
Autogrill di Alessandra Gondolo – (non) recensione
Autogril di Alessandro Gondolo è la storia di come si può imparare a sorridere anche quando si pensa di non esserne assolutamente capaci.
Insomma, scrivo solo le (non) recensioni di libri che sono entrati, in un modo o nell’altro, ogni volta diverso, nella mia Biblioteca di Babele.
Una frase, un passaggio. Un’epifania. Il riconoscersi nel dipanarsi della trama. L’idea. Il linguaggio. Una particolare forma, una particolare struttura. La capacità di contenere tutto il possibile. Un certo senso di urgenza. La complessità che scivola fluida.
Scrivo le (non) recensioni di libri che hanno lasciato cadere qualcosa, non importa se grande o piccolo, questo qualcosa, l’importante è che è caduto, e si sedimentato.
A ciascuna parete di ciascun esagono corrispondono cinque scaffali; ciascuno scaffale contiene trentadue libri di formato uniforme; ciascun libro è di quattrocentodieci pagine; ciascuna pagina, di quaranta righe; ciascuna riga, di quaranta lettere di colore nero. Vi sono anche delle lettere sulla costola di ciascun libro; non, però, che indichino o prefigurino ciò che diranno le pagine. So che questa incoerenza, un tempo, parve misteriosa.
La Biblioteca di Babele, Jorge Luis Borges

Autogril di Alessandro Gondolo è la storia di come si può imparare a sorridere anche quando si pensa di non esserne assolutamente capaci.

C’è qualcosa nella scrittura di Violetta Bellocchio che si aggrappa da qualche parte, in profondità. Molto in profondità. Qualcosa.
Qualcosa della sua scrittura si stacca dal testo e si aggrappa.

L’arte della gioia di Goliarda Sapienza è un libro che fa girare la testa. Questo è bene dirlo subito, e potrebbe bastare questo. Ho letto quest’immenso capolavoro per la prima volta nel 2011. Folgorata. L’ho riletto, mi pare, nel 2022. Folgorata. Recentemente, non ricordo dove, ho ascoltato lo stralcio di un’intervista a qualcuno che non ricordo, che ad un certo punto dice “no, nessun libro mi ha cambiato la vita, i libri non cambiano la vita”. E io ho subito pensato a L’arte della gioia di Goliarda Sapienza. Poi ho pensato che i libri te la cambiano eccome la vita, di poco, di tanto. Dipende. Da te e dal libro. Tutto ti può cambiare la vita, tutto può provocare uno slittamento, un’inversione. Un cambio di prospettiva. Trovare una risposta. Riconoscere una domanda. O La Domanda. Ci penso da qualche giorno. Al potere dei libri, al potere della parola. E a volte penso ancora che le mie parole possano tornare. A volte penso che non se ne sono mai andate, che sono ancora lì, ancora tutte lì. Tutte quelle che non ho scritto. Tutte quelle che non ho più scritto, negli anni. Tutte in sala d’attesa. Nel 2011, dopo aver letto L’arte della gioia per la prima volta, ho scritto questa (non) recensione. Vale ancora tutto. E di più. L’arte della gioia è un libro che fa girare la testa, che lo leggi e ad ogni pausa tiri il fiato, frastornata. L’arte della gioia è un libro che bisogna leggere, ché se non lo fai ti manca un pezzo, perdi qualcosa di importante. È un torrente di parole che travolge, e ti trascina, e sei dentro al libro come sempre dovrebbe succedere. E sei con i personaggi, tutti, e vorresti conoscerli, parlarci, viverci. Sei con Modesta. Che ha fame di Vita, di Parole, di Gioia, di Amore e di Libertà, e non china la testa, mastica i giorni e gli anni senza posa, cerca, trova, scarnifica gli eventi, costruisce per sé e per gli altri quello che la sua mente desidera. Applica la coerenza al pensiero che si fa azione. Che scava, dentro di sé, dentro gli altri e dentro la Storia. E finisci per scavare anche tu che leggi, negli stessi posti. E di più. Che si libera, spezzando una catena dopo l’altra, frantumandole alla radice. Modesta, che è nata nel 1900 ed è facile fare il conto dei suoi anni. Modesta che vive al ritmo di una musica nuova, caparbia, futuribile. Modesta. […] Ora poi che le scriveva le parole lì sul bianco della carta, nero su bianco, non le avrebbe perdute più, non le avrebbe dimenticate più. Erano sue, solo sue. Le aveva rubate, rubate a tutti quei libri per bocca di madre Leonora. […] […] Impensatamente quell’emozione di odio – che loro dicevano peccato – mi diede una sferzata di gioia così forte che dovetti stringere i pugni e le labbra per non mettermi a cantare e a correre. […]: la odio, la odio, la odio, gridai dopo essermi assicurata che la porta fosse ben chiusa. La corazza di malinconia si staccava a pezzi dal mio corpo, il torace si allargava scosso dall’energia di quel sentimento. […] […] Ma fissando me stessa vidi il mio futuro: presa in quel tranello, le gambe spezzate dalla trappola “d’essere qualcuno”. Sfuggito il convento, la religiosità buttata dalla finestra rispuntava da qualche buco della mia stanza cavalcando il topo dell’estetica. […] Messaggio del mio profondo di secoli, m’avvertiva di stare in guardia da me stessa e correre al sole. Non avrei più ripreso quella ricerca di poesia finché non avessi avuto la prova da me stessa che era un gioco e solo un gioco […]. […] Fra venti, trent’anni, non accusate l’uomo quando vi troverete a piangere nei pochi metri di una stanzetta con le mani mangiate dalla varechina. Non è l’uomo che vi ha tradite, ma queste donne ex schiave che hanno volutamente dimenticato la loro schiavitù e, rinnegandovi, si affiancano agli uomini nei veri poteri. […] […] E state attenti perché di questo passo quando le donne si accorgeranno di come vuoi uomini di sinistra sorridete con sufficienza paternalistica ai loro discorsi, quando la tua Amalia si accorgerà di non essere ascoltata e di fare due lavori sfinendosi davanti ai fornelli e in laboratorio – perché non mi parli mai del lavoro di Amalia, eh? Perché devo sentire solo quanto è dolce, carina o gelosa? – quando si accorgeranno, la loro vendetta sarà tremenda, […] L’arte della gioia è una scrittura che non avevo letto mai. Capace di alternare prima e terza persona come non credevo si potesse fare, giocando con la prospettiva della narrazione, il guardare, il guardarsi, il lasciarsi guardare, entrare e uscire da sé, e di muoversi tra passato presente futuro con una fluidità che da al testo la forza dell’annullamento del qui e ora dando vita ad una narrazione elastica e totale che abbraccia il ricordo, il momento presente e il futuro possibile. Una scrittura libera, anarchica, che l’autrice è stata capace di seguire senza scivolare, senza smarririsi lavorando sul materiale narrarivo e sulla struttura che lo contiene, la sola e unica possibile per racchiudere la marea montante di personaggi, pensieri ed eventi, senza mai perdere di vista la narrazione. Un capolavoro. Qui e qui puoi leggere altro su Goliarda Sapienza. L’arte della gioiaGoliarda Sapienzap. 552Einaudi

Assenza. Perdita. Potrebbero essere queste le parole per orientarsi nella lettura de Il corpo inverso di Barbara Guazzini.

Sono fame di Natalia Guerrieri è un libro appiccicoso, intriso di sudore, e un velo di polvere. E una rondine che sulla sua bicicletta scarta le macchine, gli sguardi, il livore, la noia, l’abbandono, l’immondizia di una Capitale che è tutte le capitali di cemento, solitudine e alienazione.

Denti di latte di Silvia Calderoni è, cito dalla pagina di Fandango Libri, un libro indefinibile, inedito, umanissimo.

Un centinaio di pagine così dense che non si riesce bene a capire come Silvia Tebaldi sia riuscita a far stare così tanto in così poco spazio.

Pelleossa di Veronica Galletta è come un mosaico, piccole tessere colorate che solo quando hai messo giù l’ultima ti puoi allontanare e vedere, e capire, il disegno che si è formato durante la lettura.

Ultramarino di Mariette Navarro è narrazione in purezza. Narrazione intesa come l’atto del narrare, di rappresentare con la parola scritta, o altri strumenti, storie, situazioni reali o fantastiche.

L’invincibile estate di Liliana di Cristina Rivera Garza è un memoir, è una biografia e un’autobiografia. È un romanzo, ma è anche una storia vera. È ri-costruzione e de-costruzione.

Disarticolato. Ecco la prima parola che mi viene in mente se penso al romanzo Sangue e viscere al liceo di Kathy Acker.

Noi siamo campo di battaglia di Nicoletta Vallorani mi ha colpito molto più di quanto pensassi. Qualcosa, di questa storia, si è sedimentato e non smette di ticchettare.

Certi libri, li senti arrivare. Subito. Qualcosa, già dalle prime pagine. Qualcosa nella struttura, nel linguaggio. O forse nel suono. Qualcosa ti dice chiaramente che stai per leggere uno di quei libri.

Scena di apertura, la fuga. Qualcuno corre, nel buio, scappa. Un ponte di legno e corde, delle siepi. Cinghiali dalle zanne gialle e appuntite che con i denti rompono il metallo.

La cronologia dell’acqua è voce. Voce che torna, su carta, attraverso la carta e grazie alla carta, potente, dissacrante, onesta. Reale. Vera. Una voce piena di segreti furiosi, rotture e vergogna.

È una mano che allarga la ferita aperta e mostra la carne viva, sangue, muscoli, tendini. E manifesta l’illusione perpetua delle rivoluzioni. È la descrizione del potere che alimenta, difende e replica se stesso.

Nina sull’argine è un romanzo interno, ti dice quello che accade dentro Nina. I pensieri, le paure, domande e fiumi da arginare mentre all’esterno le cose si muovono. Amori da interrompere, ponti da costruire.

Sistema nervoso è un romanzo denso. Nessun passaggio neutro, né paragrafi di sosta o raccordi di sospensione. Nessuna descrizione o digressione su cui soffermarsi a decomprimere la lettura, per prendere fiato.

Ho sempre guardato all’urgenza come ad un elemento necessario, imprescindibile per la scrittura. Per la buona scrittura. Quella di Filo Sottile, di urgenza, percorre tutta la totalità del suo testo, a volte come un sottofondo quasi irriconoscibile, a volte come una scarica.

È un profondo senso di frustrazione che guida la scrittura di quel post in cui Reni Eddo-Lodge dice, con chiarezza ed estrema lucidità, che non parlerà più di razzismo con le persone bianche. O almeno,