in ogni caso, che la guerra lasci qualcuno ai margini”.
Trieste, Görz Gorizia Gorica. I ricordi, la storia di una famiglia, di tante famiglie. La finzione che si innesta sulla Storia. L’Isonzo, l’archivio liquido della storia. Triblinka, le trincee, i vagoni piombati, il processo di Norimberga. La Svizzera neutrale e la Croce Rossa. D’altra parte ognuno si para il culo per quanto può, compresa la Croce Rossa internazionale. Compresa la Chiesa, in particolare quella cattolica. Kurt Franz, Ja, Tedeschi. Ein jüdischer Name. Il processo del 1976 per i crimini nella Risiera di San Sabba. Bad Arolsen, la biblioteca dell’orrore. I figlie e le figlie del progetto Lebensborn. Come i figli e le figlie dell’Auxilio Social, Spagna 1939.
E una donna seduta di fronte ad una finestra che svelle gli arbusti dei propri ricordi, senza sapere se sono sprofondati nel terreno della memoria oppure se si muovono smarriti, disorientati in un presente rimosso.
Nessuno si salva davvero.
Le serate danzanti, il valzer. Il cinematografo.
Oh happy days.
Il passato, che torna. Una cesta rossa piena di foto, ritagli di giornale, locandine. Nomi. Luoghi. La ricostruzione dei fatti. Della storia. Della Storia. Del puzzle.
Il puzzle.
Com’è che non sono mai riuscita a vedere?
Un romanzo che è documentario, ricostruzione, archivio in cui Daša Drndić non tocca, quindi, le corde della commozione ma quelle dell’accusa e della responsabilità.
Per i più, per gli ubbidienti e i taciturni, per coloro che se ne stanno in disparte, per i bystander, la vita comincia a diventare una piccola valigia che non viene mai aperta, un leggero bagaglio ficcato sotto il letto, una borsa destinata a nessun luogo, nella quale tutto è ordinatamente riposto – giorni, lacrime, morti e piccole gioie – e da cui si sprigiona un odore di muffa. Chi se ne rimane in disparte non sai mai cosa pensa, per chi fa il tifo, visto che se ne sta semplicemente lì e osserva cosa gli accade intorno, come se nulla in realtà accadesse. Si adatta alle regole e alle leggi di chiunque, cosa che, una volta terminate le guerre, può sempre tornare a suo favore. E i bystander sono molti, la maggioranza.
Osservatori ciechi, gente “semplice” che gioca solo le carte sicure, sono i cosiddetti “sichere Menschen”. Intendono vivere i propri giorni senza essere disturbati. In guerra e fuori dalla guerra, questi osservatori ciechi girano la testa dall’altra parte, mostrano indifferenza e si rifiutano di compatire chicchessia; la loro autodifesa è uno scudo coriaceo, una corazza all’interno della quale si trastullano, gioiosi, come delle larve.
Sono dappertutto. Nei governi neutrali degli Stati neutrali, tra gli Alleati, nei Paesi occupati, tra la maggioranza, tra la minoranza, tra di noi. I bystander siamo noi.
Per sessant’anni questi osservatori ciechi si battono il petto dicendo, anzi gridando, siamo innocenti, perché non sapevamo, e con l’arrivo di nuove guerre e nuovi guai, fanno il loro ingresso nuovi osservatori, nascono nuovi eserciti di giovani e robusti bystander dagli occhi bendati, che si nutrono dell’innocenza dell’osservatore, di un’inossidabile compatibilità. Sono gli adattati, coloro che assecondano il male.
Nessuna banalità.
Grazie ad acqueagitate che mi ha portato da questo libro, qui.
Daša Drndić
Trieste. Un romanzo documentario trad. Liliana Avirović
pp. 444
Bompiani, Milano 2015
Una citazione, qui