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Giorno: Maggio 21, 2010

casa nuova, ripittata alle pareti e via

Oggi ho fatto il trasloco da blogspot a wordpress … sarà la primavera, che spinge al cambiamento, o forse che blogspot mi metteva i post un po’ come voleva lui. Comunque … i mobili li ho sistemati, i libri li ho messi nelle librerie, le pareti le ho pittate. Ma sono instabile, molto instabile. Potrei voler cambiare colore da un momento all’altro.

Il sentiero degli dei – Wu Ming 2

(giovedì 20 maggio 2010 dal blogspot) Sarà che nelle vene mi scorre sangue mugellese. Sarà che da sette anni, e forse più, almeno una volta al mese salgo su un treno che da Milano mi porta Firenze passando per Bologna. Sarà che la TAV mi è sempre stata sui cabbasisi. Sarà che c’è una casa, sull’Appennino, in cui è rimasta una parte del mio cuore. Sarà che ci sono delle cose che vanno sapute e questo libro te le dice. Saranno tante cose, ma a me, “Il sentiero degli Dei” mi è proprio piaciuto. Mi è sembrata una dichiarazione d’amore, oltre a tutte le altre cose che (cito alla rovescia dalla nota dell’Autore) non è difficile sostenere che sia. Una dichiarazione d’amore per un certo modo di vivere. Per i dettagli, per la capacità che non andrebbe persa di scorgerli in mezzo al caos. I dettagli che compongono l’insieme. E se fosse una persona in carne ed ossa, questo libro di Wu Ming 2 sarebbe un ottimo compagno di bevute. Quelle bevute che ti fai seduto a qualche tavolaccio di legno, con il vino nei bicchieri di vetro spesso, vino rosso che alla fine ti lascia il segno sulle labbra. Quelle bevute lente ma costanti in cui c’è spazio per tutto. Per le risate e le incazzature, per la politica (quella pulita, se c’è), per la memoria e il racconto. Per i pensieri che ti lasciano un segno addosso come fa il vino sulle labbra. […] È questa prospettiva che toglie senso al mondo, non la velocità assoluta del viaggio. Il bisogno di arrivare prima, arrivare prima, arrivare prima ti fa odiare gli ostacoli, le montagne, i boschi troppo fitti. L’aereo risolve il problema volando, a diecimila metri dal suolo e dalla sua crosta irregolare. Il treno ad alta velocità, invece, prende la logica dell’aereo e la porta sulla terra. Bologna e Firenze si avvicinano, come i due capolinea di una metro, ma quel che ci sta in mezzo si allontana, in un crepuscolo senza nome. Il tempo si mangia lo spazio e i luoghi svaniscono, svuotati come gallerie dalla corsa del treno. […] Ferro e cemento diventano il simbolo di una utopia negativa (un’atopia, come la chiama qualcuno): territorio senza paesaggio. Una terra da perforare senza che nulla ti resti appiccicato addosso, nemmeno un ruscello intravisto dal finestrino. […] Wu Ming 2 Il sentiero degli dei edicicloeditore p. 206

Caino – José Saramago

Saramago, in un’intervista rilasciata a Serena Dandini a “Parla con me”, ha detto: “Più vecchio si è, più libero si diventa. Più libero si diventa più radicale si diventa. Questa è la mia idea.” L’intervista verteva su “Il Quaderno”, la raccolta di scritti tratti dal blog del signor premio Nobel, censurati dall’Einaudi (all’epoca casa editrice di Saramago passato adesso a Feltrinelli) e pubblicati dalla Bollati Boringhieri. Non parlava, dunque, di “Caino” in quell’intervista ma resta il fatto che questo romanzo è sicuramente radicale, è sicuramente libero e, aggiungo, è sicuramente liberatorio. Saramago torna a parlare di religione dopo “Il vangelo secondo Gesù Cristo” ma sceglie un registro diverso, stilisticamente più semplice, ma forse solo in apparenza, e lucidamente, spietatamente ironico. Si ride, e tanto, a leggere questo Caino. E si pensa, tanto. Saramago non si trattiene e ci racconta una versione dei fatti biblici che mette l’accento su questioni a cui almeno una volta abbiamo rivolto un pensiero (critico, scettico, incredulo). La scrittura di Saramago è perfetta, granitica, comanda la narrazione e manipola il materiale narrativo a suo piacimento per portare il lettore ovunque voglia, ovunque sia necessario, anche, come in questo caso, nell’antico testamento. E sceglie un personaggio scomodo, Caino, l’assassino. Colui che odia dio, che ha alzato la mano contro il fratello sferrando un colpo mortale. E’ dunque con Caino, viaggiatore involontario a spasso nel tempo, che ci troviamo, vicenda dopo vicenda, di fronte a questa figura di dio che Saramago ci restituisce come un vecchio iracondo, cattivo, avido e vendicativo. E’ la mano di Caino che afferra il polso di Abramo per impedirgli di uccidere il figlio Isacco. “Il lettore ha capito bene, il signore ha ordinato ad abramo di sacrificargli proprio il figlio, e il tutto con la massima semplicità […]. La cosa logica, la cosa naturale, la cosa semplicemente umana sarebbe stata che abramo avesse mandato il signore a cagare, ma non è andata così”. E’ con gli occhi di Caino che assistiamo alla distruzione della torre di Babele, al massacro di Sodoma e Gomorra e alla trasformazione in statua di sale della moglie di Lot che disubbidisce e si volta a guardare in dietro la sua città in fiamme. “E possibile che il signore avesse voluto punire la curiosità come si trattasse di un peccato mortale, ma anche questo non depone molto a favore della sua intelligenza, si veda cosa è successo con l’albero del bene e del male, se eva non avesse dato ad adamo quel frutto da mangiare, se non lo avesse mangiato lei stessa, staremo ancora nel giardino dell’eden, con tutta la noia che c’era.” Ascoltiamo con le orecchie di Caino, per bocca di Mosè, la volontà di dio, la sua ira che si abbatte sugli adoratori del vitello d’oro. “Ecco ciò che dice il signore, dio di israele, che ciascuno prenda una spada, […] e andate di porta in porta, ciascuno di voi uccidendo il fratello, l’amico, il vicino. E così morirono circa tremila persone.” Caino/Saramago non fa sconti al signore, lo affronta, lo accusa. In dialoghi che sono perfetta narrativa, con punte favolose di sarcasmo e ironia, Caino/Saramago non fa mai un passo indietro e pretende, pretende una spiegazione per le efferatezze, i capricci e le punizioni inflitte agli uomini da questo dio “che dovrebbe essere trasparente e limpido come un cristallo invece di questo continuo spavento, di questa paura costante.” E il signore, “noto anche come dio”, sa quanto anche me piacerebbe farlo. “Caino” José Saramago Feltrinelli p. 142 (mercoledì 12 maggio 2010 dal blogspot)

Per chi si scrive? (Lo scaffale ipotetico) – Italo Calvino, da “Una pietra sopra”

“Rinascita”, n°46 del 24 novembre 1967. Risposta ad una inchiesta aperta da Gian Carlo Ferretti sul n° 39 del settimanale, sul tema: Per chi si scrive un romanzo? Per chi si scrive una poesia? Bellissimo articolo. Con delle controindicazioni per la sottoscritta. Si scrive pensando ad un ipotetico scaffale composto di libri accanto ai quali mettere il nostro. Si scrive pensando ad un ipotetico scaffale dove l’ingresso del nostro libro creerà scompiglio, scombinando l’ordine costituito delle preferenze, dei gusti e delle priorità del lettore. Si scrive per un lettore che ancora non c’è, o per il lettore che muterà e non sarà più lo stesso. Perché la letteratura che interessa a Calvino non è quella che ripete, afferma e conferma se stessa, ma quella capace di sovvertire e mettere in discussione la scala dei valori e il codice dei significati stabiliti, innescando un processo di crescita e cambiamento. Tanto più il libro che stiamo scrivendo è pensato per uno scaffale ancora in divenire, tanto più il nostro sarà un lavoro interessante, un’opera importante. Uno scaffale dove ancora non sono state trovate tutte le possibili combinazioni e dove nuovi accostamenti possono provocare scosse e corti circuiti. Rilanciare nuove reti e nuovi collegamenti. La situazione, secondo Calvino, si fa interessante se si scrivono romanzi per persone che non leggono solo romanzi, se si scrive con in testa l’idea di uno scaffale che non è pieno solo di letteratura. In Italia, naturalmente sempre secondo Calvino, lo scaffale ipotetico degli anni 1945-50 era sostanzialmente storico-politico, ci si rivolgeva a un lettore interessato principalmente alla cultura politica e alla storia contemporanea, e di cui pure pareva urgente soddisfare anche una “domanda” (o carenza) letteraria. Ma, ha ragione Italo, la cultura politica, soprattutto nel dopoguerra italiano, non era certo qualcosa di fisso, stabilito e immutabile a cui la letteratura si potesse affiancare e modellare di conseguenza. La cultura (politica) è qualcosa che esiste in divenire, connessa in tutti i suoi diversi aspetti, che devono essere confrontati e discussi. Nel decennio 1950-60 lo scaffale ipotetico viene imbottito di tutta quella problematica del decadentismo letterario europeo tra le due guerre e il senso “morale e civile” dello storicismo italiano. Ma la funzionalità di un simile scaffale poteva trovare esito positivo solo in ambiti molto ristretti, per perdersi poi in un piano di convergenze molto più vasto. Questo scaffale non serviva più a capire il mondo, gli eventi e l’uomo. Era inevitabile che saltasse in aria. E ci salta, in aria. Negli anni ’60. L’informazione si è fatta più ricca, non si guarda alla tradizione ma ai problemi del qui e adesso, la questione si fa più ampia, si allarga su scala mondiale. Lo scaffale che ha in mente adesso lo scrittore ha al primo posto tutto ciò che è strumento per la critica del fatto letterario che può essere dunque smontato in tutte le sue parti. A questo scaffale non si aggiunge della letteratura, se ne mette in discussione la collocazione. Dunque si scriveranno romanzi per un lettore che ha capito che non deve più leggere romanzi. E il lettore ipotetico da tenere presente è colto, molto colto, e avrà esigenze epistemologiche, semantiche, metodologiche-pratiche che vorrà continuamente confrontare anche sul piano letterario. A questo punto, Calvino tira il freno a mano e mette sul tavolo due problemi che, dice, non può più evitare. Primo problema. Questo lettore di riferimento, sempre più aggiornato, sempre più colto, sempre più alla ricerca, per necessità, di qualcosa di più non complica ulteriormente, non entra in conflitto con l’urgenza di risolvere il problema dei dislivelli culturali? Pedagogia e politica, secondo Calvino, si trovano di fronte a questo problema, arginare quei disequilibri culturali che mantengo ed alimentano quelli sociali. La letteratura non può che agire perifericamente, in maniera indiretta. La letteratura deve, primariamente, rifiutare ogni soluzione paternalistica. Pensare ad un lettore meno colto e scrivere per lui significa giustificare, alimentare e perpetuare il dislivello stesso. Significa retrocedere, non avanzare. Significa fare una carezza sulla testa del lettore che non ce la fa, rassicurandolo mentre lo si lascia indietro. La letteratura non è la scuola; deve presupporre un pubblico più colto, più colto di quanto non sia lo scrittore; che questo pubblico esista o no non importa. Lo scrittore parla ad un lettore che ne sa più di lui, si finge un se stesso che ne sa più di quel che lui sa, per parlare a qualcuno che ne sa di più ancora. La letteratura non può che giocare al rialzo, puntare sul rincaro, rilanciare la posta, seguire la logica della situazione che necessariamente si aggrava: tocca alla società nel suo complesso trovare la soluzione Secondo problema. Ricordando che questo articolo è del 1967. Da una parte capitalismo e imperialismo, dall’altra proletariato e rivoluzione. Per chi scrive lo scrittore in questo mondo diviso in due? Scrive per entrambi, perché un testo, qualunque testo, indipendentemente dal lettore ipotetico a cui è indirizzato, viene letto dagli amici e dai nemici. E spesso è il nemico che ne trae vantaggi maggiori. Bisogna tenere presente poi che il peso politico della letteratura non è certo così incisivo, in una lotta che esiste e che si risolve su un altro piano, fatto di linee strategiche e rapporti di forza, un piano vastissimo in cui l’opera letteraria si perde. In questo contesto quello che la letteratura può fare è portare la lotta su un livello di consapevolezza più alto, può fornire e incrementare la conoscenza, la capacità di previsione, l’immaginazione. Ma se questo nuovo livello sia a vantaggio della rivoluzione o della reazione non dipende che in misura minima dagli intenti di chi scrive l’opera perché politicamente rivoluzionaria non è tanto l’opera quanto l’uso che se ne può fare e, di pari passo, l’elemento decisivo di giudizio sull’opera in riferimento alla lotta è il livello a cui si situa, il passo avanti che fa compiere alla consapevolezza. Lo scrittore che considera se stesso e la sua opera in guerra deve in primo luogo tener presente il contesto generale in cui

le parole

Nel bene e nel male, oggi nel male, che il mio umore sia collegato alle parole è un dato di fatto assodato, riconosciuto e accettato. A tutte le parole. Quelle che sento e che non vorrei dover ascoltare, che passano dall’orecchio e mi scavano il cervello, facendomi accapponare la pelle, parole stupide, cattive, inutili, che sarebbero potute servire a formulare frasi migliori. Quelle che vengono taciute anche se attese disperatamente. Quelle che leggo e che non riesco a capire. Quelle che leggo e capisco ma che non riesco a spiegare, che mi provocano quell’ansia sottile, ché le sento, dentro, le percepisco, sì, ma ad un livello astratto, inafferrabile. E non riesco a spiegarmele e a spiegarle agli altri. Quelle che non riesco a dire, che servirebbero tanto a ripristinare gli equilibri, sedare gli animi, ricollegare reti che hanno perso il contatto. Quelle che non riesco a scrivere. Che non voglio scrivere. Che non posso scrivere. Che non sono capace di scrivere. Si crea un voragine che risucchia la capacità muscolare di generare un sorriso, la capacità di mediazione con il resto del mondo. Una specie di buco nero fatto di frustrazione e inadeguatezza. Una frenesia isterica che mi trasporta da un’attività inutile all’altra, metto un piatto in lavastoviglie, uno solo, carico la lavatrice, a caso, mi accendo una sigaretta subito dopo aver spento l’ultima, fumata contro voglia. Vago per casa alla ricerca di una porzione di mondo che mi culli e che mi dica che va tutto bene. Che anche questa volta passerà. Che va bene, non ci possiamo fare niente, perché le parole, tutte, quelle che sento, quello che attendo, quelle che leggo e non capisco, quelle che leggo, capisco ma non riesco a spiegare, quelle che non riesco a dire e quelle che non riesco, non voglio, non posso, non sono capace di scrivere mi tengono sotto scacco. Guidano il mio umore e i miei desideri. Guidano la rotta. Mi faccio un caffè, mi siedo in giardino, mi alzo, prendo un libro, lo apro, uno qualsiasi, e cerco la concentrazione, lo stato di stasi attiva. Lo chiudo, mi alzo. Siedo al computer. La testa è un buco nero, insondabile. Temporeggio. Mentre i semi piantati nei vasi dieci giorni fa iniziano inaspettatamente a fare capolino tra la terra umida. Metto a tacere le domande scomode. Cerco di controllare, per quanto possibile, la frenesia isterica che tramuta tutto quello che penso in sottili venature d’ansia e tutti i gesti in movimenti inutili che non avranno seguito. Tranne, con molte probabilità, la lavatrice fatta a caso. Ché c’è un tempo per tutto. C’è un tempo per tutte le parole. Quelle che sento e che non mi stanco di ascoltare. Che si tuffano nell’orecchio e si accoccolano nel cervello, e sulla pelle passa un brivido, parole importanti, gonfie, che non potrebbero creare frasi migliori. Quelle che arrivano, dopo una lunga attesa. Quelle che leggo e che capisco. Quelle che leggo, capisco e riesco a comprendere fino al midollo, fino all’essenza, che aprono nuovi binari di comunicazione e condivisione. Quelle che riesco a scrivere. Quelle che voglio scrivere. Quelle che posso scrivere. Quelle che sono capace di scrivere. (venerdì 30 aprile 2010 dal blogspot)

Senza pudore – Helen Walsh

Ho letteralmente ingoiato questo libro. Inebriante, stancante, altalenante come una sbronza. Ho amato, senza pudore, ogni singola, durissima, dolcissima, acida, anfetaminica, alcolica parola. Mi sono arresa, non ho opposto nessun tipo di resistenza. L’ho ingoiato senza farmi domande. Non mi succedeva da tempo, lasciarmi andare alla lettura senza riflettere, senza analizzare la tecnica o li stile, o la struttura nascosta del testo. L’ho letto. E basta. Ho camminato con Millie per le strade di Liverpool, mi sono ubriacata, mi sono drogata. Ho riso, ho sorriso e ho pianto, con la piccola, dolcissima, stronza Millie. Ho sentito il vuoto della mancanza e il calore dell’amicizia. Ho sentito la testa pesante per il rincorrersi incessante dei pensieri e il cuore gonfiarsi a sentire quelle frasi che da sole bastano a spazzare via tutto. Helen Walsh possiede  un’incredibile padronanza del mezzo. La sua scrittura riesce ad essere contemporaneamente sporca e pulita, dolce e insensibile, ironica e triste, sicura e debole. Niente è di troppo, niente è lì per caso. Ti costruisce intorno un mondo che puoi vedere, toccare, sentire, annusare. Nessuna scena è fine a se stessa, niente è davvero volgare come sembra, ogni cosa che accade accade perché i personaggi la possano vivere e tu con loro. Ogni avvenimento, ogni pensiero, ogni frase è lì per costruire un percorso che segui, e vuoi seguire, fino alla fine. Certi passaggi spezzano il fiato, ti inondano di tenerezza. Altri ti spiazzano, resti immobile. Ho riconosciuto tutto, anche quello che non ho mai vissuto. Senza Pudore Helen Walsh Einaudi p. 238   (domenica 25 aprile 2010 dal blogspot)

(non) recensioni di libri

Nemico, amico, amante – Alice Munro – (non recensione)

Più di una volta, leggendo, mi è venuto in mente Carver, per la scelta delle ambientazioni,la vita quotidiana, per la resa schietta e asciutta dello svolgimento dei fatti. Certo, la Munro scrive molto di più da donna e sulle donne (niente retorica femminista, però, e nemmeno nessun angelo del focolare), e sicuramente è molto ma molto più descrittiva. Ha una scrittura asciutta, precisa, si intuisce un gran lavoro di pulizia e sottrazione. Una struttura narrativa molto solida le permette di non sprecare niente. Non si perde in voli pindarici o fronzoli stilistici,  ci restituisce ambienti e personaggi nella loro quotidianità. A colpire non sono i fatti, innamoramenti, tradimenti,la malattia, amicizia, conflitti familiari, ma come la Munro li deposita sul foglio, il grande controllo del tempo narrativo all’interno del quale fornisce informazioni al lettore. A colpire è che in questi affreschi di umana umanità femminile, in queste traiettorie apparentemente scontate, c’è sempre una deviazione, una curvatura brusca, qualcosa che devia dalla tangente di quotidianità o normalità, qualcosa che colpisce, che emerge dallo sfondo ed accade all’improvviso, ma che si percepisce essere in potenza fin dalle prime righe di ognuno di questi nove racconti. Nemico, amico, amante Alice Munro Einaudi 315 p. [Nemico, amico, amante Il ponte galleggiante Mobili di famiglia Conforto Ortiche Post and Beam Quello che si ricorda Queenie The Bear Came over the Mountain]. (sabato 24 aprile 2010 dal blogspot)

il nuovo libro di Wu Ming 2 – Il sentiero degli dei

Un bel copia e incolla stamattina, direttamente dalla stanza dei bottoni dei Wu Ming Wu Ming 2 Il sentiero degli Dei Edizioni Ediciclo, Collana “a passo d’uomo”. ISBN: 978-88-88829-96-8. In libreria a fine aprile Il secondo volume della collana “A passo d’uomo” diretta da Enrico Brizzi e Marcello Fini. Con la TAV da Bologna a Firenze a 120 km all’ora in 37 minuti. Con Wu Ming 2 a piedi da piazza Maggiore a piazza della Signoria a 5 km all’ora in 5 giorni. Sulla scia di Guerra agli Umani (Einaudi) Wu Ming 2 scrive un libro dai toni forti scoprendo con lentezza un Appennino che, seppur invaso da tanto cemento, ospita ancora cinghiali, faggi e molte storie da raccontare. L’idea è di scavalcare a piedi l’Appennino, per scoprire il mondo che i nuovi treni attraverseranno in galleria, senza potergli dedicare nemmeno uno sguardo. Come uno strano detective alla rovescia, si mette in strada per scoprire non il colpevole, ma le vittime di un delitto annunciato. Cosa ci si perde, a guadagnare venti minuti di tempo nel percorso tra due città? Non vedo l’ora. Mese ricco questo aprile, esce pure Saramago il 21. Olè

possiedo la mia anima - nadia fusioni - non recensione
(non) recensioni di libri

Possiedo la mia anima – Nadia Fusini – (non) recensione

Possiedo la mia anima – Nadia Fusini – (non) recensione Più ci penso, a questo libro, più torno sulla parola armonia. Armonica è la scrittura di Nadia Fusini. Perché prima di tutto, oltre a tutto il resto, questo libro è scritto bene. Armonico è l’incontro di questa scrittura dell’autrice con quella della signora Woolf, i due linguaggi si fondono perfettamente. E questo è un pregio, io credo, quando si decide non di cimentarsi con la biografia di una vita ma con la biografia dell’anima, l’anima di una donna, la signora Woolf che ha fatto della parola e della scrittura la sua vita e viceversa. Armonica è l’anima di Virginia Woolf. Armonico è questo viaggio a cui la Fusini ci invita a partecipare, con molta educazione, discrezione e sincerità. Armonica è la struttura di questo libro, che senza strappi ci restituisce una vita intera raccontata attraverso le opere, le parole, i pensieri di una delle più grandi autrici che abbia mai letto. In certi momenti è stato come leggere i Diari e i Momenti di essere ma da un’altra prospettiva. C’è l’infanzia, Talland House, St. Ives e Hyde Park Gate. Ci sono Leslie Stephen e Julia Prinsep, quel padre e quella madre che tanto hanno significato, nel bene e nel male nella vita di Virginia. C’è Bloomsbury, Vanessa e Thoby. Lytton Strachey, Clive Bell, Roger Fry, E.M. Forster. Katherine Mansfield, Ethel Smith. C’è Leonard Woolf. C’è Vita Sackeville West, che pervade ogni pagina dal 1922 fino all’ultimo giorno di Virginia. Ci sono i libri. Gli amati libri. E c’è la guerra, con la sua insensatezza, il suo orrore, la sua eccessiva realtà. C’è la malattia. Più di tutti gli altri libri che ho letto sulla Woolf, questo delle Fusini, mi ha regalato due ritratti più approfonditi, quello di Leonard e quello di Vita, una visione più chiara dell’importanza che ebbe per Virginia scrivere il saggio “Le tre ghinee” e del passaggio creativo che la portarono a passare da “Le onde” a “Gli anni”, “Roger Fry” e “Tra un atto e l’altro”. Assolutamente da leggere. Se si ama Virginia Woolf, o se si desidera fare un viaggio nell’anima di un’artista. Possiedo la mia anima Nadia Fusini Mondadori p. 347 Possiedo la mia anima – Nadia Fusini – (non) recensione

Lezioni americane – Italo Calvino – (non) recensione

Lezioni americane – Italo Calvino – (non) recensione Leggere “Lezioni Americane. Sei proposte per il prossimo millennio” di Italo Calvino mi ha fatto sentire una stupida. Per capirlo, questo libro, capirlo davvero, dovrei avere una conoscenza più vasta dell’opera di Calvino, di tutta quanta la letteratura mondiale, tutta quanta la filosofia e una notevole destrezza tra i meandri della scienza. È un libro pieno, che affascina, che mette in moto il cervello. È un libro onesto, che non impone e non insegna, ma propone, getta i semi, condivide, analizza. Dalle pagine emerge lo scrittore e l’uomo, con le sue oscillazioni, i suoi dubbi, le sue dicotomie. La sua idea di letteratura come mezzo per la conoscenza, il suo rapporto con le molteplici ramificazioni dell’esistente. L’inafferabbilità dell’universo e il suo fascino irresistibile, il binomio indissolubile tra precisione geometrico/matematica e volo pindarico del mondo fantastico, immaginifico. Nel giugno del 1984 la Harvard University invita ufficialmente Italo Calvino a tenere un ciclo di conferenze per l’anno accademico 1985/86. Calvino si propone di esporre sei “memos”, sei promemoria sulla letteratura. “La mia fiducia nel futuro della letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare coi sui mezzi specifici. Vorrei dunque dedicare queste mie conferenze ad alcuni valori o qualità o specificità della letteratura che mi stanno molto a cuore, cercando di situarle nella prospettiva del nuovo millennio.” Il risultato di questo intento, l’ennesima sfida che Calvino prova a superare, è un libro che è un viaggio, un intreccio di considerazioni, valori, domande, risposte, citazioni e collegamenti. E ci troviamo dunque alle prese con la Leggerezza, la Rapidità, l’Esattezza, la Visibilità e la Molteplicità. Assente la sesta proposta, Consistency. Il 6 settembre del 1985 Calvino viene colpito da Ictus. Muore la notte fra il 18 e il 19 dello stesso mese. Nella mia grande, abissale ignoranza, che mi ha fatto girare per casa mugolando “sono stupida, non capisco” come un mantra esorcizzante, alla fine della lettura, questo libro me lo sono vissuto così … Nella lezione sull’Esattezza, si legge: “Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze.” Siamo dunque alla soglia del nuovo millennio (questo millennio, per intenderci, credo sia bene non dimenticarlo quando si legge questo libro. Calvino, queste proposte, le scrive per questo, nostro, 2000) e siamo in pericolo. E’ in pericolo il linguaggio, e senza linguaggio non c’è letteratura. Dunque, Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità e Molteplicità sono quei valori da tenere in considerazione per salvare il linguaggio, per salvaguardare la letteratura. Solo quando sono giunta alla fine ho avuto la sensazione che la Leggerezza fosse la colonna portante delle proposte calviniane. Leggerezza intesa come “un alleggerimento del linguaggio per cui i significati vengono convogliati su un tessuto verbale come senza peso, fino ad assumere la stessa rarefatta consistenza”,  come “la narrazione d’un ragionamento o d’un processo psicologico in cui agiscono elementi sottili e impercettibili, o qualunque descrizione che comporti un alto grado di astrazione”  oppure come “un immagine figurale di leggerezza che assume un valore emblematico”. Questo, il passaggio che più mi ha dato il respiro ampio della leggerezza: “Nei momenti in cui il regno dell’uomo mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica. Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro … “ Stare sopra, in alto, guardare il mondo da un’altra prospettiva, come Perseo che sconfigge Medusa senza guardarla direttamente ma fissandone l’immagine riflessa nello scudo. Perseo che non abbandona la testa di Medusa, ma la porta con sé. Perché guardare le cose di riflesso, guardare il mondo in modo obliquo, non significa non sapere quanto il mondo sia strano e complesso. Anzi. Partendo da questo concetto di leggerezza si procede nella lettura e si  scopre che, in letteratura, è essenziale essere rapidi, quindi agili, mobili, a proprio agio con il materiale narrativo per districarsi all’interno del tempo narrativo. Rapidità intesa, anche, come una velocità che è mentale, che si riflette nella scrittura in immediatezza, in pulizia espositiva, in capacità di seguire innumerevoli voli pindarici senza mai perdere la direzione. Cambiandola, questa direzione, dilatando e comprimendo il tempo narrativo senza sobbalzi ritmici, plasmando la scrittura per poterci inserire tutto il possibile. Il sapersi interrompere e il saper riprendere, il saper passare senza intoppi da un’immagine all’altra in un’economia del testo che è perfetta armonia di ritmo e concetti esposti. Stupenda la parte in cui Calvino individua il mestiere scrittura: “Mercurio e Vulcano rappresentano le due funzioni vitali inseparabili e complementari: Mercurio la sintonia, ossia la partecipazione al mondo intorno a noi; Vulcano la focalità, ossia la concentrazione costruttiva”. E più avanti, ancora più approfondito: “La concentrazione e la craftsmanship di Vulcano sono le condizioni necessarie per le scrivere le avventure e le metamorfosi di Mercurio. La mobilità e la sveltezza di Mercurio sono le condizioni necessarie perché le fatiche interminabili di Vulcano diventino portatrici di significato […]. Il lavoro dello scrittore deve tenere conto di tempi diversi: il tempo di Mercurio e il tempo di Vulcano, un messaggio di immediatezza ottenuto a forza di aggiustamenti pazienti e meticolosi; un’intuizione istantanea che appena formulata assume la definitività di ciò che non poteva essere altrimenti: ma anche il tempo che scorre senza altro intento che lasciare che i sentimenti e i pensieri si sedimentino, maturino, si distacchino da ogni impazienza e da ogni contingenza effimera.” La necessità di lasciarci colpire dal

di libri e liste

Faccio ordine tra le priorità libresche, che vengono poi puntualmente ignorate, ma almeno per qualche attimo mi illudo di seguire un filo e un percorso nella scelta delle letture. Tipo, leggere Don De Lillo perché ne parla Giuseppe Genna. Comunque. – The Paris Review. Interviste. Vol. 1, Fandango Libri Sedici interviste che pare siano, alla fine, viaggi nella scrittura. Dentro ci sono le interviste a Saul Bellow, Elizabeth Bishop, Jorge Luis Borges, James M. Cain, Truman Capote, Joan Didion, T.S. Eliot, Jack Gilbert, Robert Gottlieb, Ernest Hemingway, Dorothy Parker, Richard Price, Rober Stone, Kurt Vonnegut, Rebecca West, Billy Wilder. Ci fosse anche solo l’intervista a Borges, posso privarmene? Non credo. – Panta. Scrittura Creativa. La scrittura creativa raccontata dagli scrittori che la insegnano. (Bompiani) Questo magari è tanto fumo ma poco arrosto, però mi incuriosisce lo stesso. Dal sito isb.it: Storie, chiacchiere di bottega, segreti e curiosità sui percorsi della scrittura: questo libro è uno strumento indispensabile per chi ama scrivere, ma anche per coloro che vogliono semplicemente esercitare una forma di lettura ragionata e attenta. […] Essenzialmente si tratta di interviste in cui si presentano i criteri, i modi, le forme, i tempi con cui il singolo scrittore trasforma in narrazione pensieri e idee, corredate di una fotografia scelta dall’autore per testimoniare visivamente il proprio pensiero. […] E poi.  A leggere “Lezioni Americane. Sei proposte per il prossimo millennio.” di Calvino ti si apre un mondo di collegamenti che a starci dietro non ti bastano due vite. – La camera chiara. Nota sulla fotografia., Roland Barthes (Einaudi) Un libro di cosiderazioni sulla fotografia, sulle percezioni, il tutto condito con un po’ di semiotica. Per non farsi mancare nulla. – L’altro mondo ovvero Gli Stati e gli imperi della luna, Cyrano de Bergerac (Liguori) Visionario anticipo della moderna fantascienza, a quanto pare. Per non voler poi aggiungere, aprendo un mutuo e attaccandosi ad una flebo di zuccheri, – Quaderni, Paul Valéry (Adelphi) Olè. (lunedì 22 marzo 2010 dal blogspot)

voglio guardare - diego de silva - (non) recensione
(non) recensioni di libri

Voglio guardare – Diego De Silva – (non) recensione

Voglio guardare – Diego De Silva – (non) recensione Sono venti minuti abbondanti che sto ferma immobile di fronte alla pagina bianca cercando di capire cosa c’è da dire su questo libro. Comincio a digitare sulla tastiera quando nella mia testa si forma un pensiero: questo libro non va capito, questo libro non si spiega, e nemmeno lo si può raccontare. C’è la scrittura di De Silva, piena, densa e consapevole. È una scrittura che sa di amore e cura per le parole che si susseguono senza intralci o dissonanze. Alcuni passaggi sono piccole perle di perfezione stilistica. Il linguaggio è colonna portante per tutto il testo, le parole sono collegate l’una all’altra dal filo di una narrazione forte e precisa. E poi c’è tutto il resto. De Silva mette a fuoco, con una calda freddezza, il lato oscuro. Deposita sulla pagina l’ossessione, mette a nudo l’inadeguatezza. Ci porge il male, l’osceno, l’orribile. Ci dice l’indicibile. E ciò che colpisce è la totale assenza di giudizio, né positivo né negativo, la scrittura priva di didascalia o significato sottinteso, il puro e semplice narrare. Nessuna spiegazione, nessuna lezione. È per questo, forse, che a tratti può sembrare che lo scrittore non si spinga sufficientemente dentro la trama, dentro le cose. Ma se l’avesse fatto, io credo, sarebbe venuta a mancare quest’assenza di giudizio, questa restituzione quasi chirurgica dei fatti e dei sommovimenti dei protagonisti. Scendere nei dettagli, rispondere alle domande, spiegare le psicologie avrebbe sporcato il testo. Forse tutto quello che c’è da capire in questo libro sta nel titolo. “Voglio guardare”. Questo si fa, leggendo questo romanzo. Si sta a guardare i due protagonisti che scivolano nel baratro, un passo alla volta. E lo facciamo da una posizione privilegiata, al sicuro, lontani. Ma quando lo chiudi, quando l’ultima pagina è stata archiviata, per un attimo, non ti senti poi così al sicuro. Quanto sono al sicuro dal mio lato oscuro, quanto sono al sicuro dalla degenerazione della mia ossessione. Quanto sono al sicuro della mia inadeguatezza. “Voglio guardare” Diego De Silva Einaudi 183 p.

Su Amélie Nothomb

Su Amélie Nothomb. Ho conosciuto la signora Nothomb un paio di anni fa, attraverso la lettura de “Le catilinarie”. Una folgorazione. Poi la lettura va così, ci si distrae, altri autori prendono il sopravvento, altri titoli stuzzicano l’interesse. Qualche mese fa, anche grazie alla scoperta del meraviglioso mondo delle biblioteche [lo so, usufruire per la prima volta di una biblioteca a trent’anni è un po’ una bestemmia, ma prendetemi così come sono, sconnessa], ho fagocitato quasi tutta la produzione letteraria di quest’autrice che parla il franponese. Mi mancano ancora tre titoli, [Ritorno a Pompei, Cosmetica del nemico e Attentato, senza tenere conto del nuovo lavoro di prossima uscita “Il viaggio d’inverno”], ma voglio comunque tirare le somme di questo viaggio nel paese Nothomb. Mi girano dentro le stesse considerazioni iniziali, quelle scaturite dalla lettura de “Le catilinarie”. E l’idea che ho è quella di un’estremista del linguaggio, una situazionista della letteratura. I suoi romanzi fanno la loro apparizione, favole moderne, toccano terra, toccano il lettore, toccano me, ed esplodono. Mi restano nella testa parole ricorrenti che sono qualcosa d’altro, sono concetti. La voluttà, il piacere, la fame, la morte, l’adolescenza. E mi restano appiccicate dentro immagini ben definite. Amélie bambina davanti all’oscenità delle bocche voraci delle carpe e quel desiderio, totalizzante, di non farlo mai più, di non dover mai più dargli del cibo per non assistere di nuovo ad una simile scena. Blanche costretta [?] ad osservarsi nello specchio mentre esegue quegli esercizi che le aveva consigliato[imposto] [Anti]Christa. L’insonnia di Emile. CKZ 114 che pronuncia il suo nome: “Pannonique”. Gli occhi di Plectrude. Amélie adolescente caparbiamente ancorata al divano, e ai libri. La signora Nothomb [mi viene da chiamarla così, non so perché] mi da l’idea di una  speleologa che si cala, legata ben salda alla sua corda, nell’animo umano, alla ricerca di qualcosa. E per la sua ricerca si arma di storie semplici [apparentemente] e personaggi estremi. Trame lineari, favole, con dentro tutta la complessità umana. Ecco, speleologa della complessità umana che ci viene restituita con ironia, precisione chirurgica e molta dolcezza. Si possono non apprezzare i suoi libri, ché si sa, la letteratura è questione di gusti, e sui gusti non si discute. Ma non si può certo dire che la signora Nothomb non sa fare il suo mestiere. Linguaggio e struttura concorrono a creare piccole perle lucide e schiette che vanno a piazzarsi lì, nella pancia e nella testa del lettore, nel bene e nel male, a suscitare reazioni. Reazioni calde, fredde, positive, negative. E lo fa con un lavoro importante fatto di parole, mai scritte senza un perché. Il risultato si concretizza nello sguardo di bambina traghettato a noi con un linguaggio strabiliante in “Metafisica dei tubi”, nel parossismo crescente de “Le catilinarie” e di “Antichrista”, nell’igiene di Pretextat Tach, nell’amore profondo in Diario di Rondine, nei due, meravigliosi, finali di Mercurio, e nell’allucinazione, disarmante, di Acido Solforico. Ho incontrato, insomma, un’autrice che mi scuote e di cui riconosco la creatività. Una scrittrice capace di farmi ridere, piangere, fermare, tremare, pensare. Un’autrice che sa guardare le cose da un punto di vista apparentemente semplice ma che invece semplice non è. Un punto di vista obliquo, anomalo, diverso. Per adesso, fin qui, questo. Lascio sedimentare i pensieri adesso, in attesa di leggere gli ultimi titoli che mi restano. per saperne di più sulla signora Nothomb www.amelienothomb.com

L'uomo duplicato - José Saramago - (non) recensione
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L’uomo duplicato – José Saramago – (non) recensione

L’uomo duplicato – José Saramago – (non) recensione (venerdì 12 marzo dal blogspot) Il mare è bagnato, la neve è bianca, il fuoco brucia. Saramago è un genio.  
Sempre pungente, mai banale, un punto di vista profondo e obliquo sull’uomo. Una scrittura a spirale che ti trascina dentro la storia del professore di storia Tertuliano Maximo Afonso che una sera, in un film, vede un attore secondario che è la sua copia esatta.Ti trascina nella sua metodica ricerca, nei suoi pensieri e congetture, scrupoli e paure. E del suo doppio. L’uomo messo a nudo che agisce all’interno di una situazione letteraria surreale che mette in atto gesti, e macina pensieri, di un’umanità disarmante. Nel bene e nel male. E ti lascia senza fiato. Come al solito. Una storia delirante, un gran bel libro, di quelli con la L. “L’uomo duplicato”José SaramagoEinaudi286 p.

Dies Irae - Giuseppe Genna - (non) recensione
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Dies Irae – Giuseppe Genna – (non) recensione

Dies Irae – Giuseppe Genna – (non) recensione Un romanzo (?) che copre un arco temporale che va dal 1981 al 2006.Dalla morte di Alfredino Rampi, il bambino caduto (?) nel pozzo a Vermicino, Genna snocciola la storia del paese Italia, passando per Gelli, la P2, il processo Calvi, la nascita di Milano 3, la caduta del muro di Berlino, Tangentopoli, la guerra in Iraq, i servizi segreti.La fa scorrere, la storia del paese Italia, attraverso la vicenda di tre personaggi principali, Paola C. alle prese con la fuga dal suo trauma, Monica B., figlia della Milano bene travolta da tangetopoli, e lo scrittore Giuseppe Genna. Tutti caduti in un pozzo da cui devono riuscire ad uscire. Come il paese Italia. Un libro di cui ho divorato le prime 600 pagine, nonostante la sintassi articolata e il linguaggio non proprio quotidiano di Genna, facendo un po’ di fatica ad affrontare le ultime 100, provando un affetto particolare per il personaggio di Paolo C. E resto, ancora, dopo aver letto anche Italia De Profundis, con questa oscillazione interiore che non mi porta a decidere se Genna sia un genio o un abile affabulatore, uno che sa usare le parole insomma. O tutte e due le cose.E comunque, un libro che mette il moto il muscolo cervello, che apre finestre, innesca ragionamenti. Una scrittura che centrifuga, alterando la temperatura corporea durante la lettura.Mi riprometto di leggere altro, in modo da fermare questa oscillazione, o magari no.Che l’altra cosa che non ho capito è se è davvero importante darmi una risposta. Dies IraeGiuseppe GennaRizzoli, 2006761 p. (giovedì 11 marzo 2010 dal blogospot) Dies Irae – Giuseppe Genna – (non) recensione

Carver – I principianti

Lo so. Sono in ritardo. Praticamente di un anno. Ma abbiate pazienza. Al mio orecchio era giunta questa notizia, poi travolta da chissà cos’altro. Torna, adesso, trasformata in urgenza, ché i neuroni hanno impastato i dettagli e formulato un pensiero: “Lo voglio”. “I principianti” di Raymond Carver. Perché la questione è questa. Nel 1981 esce “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” (pubblicato in Italia dalla Minimum Fax). 17 racconti che ho letto, riletto, studiato, smembrato, ingoiato e rigurgitato. Così, per dire. Ecco. “I principianti”, uscito con Einaudi praticamente un anno fa, è la raccolta degli stessi 17 racconti senza l’intervento però dell’editore di Carver, Gordon Lish. Ché il signor Gordon Lish, non è che i racconti di Carver, che ancora non era Carver, li ha solo pubblicati. Si mormora che ci siano, dalla stesura di Carver a quella pubblicata nel 1981, il 50% di pagine in meno, finali cambiati, personaggi rivisti. Insomma. Aver tra le mani “I principianti” significa avere tra le mani un Carver mai letto. Poter mettere sulla scrivania, aperti sullo stesso racconto, questi due volumi, è qualcosa che mi fa aumentare la salivazione. Olè (mercoledì 10 marzo 2010 dal blogspot)

(non) recensione di Tra un atto e l'altro di Virginia Woolf
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Tra un atto e l’altro – Virginia Woolf – (non) recensione

Tra un atto e l’altro – Virginia Woolf – (non) recensione Ci sono miliardi di cose da dire su questo [ultimo] romanzo di Virginia Woolf, ma non riesco a fissarne neanche una.Da leggere, e rileggere, credo, per capirne a fondo ogni immagine, ogni parola. 
Parole mai messe, lì dove sono, per caso.La struttura è satura, ogni immagine è data e ripresa. 
I personaggi sono presenti altrove, nei loro pensieri, nella loro mente, nei voli pindarici, nei dubbi, nelle domande, nelle frustrazioni. 
I passaggi di coralità sono stupefacenti, resi sulla carta con discorsi frammentati, frasi che non iniziano e non finiscono a creare un brusio di sottofondo perfetto.Meravigliose, tra tutti i personaggi, Lucy Swithin, la sua croce e il suo libro con i mammuth, e Miss La Trobe, oscillante tra trionfo e fallimento, che alla fine della rappresentazione pensa già alla prossima opera, ne vede già le prime parole.Le pagine si susseguono una dopo l’altra senza interruzione a dispetto del titolo e della trama. C’è l’attesa della guerra, c’è lo sdoppiamento dei personaggi tra desiderio e realtà, tra passato e presente. 
Sono rimasta affascinata dalla struttura, da come l’autrice tiene in pugno il materiale narrativo, da come nessuna parola sia di troppo, inutile o sacrificabile. Dalla resa dei suoni, dei colori e degli odori di una natura che è anch’essa personaggio che agisce e interagisce con gli altri.È un libro che ti rimane addosso, che mi fa dire delle cose, nessuna, molto probabilmente, né importante né sufficiente.Da rileggere. “Tra un atto e l’altro”Virginia WoolfGuandaed. del 2009 (mercoledì 10 2010 dal blogspot)

Ultimo di Saramago

Il 21 aprile 2010 esce anche in Italia, dopo Portogallo, Spagna, Brasile e Catalogna, “Caino”, l’ultimo libro di Josè Saramago. Edito dalla Feltrinelli dopo il divorzio dall’Einaudi. In questo messaggio di Pilar del Rio tutto quello che c’è da sapere su questo nuovo lavoro del signor Saramago. Cari amici, Saramago ha scritto un altro libro. È intitolato “Caino”, e Caino è uno dei protagonisti principali. Un altro è Dio e un altro ancora l’umanità nelle sue differenti espressioni. In questo libro, come nei precedenti – per esempio “Il Vangelo secondo Gesù Cristo”- l’autore non tergiversa né ricorre a sotterfugi al momento di affrontare ciò che per millenni, in seno alle diverse culture e civiltà, è stato considerato intoccabile e innominabile: la divinità e il complesso di norme e precetti che gli uomini istituiscono intorno a questa figura per esigere da se stessi – o, sarebbe meglio dire, per esigere dagli altri – una fede incrollabile e assoluta nella quale tutto si giustifica, dal negare se stessi fino all’estenuazione, al morire offrendosi in sacrificio, all’ uccidere in nome di Dio. “Caino” non è un trattato di teologia, né un saggio, né un regolamento di conti: è un’invenzione letteraria in cui Saramago mette alla prova la propria capacità narrativa, raccontando nel suo personalissimo stile una storia della quale tutti conosciamo la musica e qualche frammento di parole. A testa alta (il modo in cui oggi bisogna guardare al potere, senza paura né eccessiva reverenza), Josè Saramago ha dunque scritto un libro che non ci lascerà indifferenti, che susciterà nei lettori sconcerto e forse angoscia: ma, amici, la grande letteratura esiste per piantarsi in noi lettori come un pugnale nel ventre, non per addormentarci come se ci trovassimo in una fumeria d’oppio e il mondo fosse pura fantasia. Questo libro ci cattura, lo dico perché l’ho letto, ci scuote e ci fa pensare: scommetto che quando lo avrete finito, quando farete il gesto di chiuderlo, guarderete l’infinito, oppure, ciascuno dentro di sé, vi lascerete sfuggire un ufff venuto dall’anima e avrà inizio un’ autentica riflessione personale alla quale, più tardi, seguiranno conversazioni, discussioni, prese di posizione, e, in molti casi, lettere in cui si dirà che simili idee chiedevano di prendere forma, era ora che lo scrittore si mettesse al lavoro, e grazie per averlo fatto con risultati tanto meravigliosi. Quest’ultimo romanzo di José Saramago – che non è molto lungo né potrebbe esserlo, perché per affrontarlo occorrerebbe ben altro fiato di quello che abbiamo – è letteratura allo stato puro. Tra pochissimo potrete leggerlo in portoghese, spagnolo e catalano, e allora vedrete che non sto esagerando e non è un desiderio disordinato che mi induce a raccomandarlo: lo faccio con la più assoluta soggettività, perchè soggettivamente viviamo e leggiamo. E parlo agli amici, perché questa lettera è diretta soltanto a voi. Con grande gioia. Auguri a tutti i lettori: un anno dopo “Il viaggio dell’elefante” abbiamo un altro Saramago. Fa tre libri in un anno, perché va incluso anche I Quaderni, il libro che leggiamo qui, giorno per giorno. Non possiamo chiedere di più, il nostro si è dato da fare, e in che modo. L’età, amici, aguzza l’intelligenza e rende più rapida la sua capacità di lavoro. Come siamo fortunati, noi lettori, ad avere chi scrive per noi. Pilar del Río www.josesaramago.org Olè. (martedì 9 marzo dal blogspot)

Vergine giurata - Elvira Dones - (non recensione)
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Vergine giurata – Elvira Dones – (non recensione)

Vergine giurata – Elvira Dones – (non recensione)   Secondo il Kanun le donne albanesi (nord del paese, sulle montagne), per scelta o costrizione, possono vivere la loro vita da uomini. Le motivazioni sono svariate, la morte o l’assenza di un erede maschio, il rifiuto del matrimonio combinato, questioni economiche, questioni d’onore. In pratica, colei che diventa vergine giurata sceglie un nome maschile, veste da maschio, partecipa alla vita del villaggio da maschio con tutti i privilegi annessi e connessi. Rinuncia al suo essere donna e a qualsiasi tipo di fisicità. Riassunto molto sbrigativo di una faccenda ben più complessa che vi consiglio di approfondire, chiedo scusa a chi ne sa di più e che troverà queste righe qua sopra un po’ frettolose e non esaustive. Mark/Hana Dona, donna fattasi maschio per scelta, sempre che di scelta si possa parlare, e che da maschio vive dai 19 ai 34 anni, quando decide di tornare ad essere solo Hana. Per me è un libro bello, duro nella sua leggerezza, in cui l’autrice guarda alla questione delle vergini giurate dal punto di vista della protagonista, dei suoi sentimenti, della sua dicotomia, scrivendo un romanzo e non una saggio o un trattato sociologico sul fenomeno in sé. È uno di quei libri che, “semplicemente”, ti racconta una storia toccando corde che su ognuno vibrano in modo diverso, mettendo in moto, in modo diverso, e in quantità diversa, riflessioni che nel libro, magari, non vengono espresse ma che appartengono ai possibili risvolti che la storia ha, o solo alla personale sensibilità/storia del lettore. La scrittura della Dones scivola via, a tratti poesia in prosa, senza scossoni, salvo avermi dato almeno una stilettata a pagina. E’ il percorso umano, psicologico, sentimentale, fisico di una mente, di un cuore, di un’anima. E’ un libro sulle diverse forme d’amore, sulle trappole emotive che a volte riserva. Elvira Dones è autrice di documentari e ha quindi dimestichezza con il linguaggio video. Ho letto le prime 80 pagine in una giornata e il giorno dopo, soprappensiero facendo altro, ogni tanto il libro mi tornava alla mente sotto forme di scene cinematografiche, proprio come se avessi visto un film, e questo, per il mio gusto personale, è proprio una gran bella cosa. “Vergine giurata“Elvira DonesFeltrinelli, 2007224 p.

Sto leggendo

Sto leggendo Middlemarch perché ho letto Virginia Woolf che parlava di George Elliot. Sto leggendo “Lezioni Americane” di Calvino. Era l’ora. Sto leggendo “Voglio guardare”, ché un amico mi ha detto che lo dovevo fare per forza, ché un libro così va letto, e punto. Middlemarch son 800 pagine e passa, me lo tiro dietro da gennaio. È un kolossal, dovessero farne un film costerebbe più di Titanic. La Elliot è brava, ti offre questa carrellata di personaggi apparentemente semplici ma in realtà rappresentativi di tanti e vari caratteri umani. Incuriosita da altri libri lo sto trascurando. Calvino. Beh. A suo tempo ci sarà bisogno di parlarne assai, di queste illuminanti lezioni americane. Sentire uno scrittore che parla del suo mestiere è sempre uno sporco piacere. Voglio guardare. Ho letto solo due pagine per adesso. Ha un suono strano. Olè. (lunedì 8 marzo 2010 dal blogspot)

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