Nel bene e nel male, oggi nel male, che il mio umore sia collegato alle parole è un dato di fatto assodato, riconosciuto e accettato.
A tutte le parole. Quelle che sento e che non vorrei dover ascoltare, che passano dall’orecchio e mi scavano il cervello, facendomi accapponare la pelle, parole stupide, cattive, inutili, che sarebbero potute servire a formulare frasi migliori. Quelle che vengono taciute anche se attese disperatamente. Quelle che leggo e che non riesco a capire. Quelle che leggo e capisco ma che non riesco a spiegare, che mi provocano quell’ansia sottile, ché le sento, dentro, le percepisco, sì, ma ad un livello astratto, inafferrabile. E non riesco a spiegarmele e a spiegarle agli altri.
Quelle che non riesco a dire, che servirebbero tanto a ripristinare gli equilibri, sedare gli animi, ricollegare reti che hanno perso il contatto.
Quelle che non riesco a scrivere.
Che non voglio scrivere.
Che non posso scrivere.
Che non sono capace di scrivere.
Si crea un voragine che risucchia la capacità muscolare di generare un sorriso, la capacità di mediazione con il resto del mondo. Una specie di buco nero fatto di frustrazione e inadeguatezza. Una frenesia isterica che mi trasporta da un’attività inutile all’altra, metto un piatto in lavastoviglie, uno solo, carico la lavatrice, a caso, mi accendo una sigaretta subito dopo aver spento l’ultima, fumata contro voglia. Vago per casa alla ricerca di una porzione di mondo che mi culli e che mi dica che va tutto bene. Che anche questa volta passerà. Che va bene, non ci possiamo fare niente, perché le parole, tutte, quelle che sento, quello che attendo, quelle che leggo e non capisco, quelle che leggo, capisco ma non riesco a spiegare, quelle che non riesco a dire e quelle che non riesco, non voglio, non posso, non sono capace di scrivere mi tengono sotto scacco. Guidano il mio umore e i miei desideri. Guidano la rotta.
Mi faccio un caffè, mi siedo in giardino, mi alzo, prendo un libro, lo apro, uno qualsiasi, e cerco la concentrazione, lo stato di stasi attiva. Lo chiudo, mi alzo. Siedo al computer.
La testa è un buco nero, insondabile.
Temporeggio.
Mentre i semi piantati nei vasi dieci giorni fa iniziano inaspettatamente a fare capolino tra la terra umida.
Metto a tacere le domande scomode. Cerco di controllare, per quanto possibile, la frenesia isterica che tramuta tutto quello che penso in sottili venature d’ansia e tutti i gesti in movimenti inutili che non avranno seguito. Tranne, con molte probabilità, la lavatrice fatta a caso.
Ché c’è un tempo per tutto. C’è un tempo per tutte le parole.
Quelle che sento e che non mi stanco di ascoltare. Che si tuffano nell’orecchio e si accoccolano nel cervello, e sulla pelle passa un brivido, parole importanti, gonfie, che non potrebbero creare frasi migliori. Quelle che arrivano, dopo una lunga attesa. Quelle che leggo e che capisco. Quelle che leggo, capisco e riesco a comprendere fino al midollo, fino all’essenza, che aprono nuovi binari di comunicazione e condivisione.
Quelle che riesco a scrivere.
Quelle che voglio scrivere.
Quelle che posso scrivere.
Quelle che sono capace di scrivere.
(venerdì 30 aprile 2010 dal blogspot)
3 risposte
le mie parole sono sassi precisi e aguzzi
pronti da scagliare
su facce vulnerabili e indifese
sono nuvole sospese gonfie di sottintesi
che accendono negli occhi infinite attese
sono gocce preziose indimenticate
a lungo spasimate e poi centellinate
sono frecce infuocate
che il vento o la fortuna sanno indirizzare
sono lampi dentro a un pozzo cupo e abbandonato
un viso sordo e muto che l’amore ha illuminato
sono foglie cadute promesse dovute
che il tempo ti perdoni per averle pronunciate
sono note stonate sul foglio capitate per sbaglio
tracciate e poi dimenticate
le parole che ho detto oppure ho creduto di dire
lo ammetto
strette tra i denti
passate ricorrenti
inaspettate sentite o sognate
le mie parole son capriole palle di neve al sole
razzi incandescenti prima di scoppiare
sono giocattoli e zanzare sabbia da ammucchiare
piccoli divieti a cui disobbedire
sono andate a dormire sorprese da un dolore profondo
che non mi riesce di spiegare
fanno come gli pare si perdono al buio
per poi continuare
sono notti interminate scoppi di risate
facce sovraesposte per il troppo sole
sono questo le parole
dolci o rancorose piene di rispetto oppure indecorose
sono mio padre e mia madre
un bacio a testa prima del sonno un altro prima di partire
le parole che ho detto e chissà quante ancora
devono venire
strette tra i denti
risparmiano i presenti
immaginate sentite o sognate
spade fendenti
al buio sospirate perdonate
da un palmo soffiate
PACIFICO – le mie parole
Ma che bello che è sto pezzo!
Grazie Annalisa, e sappi che ti sto consegnando simbolicamente l’invisibile premio per il primo commento su questo blog!
invisibilmente gongolo. ma per non dare l’impressione di anelare al podio intero mi astengo dal commentare il post su carver 🙂
in compenso, ti traccio su anobii.