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Categoria: notes

Note di viaggio, riflessioni, foto. Appunti, impressioni. Per mantenere la rotta, stendere il filo della navigazione. Quando qualcosa deve essere messo nero su bianco, sul diario della capitana. La scrittura nella sua forma libera, gesto primario. Meccanismo involontario della mente, movimento interiore. Quando c’è troppa confusione, o in attimi di estrema e passeggera lucidità. Perché non ricordo un momento della mia vita, anche quando pensavo che alle mie parole si fossero seccate le radici, non ricordo un momento in cui non ho avuto questo istinto, questo movimento. Per non perdermi.

(non) recensioni di libri
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Quelli che mi spiegano le cose

Quelli che mi spiegano le cose e mi dicono cosa devo fare. Sono ovunque, escono dalle fottute pareti. Letteralmente.

Arroganza, supponenza, paternalismo. Una mezcla micidiale.

Diṡàgio
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Diṡàgio

Diṡàgio s. m. [comp. di dis–1 e agio]. – 1. a. Mancanza di agi, di comodità e sim.; condizione o situazione incomoda: soffrire, patire, sopportare disagi di ogni specie; affrontare i d. di una lunga navigazione; stava a d. in quella sedia troppo stretta per lui. b. Senso di pena e di molestia provato per l’incapacità di adattarsi a un ambiente, a una situazione, anche per motivi morali, o più genericam. senso d’imbarazzo: è un luogo, una compagnia, in cui mi trovo a d.; quei discorsi misero a d. tutti i presenti; davanti a lui mi sento sempre a d.; il suo modo di guardarla la metteva a disagio. 2. ant. Mancanza di cosa necessaria o opportuna: natural burella Ch’avea mal suolo e di lume d. (Dante); acciò che di mangiare non patisse d., seco pensò di portare tre pani (Boccaccio). (Treccani) Hey girls / Hey boys / Superstar DJ’s / Here we goDovevamo arrivarci, prima o poi, a questa parola. Una delle più difficili. Una delle più usate, abusate e maltrattate. Insieme a stigma e a narrazione tossica, che sono due parole ma ormai sembrano una, tutto attaccato, narrazionetossica. Che diṡàgio. Senso di pena e di molestia provato per l’incapacità di adattarsi a un ambiente, a una situazione. Right here, right now / Right here, right now /Right here, right now / Right here, right now. Ve l’ho detto, la situazione è critica. Soprattutto se l’ambiente è il mondo e la situazione è la vita. Se il mondo è un mondo ostile, e se la vita è una fatica. Scrive kappazeta su mastodon (neretti mie), il 27 settembre 2021: Nelle ultime settimane sto continuando a leggere e sentire testimonianze (in italiano e francese, ma di sicuro ce ne sono anche in altre lingue) di persone che sono sfinite, sul limite del burn out, demotivate, stanche e senza energie dal rientro delle vacanze (o pure prima). Come dicevo con un amico, credo davvero che sia una roba collettiva, che però la società ci impone di vivere in solitudine, come incapacità personale, fallimento, colpa. E invece non è così: che sia così forte e diffusa è un sintomo di un disagio più grande che non è personale. Sicuramente è legato anche alla pandemia che abbiamo vissuto negli ultimi due anni. Ma come combatterlo? Cosa è possibile fare? Come se ne esce? Io, sicuramente, stanca. Sfinita. Esausta. Di restare vigile, in allerta, in uno stato di tensione prolungato all’infinito. Di questo sottofondo perenne di ansia, di questo tarlo che mastica e che mi mastica. Stanca di essere stanca, di non riuscire a rifugiarmi e ripararmi in quello che in cui mi rifugiavo e mi riparavo. Stanca della stanchezza di sentirmi inadeguata e impreparata. Io, sicuramente, a disagio. Quando mi si chiede forzatamente di tornare ad una normalità in cui non sono mai stata a mio agio. Il mondo, ve lo devo dire io?, era ostile anche prima. Io, quindi, sicuramente a disagio quando mi si chiede forzatamente di fare, andare, consumare, non oziare, non sprecare il tempo, dobbiamo stare bene, dobbiamo tornare a stare bene. Io sicuramente a disagio, oggi come ieri, quando mi si chiede di fare quello che deve essere fatto. Quando mi si chiede di avere fiducia e di rispettare le regole senza poterle valutare, discuterle. Quando a chiedermelo non è solo la televisione.Io, /di·ṣa·già·ta/. Oggi come ieri. Diṡàgio. Mancanza di cosa necessaria o opportuna. Cosa mi manca di necessario ed opportuno? È colpa della pandemia o la pandemia ha solo reso manifesto il mio fallimento, le mie incapacità e le mie colpe? Di fronte all’acutizzarsi dell’ostilità del mondo anche la mia inadeguatezza ha fatto altrettanto? La mia resistenza a sintonizzarmi sul ritmo stabilito, a rispettare il tempo, tempo scandito da mete e traguardi da raggiungere, da piaceri indotti, desideri standardizzati, attività ricreative preconfezionate è difetto e mancanza insanabile?Cosa mi manca che ad averlo potrei facilmente uscire da questo stato di disagio? Per poter desiderare, anche io, finalmente, di tornare alla normalità? Cosa mi manca per sedare il tarlo? Oppure. La verità è che davvero la società ci impone di vivere in solitudine le nostre stanchezze, alimenta i nostri tarli, confonde le nostre priorità e sbiadisce le nostre inclinazioni. E che questo disagio è davvero qualcosa di più grande, e non è (solo) personale. La verità, è che non ho risposte. Non ancora. Ma l’hai capito che non serve a niente / Mostrarti sorridente / Agli occhi della gente / E che il dolore serve / Proprio come serve la felicità.

Distorsióne
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Distorsióne

Distorsióne s. f. [dal lat. tardo distorsio –onis, class. distortio –onis, der. di distorquēre «storcere», part. pass. distortus]. – 1. In genere, spostamento o deformazione che provoca un’alterazione della forma o dell’atteggiamento naturale: la d. dell’immagine riflessa da uno specchio concavo o convesso. In usi fig., alterazione, stravolgimento: d. del vero senso di una frase (nell’interpretarla o nel riferirla); un’intenzionale d. della realtà dei fatti; strana d. e caricatura del procedere filosofico (B. Croce); d. innaturale con cui aveva cambiato momentaneamente in odio l’amore per il figlio (V. Brancati). (Treccani) Sono io o sono loro. Distorta o distorti? Dalle casse rotte che gracchiavano (na na na na na) / Uscivano i Beach Boys distorti Io, sicuramente, nella banalità del doversi guardare nello specchio un po’ più a lungo, per riconoscersi. In questa immobilità innaturale, il corpo teso e deformato in una posizione di difesa inefficiente. La mente alterata nella sua forma, vaga, non si ferma mai, rincorre qualcosa. Io, sicuramente alterata nel mio atteggiamento naturale. Agitata. Mi sento scossa agitata-a, agitata-a, un po’ nervosa-a / Uoh uoh. In un acutizzarsi esponenziale della percezione dell’ostilità del mondo. Nella sentenza definitiva che sancisce il mio non poterlo abitare, trasformare, nemmeno all’interno di quel perimetro delineato negli anni. Anni di lotte, anni di pensiero critico, anni di condivisione. Il perimetro si restringe e posso solo abitare me stessa, nella rottura della condivisione, nella rottura della comunicazione. A cui, evidentemente, non riesco a rinunciare e provo a raccoglierne i pezzi. E provo a condividere, comunicare. Nello stravolgimento del vero senso delle frasi, nell’intenzionale distorsione della realtà dei fatti tutto intorno a me. C’è tutto un mondo intorno che gira ogni giorno / E che fermare non potrai / E viva e viva il mondo, tu non girargli intorno / Ma entra dentro al mondo, dai. Ma dal mondo arrivano messaggi distorti, le casse si sono rotte, le voci gracchiano. Non le riconosco, non riesco a collocarle nella galassia di cui ho, evidentemente, perso le coordinate sentimentali, insieme a quelle politiche, per la spedizione interstellare del pensiero e del procedere e le parole fluttuano alla deriva nello spazio, mentre il discorso critico muore su due binari paralleli. Le voci gracchiano parole deformate. Io credo, in qualche modo, deformate dal panico, e si manifestano in un rigurgito di attaccamento ossessivo, mentre il discorso critico muore su due binari paralleli alimentati dall’inquietudine, dal disagio, dalla confusione, dalla paura e da una rabbia malsana che annebbia gli occhi e perde di vista il bersaglio, e la comunicazione si interrompe e diventa soliloquio, tarlo che mastica in sottofondo. Ma i miei pensieri sono distorti, la mia testa gracchia. Per usare una citazione, più pop della metafora sulla spedizione interstellare ma sicuramente più calzante, la merda è entrata nel ventilatore.

Dissèsto
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Dissèsto

Dissèsto s. m. [der. di dissestare]. – 1. Condizione di squilibrio, d’instabilità: d. di un meccanismo; d. statico, nella tecnica delle costruzioni, l’insieme degli effetti (lesioni nelle pareti, rigonfiamento degli intonaci, movimento delle parti, ecc.) derivanti dalle insufficienti condizioni di stabilità di una struttura. 2. fig. Stato di disordine, cattive condizioni, situazione critica: avere dissesti di salute; sosteneva che tutta la moderna cultura è in dissesto; in partic., e più spesso, cattivo stato economico: d. finanziario; il d. del bilancio dello stato; causare, provocare un d.; trovarsi in grave dissesto. (Treccani) Cerco da giorni una parola che possa descrivermi. Che possa descrivere la condizione che mi trovo ad attraversare. Non so stare senza parole, non so stare senza la corrispondenza tra l’emotività, la mia, e la sua corretta definizione, per me. O descrizione, o metafora. Un appiglio, una boa. Un punto in cui stare senza andare alla deriva. Dissèsto mi descrive. Dice molto di me in questo momento. Delle mie insufficienti condizioni di stabilità della struttura. Dello stato di disordine, dello squilibrio. La situazione è critica, direbbero in uno di quei telegiornali che evito accuratamente di guardare. Cerco altre fonti, non mi accontento della versione ufficiale, non mi accontento dell’analisi di un servizio logoro in prima serata, non mi fido del giornalista servo e allarmista.Ma ho una sola fonte, purtroppo poco attendibile. In un processo piuttosto che farmi testimoniare la difesa chiederebbe alla giuria di andare in fiducia e di arrivare ad un verdetto sulla base del lancio dei dadi. Ci scherzo su. Questo è un buon segno. Una risata vi seppellirà. Citazioni, ancoraggi. Divagazioni. Anche se voi vi credete assolti / Siete lo stesso coinvolti. La scrittura è un’entità multiforme, vive di vita propria. Da anni non riesco a parlarci con sincerità quando si tratta di me. Da anni, quando si tratta di me, divento una fonte inattendibile. Bugiarda. La schivo, non mi faccio trovare. La distraggo. Mi arrendo. Mi scoppia il cuore, non riesco a sostenerla.Per questo mi serve una boa. Non c’entra la deriva. Mi serve una boa per non andare a fondo, lì dove dovrei andare. E come sempre sento che affondando ancora un poco arriverei alla verità. (Virginia Woolf – Diario di una scrittrice) Per questo cerco parole che possano definirmi nel momento. Che possano descrivermi il momento. Questo momento e non un altro. Perché sono capace di esistere solo nel momento. /dis·sè·sto/ /dis·se·stà·ta/ Vorrei ancora potermi tatuare sulla pelle In ogni caso nessun rimorso. Perché sono capace di esistere solo nel momento. Questo mi definisce. Questo mi descrive. Questo mi frega. E se il personale è politico, e viceversa, questo non è un buon momento.   Se avete voglia qua potete leggere Diśàgio e invece qui Distorsióne.

ricominciare
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Ricominciare

Ricominciare a scrivere, ricominciare a scrivere sul serio. Surreale, non pensavo che sarebbe accaduto, scrivere di nuovo, come prima ma in modo completamente diverso. Non so quanto durerà, se durerà. Mi godo il momento e questa condizione di rinnovato equilibrio. Perché, lo so, solo quando scrivo, solo quando sono a lavoro su qualcosa, non mi sento un relitto alla deriva in un mondo mare in cui non ho mai imparato a nuotare. Di alcune cose mi ero completamente dimentica. Dell’impatto sul corpo, sul fisico per esempio. Avevo dimentico la spossatezza fisica dopo un’intera giornata dentro ad una storia, cercando di non perderla, di darle il giusto colore, il giusto timbro una parola dopo l’altra. Mi ero dimentica di quelle frasi di raccordo che ti vengono in mente all’improvviso, mentre non sei con il culo sulla sedia e i gomiti sulla scrivania, il terrore di perderle, di non riuscire a cucire i pezzi.Mi ero dimenticata dell’esaltazione.Mi ero dimenticata della giostra, che dall’esaltazione ti scaraventa nell’abisso dell’inadeguatezza e dell’incapacità. Vedere la storia, poi non vederla più. Vedere il senso di quello di quello che si scrive e poi non vederlo più. Come quando ho scritto VA:LE. Come quando ho scritto i racconti del Tarlo Ippopotamo.Come quando ho scritto Ni una más. Ma comunque in modo completamente diverso. Per me, senza pensare ad una destinazione, ad una collocazione. Senza pensare a niente se non a quello che sto raccontando. Spero di non essermi dimenticata come si scrive, ecco. Ma questo si vedrà più avanti.

fallimento
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Fallimento

Fallimento.  Indaga la parola con la punta della lingua, ne valuta il sapore. È sorpresa, non è amara come aveva sempre pensato. La parola fallimento è acida. L’annusa, ricorda qualcosa che è stato dimenticato ed ha iniziato a fermentare. Non a marcire. A fermentare. Cerca una corrispondenza, l’eventualità di una correlazione emotiva. Tocca l’idea con la dita, è molle. Umida. Sgradevole. La solleva, ne valuta il peso, la sposta dalla mano sinistra a quella destra. La lascia andare, la osserva. Si allontana, in apnea. Poi lascia andare anche il respiro, con più forza di quanto non si aspettasse. Fallĕre. Si volta a guardare i ricordi, nella memoria.  Ingannare, ingannarsi, sbagliare. È andata così? Si tratta di questo? Cos’altro? Non riuscire, mancare d’effetto. Mancare il colpo. Potrebbe, sì. Potrebbe essere questo il punto. Ma non sa se le importa, non sa se le serve. Sapere, capire, spiegare. Spiegarsi. Trovare una corrispondenza emotiva. Dare un nome alla cosa. Alle cose. Ché forse non le importa più.  Perché forse non le importa più pensare.  Perché forse sta nel pensare l’inganno, lo sbaglio. È nel pensare che è iniziata la fermentazione, il fallimento. Perché forse il pensiero può ingannare. Allontanare. Manipolare. Perché forse il pensiero accudisce, e lenisce il conflitto. Lo sfibra, lo depotenzia.  Perché forse pensare disarma il conflitto. E allontana la risposta. La manipola. Ma la risposta è lì. Perché forse il pensare ha solo prodotto pensieri consolatori e assolutori. Trattiene il fiato, gonfia le guance. Arriccia le labbra e soffia, soffia via tutto. Si lascia andare, all’indietro. Sul pavimento, immobile. Sprofonda, il corpo pesante lascia l’impronta. Immobile nell’impronta nel pavimento. Nel pensare per darsi ragione la cosa ha cominciato a fermentare. L’errore irrimediabile, l’inganno senza perdono. Il pensare che mente e disarticola la riflessione. Sprofonda, il corpo pesante. L’impronta sul pavimento. Il pensare che aggiusta l’orlo del vestito per non inciampare.  E non chiama le cose con il loro nome. Criceto nella ruota. Passi in superficie senza mai affondare. Assoluzioni sommarie.  E il tempo è andato perso, assoluzione dopo assoluzione, rimozione dopo rimozione. Criceto nella ruota. Passi in superficie senza mai affondare. Il corpo pesante nell’impronta sul pavimento sprofonda. E un pensiero si scarta, affonda il passo, si scuote, urla, preme. Cerca la profondità. Si divincola, scatta in avanti. Affonda il passo, cerca la profondità. Ma il corpo si alza, e non c’è impronta sul pavimento. L’inganno senza perdono. È andata così? Si tratta di questo?

lo sciamano
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Lo Sciamano

Un racconto su suggestione, per Allegra. Stasera ha addosso un paio di pantaloncini slabbrati e una canottiera costellata di macchie di unto. Sugo, forse. Ma potrebbe benissimo trattarsi di olio, quello che ti cola addosso quando mangi il fritto con le mani. Spettinata, con i vestiti sporchi di unto, l’insonnia mi mordicchia le dita dei piedi.Quando spengo la luce e dico al mio corpo dormi lei arriva. Piccola, sciatta maledetta stronza insonnia.Tengo il corpo immobile, la stanza ronza, le insegne lungo la strada si sciolgono, si fondono e si infilano tra i listelli delle persiane. Passa una macchina. Un’altra, un’altra ancora. Silenzio. Un’altra ancora.E siamo alla giostra dei pensieri unitili, cavallini sbiaditi, meccanismo cigolante e musica distorta. La giostra dei progetti improrogabili e dei gesti irrisolti.Agguanto il respiro, lo stringo per la collottola. Cerco di controllarlo e guidarlo, lei mi mordicchia l’alluce. Si scosta i capelli dalla fronte, mi guarda e sorride.Ma perché mai ad un certo punto della mia vita ho smesso di farmi le canne?E da lì l’onda anomala che sbatte sul spetto, si schianta e si sfrange. Mi inonda di memoria. Tasto il comodino, prendo il telefono. Digito.Ma te lo ricordi lo sciamano?Fisso lo schermo per un po’ poi l’appoggio sul letto. Scanso il piede con un colpetto, l’insonnia mi sta massacrando un mignolo, l’illuminazione dello schermo di affievolisce fino a scomparire. Passa una macchina, poi un’altra ancora. Asfalto umido.Il materasso vibra, la luce dello schermo filtra attraverso il lenzuolo.Sono le quattro del mattinoSì, ma te lo ricordi o no?No, non me lo ricordo lo sciamano. Dormi.Insonnia.Ma perché hai smesso di farti le canne?Eh. Per questo volevo sapere se ti ricordavi dello sciamano.Seee vabbè buonanotte.Buio. La stanza ronza. Neon liquefatti che filtrano attraverso i listelli delle persiane.Una macchina, un’altra. Un’altra ancora. Silenzio.Mi arrendo, immobile. Aspetto che l’insonnia si stufi di mordicchiarmi le dita dei piedi. * Chissà se il treno fa ancora le stesse fermate. Il paesaggio fuori dal finestrino è lo stesso, o almeno mi sembra. Non riesco a definire i cambiamenti, a sovrapporre per immagini lo scorrere del tempo trascorso. Ho fatto questo tragitto l’ultima volta vent’anni fa, seduta nella macchina dei miei genitori tra uno scatolone e l’altro. Andavamo a vivere in città, ed io adolescente catapultata per direttissima in un’altra dimensione. Il treno è cambiato, questo sì. Non è la stessa scalcinata littorina, ghiacciata d’inverno e bollente d’estate che ci trascinava ammassati dal paese a quella che chiamavano, con un mezzo sorriso, civiltà. E viceversa. Zaini, scarpe da ginnastica, e diana rosse morbide schiacciate nella tasca posteriore dei jeans.Se chiudo gli occhi è come un’immensa lunghissima infinita diapositiva.Vibro.A che punto sei, qui stiamo aspettando tutti te.Merda.Di a mamma che stanotte non ho dormito, mi sono appena svegliata. La chiamo più tardi.Cosa stai combinando?Sono in treno.In treno?In treno. Sto tornando al paese.Ma sei scema?Vado a trovare lo sciamano.Gesù cristo devi trovare te, al più presto.Preferisco lo sciamano.Ma cos’è questa storia dello sciamano (mamma non l’ha presa bene, dice che ti rifiuti di prendere la melatonina e che queste sono le conseguenze).Lo sciamano, quello che viveva appena fuori dal bosco. Dai. Altro un metro e un sospiro, nodoso come un albero.Quello sciamano?Quello.Sei scema. Ci sono modi meno complicati per trovare qualcosa da fumare.Torno presto.E ci mancherebbe. Non fare cazzate, torna tutta intera. Baciuz.Ok. Baciuz.Il paesaggio forse è lo stesso, o forse no, il treno sicuramente è diverso. Io sono sempre quella a cui viene detto di tornare a casa tutta intera e di non fare cazzate.Sono quella che non ha finito l’Università e che ancora dice molti no e pochi sì. Sono quella che soffre d’insonnia e che a trentasette stridenti anni ancora preferisce i lavori a tempo determinato.Io sono quella che si ricorda dello sciamano.L’onda anomala che sbatte sul spetto, si schianta e si sfrange. Mi inonda di memoria. * C’era il sole. Avete presente il sole quando è perfetto? Così perfetto che se hai sedici anni e andare a scuola non rientra nelle tue priorità lui ti parla e ti accorda senza troppi discorsi il permesso di non andarci, a scuola?Quel sole lì. Perfetto.Arrivata alla discesa per la stazione proseguo dritta. Perché il sole è perfetto, perché la scuola non rientra nelle mie priorità, perché ho un morso alla bocca dello stomaco che mi dice costantemente di andare. Andare, andare, andare. Ho un morso alla bocca dello stomaco che mi fa sentire scomoda, febbricitante. Ho un morso allo bocca dello stomaco che mi fa dire no, questo no questo no, questo no, io devo andare, andare, andare. Lasciatemi stare. E c’è un sole perfetto.Attraverso il paese, passo accanto alla fontana con le rane di pietra, esco dal paese.Nel bosco il sole perfetto si sparpaglia in infinite schegge ballerine, luminose chiazze vibranti di luce. Le foglie di castagno sotto ai piedi, e colossi che si stagliano, si annodano, fino alle fronde, i rami, le foglie, ai loro piedi massi rivestiti di muschio.Cammino, mi spingo un passo oltre, sempre un passo oltre.Il sole è perfetto, io sono perfetta. È un movimento minimo, un fruscio tra le felci.“Oh, Sciamano. Non è presto per i funghi?”“Oh, cara. Macché funghi, ho perso un pezzo di fumo.”“T’aiuto.”“Brava nini. Dovrebbe essere qui, proprio qui.”Cerchiamo in silenzio nel silenzio.Anche se silenzio, nel bosco, non vuol dire nulla. Scricchiolii, fruscii. Tonfi sordi. Nel bosco, in realtà, silenzio e immobilità non vogliono dire nulla. Steli che oscillano come metronomi, fronde scosse da battiti d’ali.Siamo solo io e lo Sciamano che ci muoviamo in silenzio, scansiamo foglie umide con la punta delle scarpe e ci accovacciamo naso a terra e sguardo fisso. Facciamo, come minimo, tra i cinquantacinque e i sessanta anni in due, difficile definire con certezza l’età dello Sciamano, eppure, penso mentre scanso un rametto secco, la sensazione è che potremmo iniziare entrambi a fare le capriole dei bambini da un momento all’altro. Così, per gioco.È facile stare in silenzio con lui, averlo accanto e stargli accanto senza avere niente da dire e non sentire la stretta dell’imbarazzo nelle articolazioni. “No, via, ‘un c’è. Lo vuoi un

frammento
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Margherita, frammento #5 #6 #7

Frammento #1 #2 #3 #4 Masticata. In una giostra logora. Vertigini e conati. Margherita sputata. Esausta. Margherita allo specchio. Margherita senza voce. Contratta, trema. Senza fiato. Margherita immobile. Il cielo diventa grigio e si alza il vento. Gli alberi oscillano, i rami si sparpagliano. Margherita si chiude. Le nuvole si addensano, la luce cala e preme sui vetri. Margherita si inabissa, il cielo si abbassa, il mondo si restringe, le ombre si sfilacciano. Margherita si sfalda, la pioggia dal cielo. Lo scroscio, il lampo, il rombo.  La pioggia dal cielo, si schianta sui tetti, sull’asfalto, sugli alberi, sui vetri e poi cola. Margherita ferita. Ferita aperta che non sanguina. Margherita si stringe. Non parla, non piange, non grida. La pioggia dal cielo, nel cielo grigio, cade precipita si schianta. Margherita trema. Muta. Divelta, inchiodata, isolata. Margherita scivola, vorrebbe fermarsi, fermare le cose. Toccare le parole. Arginare. Proteggere, difendere. Margherita inciampa. Margherita cade. Margherita ha freddo. Margherita, precipita si schianta cola. Lo scroscio, il lampo, il rombo. Margherita si spacca, pietrificata. Il cuore incagliato. La pioggia, il vento, l’asfalto. Le mani gelate. I sensi ottusi. L’abisso osceno dove tutto cade, precipita, si schianta. Si rimescola, morde, ribolle, si infiltra. La mandibola schiocca. Uno schianto secco. Il cielo si schianta. La pioggia si schianta. Non si ferma, si rovescia. Non c’è tregua. Mar ghe ri ta Mar gheri ta Ma r gh eri ta Mar ghe ri ta Finché saprà ricordare e pronunciare il suo nome. Margherita risale in superficie. * Margherita svuota i polmoni poi prende aria a piccoli sorsi. Margherita è il suo nome.  Il suo corpo non è vuoto. Allora Margherita pone il suo corpo al centro.  Pone il suo corpo al centro del conflitto.  E Margherita sente. Tutto. Di nuovo.Continuamente. Margherita sente gli occhi, tutti intorno. Negli occhi Margherita sente. Il dolore. La frustrazione. La disperazione. Margherita sente. La paura. Gli affamati tentativi di sopravvivenza. L’instancabile ricerca. I corpi vibrare di piccoli movimenti ripetuti. E sente i corpi sbattuti, i corpi perduti. I corpi reclusi. I corpi negati. Margherita sente le parole senza voce. Margherita sente l’asfalto sotto la suola delle scarpe. Sente gli alberi respirare. Margherita sente le risate lanciate oltre l’ostacolo. Margherite sente i passi. Sente gli sforzi, le trincee. I corpi come barricate. Margherita sente il profumo dell’ostinazione. Margherita sente le fughe senza direzione. Margherita sente i polsi stretti. Margherita sente l’affanno della corsa. La sconfitta. Sente i pesci nuotare. Le mani intorno alla corda. Sente le chiavi nel buio. Margherita sente il peso. Il fumo nei polmoni. Le lacrime che si mischiano con la polvere e con il sangue. L’angoscia di un quotidiano ripetuto all’infinito. Margherita sente i piedi nudi nella sabbia. Margherita sente la rabbia. Sente l’odio. Sente l’amore. Margherita cerca, una genesi plausibile di se stessa. Un filo da annodare. Margherita cerca Margherita. Un passo che sia fermo, un gesto che non sia di resa. Margherita cerca. L’anomalia, l’interferenza. L’epifania transitoria. Margherita cerca il difetto, l’indicibile. Il salto, il vuoto. L’inespresso. Il non detto. Margherita cerca l’errore, lo sbaglio. Margherita cerca, il reale. Margherita cerca i margini. I cuori oltre l’ostacolo. Margherita cerca i corpi sopravvissuti. Cerca i corpi che si sono salvati. Margherita cerca parole nuove. Corpi non allineati. Altri corpi al centro del conflitto. Parole grandi. Parole capaci. Margherita cerca la sconnessione, la visione altra, l’asincronia. L’interferenza armonica. Il capovolto. Il capoverso. Margherita cerca lo squarcio, la fessura. Margherita scava, annusa. Margherita ascolta. Margherita assaggia. Margherita si ferisce. Margherita ferisce. Margherita grida. Margherita insiste. Margherita cade. Rovina. Margherita sprofonda.  Margherita si aggrappa, scavalca. Margherita si riempie i polmoni, fino in fondo. Margherita svuota i polmoni, fino in fondo. Margherita si riempie i polmoni. Fino in fondo. Margherita svuota i polmoni. Fino in fondo. * Margherita sa che il suo corpo non è un corpo vuoto. Margherita sa, che Margherita è il suo nome. E di tutte le altre. Se chiude gli occhi. Margherita sa. Le sente. Continuamente.

margherita
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Margherita, frammento #4

Frammento #1, frammento #2, frammento #3 Riempie d’aria i polmoni, la gabbia toracica s’allarga. Margherita si immerge.  Ha indossato abiti comodi e sta. Seduta tra persone che conosce in ogni più intimo dettaglio. Sta, procede per imitazione. Ha memoria della leggerezza. Sta. Seduta in macchina, lo sportello aperto un piede sul cruscotto e un piede a terra. Procede per imitazione. Imita l’esistere tra persone che conosce in ogni più intimo dettaglio. Margherita esiste nell’imitazione. Seduta in macchina, lo sportello aperto un piede sul cruscotto e un piede a terra, è arrivata la primavera e la sera si può andare al mare, parcheggiare le macchine vicino al canneto e lasciare lo stereo acceso, le portiere aperte e i finestrini abbassati. Tra corpi e voci. Sorride, parla. Sta nei gesti, negli sguardi. Immersa nel momento. Procede per imitazione. Ha memoria della leggerezza, di come si ascolta, di come si sorride. Sta. In apnea. Ma vorrebbe. Ma non sa come dirlo.Di questo non ha memoriaDi questo, il suo corpo non ha esperienza. Le portiere aperte e i finestrini abbassati. Lo stereo acceso. Non so come dirlo. Che mi sfiorate in superficie. Che riconosco tutto di voi, ma non vi sento. Le emozioni galleggiano nella distanza, l’eco arriva attraverso il ricordo.  IoNonViSento IoNonSentoNiente Vorrei parlarvi del mio corpo vuoto. Dove prima c’era tutto ora non c’è niente. Fosse così semplice. ma non sento nienteevorrei, dirvi quanto sono difficili questi passi ciechi, e profonda questa cavità, e questi momenti in cui mi sfugge il senso per un soffio. Vorrei dirvi che mi dispiace ma che non vi sento, che navighiamo a vista e che ci sfugge sempre il senso per un soffio, lo soffiamo via, il senso, quasi ci facesse paura, più paura di questo non senso artificiale, vorrei toccarvi, colpirvi, toccatemi, colpitemi, facciamoci male, diciamoci le cose, chiamiamo le cose con il loro nome, non siamo innocenti, non siamo dalla parte del giusto, navighiamo a vista, e lo soffiamo via il senso, con un soffio. Un soffio per ogni parola taciuta, un soffio per ogni conflitto ignorato, un soffio per ogni gesto addolcito, un soffio per ogni bugia, un soffio per ogni ricostruzione accogliente accomodante. Vorrei dirvi che il senso è un altro, ma lo soffio via il senso. Lo soffio via. Un passo indietro. Due passi indietro. Vorrei dirvi che non riesco ad essere nel momento. Vorrei dirvi che non riesco ad isolare il momento. Che il momento mi scivola dalle mani, non riesco. Che posso solo immergermi in apnea. Che voglio tutto o niente, che non li voglio questi momenti strappati al tempo. Voglio tutto. Voglio essere, voglio avere, voglio esistere. Esistere oggi, esistere domani. Esistere. Voglio tutto. Ma.Margherita sta. In apena. Nella birra bevuta, nelle sigarette fumate. Nella testa appoggiata su una spalla, nelle mani sfiorate. Nella musica, nel vento, nel mare. Nelle promesse. Nell’imitazione della leggerezza. In apnea.

(non) recensioni di libri
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Di ego e di bestemmie

Io non la so usare la scrittura per sfogarmi. Io so usare la scrittura per costruire storie dove mi sfogo. È diverso. Ho imparato a tenere a bada l’ego, nella mia scrittura. Ad ammansirlo. Ho imparato a rendere collettivi e universali i sentimenti del mio ego. I pensieri del mio ego. I dolori del mio ego. I desideri del mio ego. Ma adesso lui strabocca. Cola ovunque. In ogni frase che tento di buttare giù, in ogni storia che tento di raccontare. Fuoriesce in ogni virgola, in ogni parola, in ogni sfumatura e colore. E allora facciamoci pace. Diamogli spazio, mi dico. Qualcosa verrà fuori. Magari. Ho un blog, mi dico. Potrà servire anche a questo. Oltre alle parole che trovo per i libri delle altre e degli altri. Oltre alle parole, ormai sempre meno, le mie, che riesco a mettere insieme. Che poi questa è un’altra storia. Ma non avrò mai voglia di raccontarla. Sono stanca. Stanca di non sentire i corpi vibrare, di non condividere lo spazio con altri occhi, altre mani, altri voci. Altri corpi, fatti di pelle e respiri, di posture e gesti. Sono stanca, me ne accorgo. Sto esaurendo le scorte, anni e anni di esperienza nel tenere la mia mente al sicuro mi sono stati utili in questi mesi. Ma si stanno esaurendo le scorte. Me ne accorgo.Il quadro generale è scomposto, frammentato. Oltre il sospeso, oltre l’attesa. Si sfalda. Impossibile tenerlo insieme, immaginarlo in divenire.Spiegarlo. Perfino prendersi in giro dicendo di averlo compreso. Impossibile. Le complessità si sovrappongono, e non riconosco il senso. Il senso profondo, la direzione.E dentro. Dentro le cose sfarfallano, come la lampadina di una qualsiasi sala d’attesa di una stazione qualsiasi immersa in un buio qualsiasi.E sono stanca.Io sono fatta per essere in mezzo alle cose, tra le cose. Tra le persone. Io sono fatta per utilizzare i sensi. Tutti. Io per vivere devo toccare, devo vedere, e guardare, annusare, assaggiare. Ascoltare.Io sono fatta della mia solitudine. La solitudine che ho costruito, che bramo e desidero. Sono fatta della mia solitudine, per la mia solitudine, quella che cerco, quella in cui sono reale. Quella in cui mi siedo, in cui gioco. Io sono fatta per ritirarmi dentro, quando voglio io. Quando il dentro è accogliente, quando il dentro mi cura, quando il dentro mi rassicura, quando il dentro mi risponde. Quando dentro ci sono io.Ma dentro. Adesso dentro le cose sfarfallano. Sfuggono. Si fa fatica e tenerle.Il senso sfugge. Il senso del mio agire, personale e politico. Quell’agire nel quotidiano, all’interno e all’esterno, su cui ho costruito e costruisco la totalità di me. Condividere, dialogare, attraversare, distruggere, oltrepassare. Relazioni, stanze, percorsi.Sfarfalla.Come una lampadina.E duellare con la rassegnazione, con l’abitudine. Con l’attraversare lo stallo, la sospensione, fino a non distinguere più il limite, quel limite così pericoloso da attraversare. L’assuefazione. L’immobilismo. Non si è mai davvero immobili. Nell’immobilità ci muove, senza nemmeno capire quanto, senza nemmeno capire quando, si scivola. Si slitta.E servono grandi manovre di controllo del mezzo per non slittare nella direzione sbagliata.Sono allenata alla guerriglia quotidiana, alla costruzione di un mondo che sia in opposizione e in posizione di resistenza attiva. La costruzione quotidiana di qualcosa che sia altro dall’esistente che ci viene imposto.Sono una donna, sono un’anarchica. Sono allenata alla guerriglia. Piedi radicati e gioia armata. Ma anche la più solida delle guerriere cerca il riposo, l’abbandono. Il momento in cui tutto cede, l’acqua che inonda, le macerie. Le macerie sui cui ho imparato a sedermi a fare colazione prima della ri-costruzione.Adoro le macerie, l’esplosione del tutto. Sganciare i cavi, il crollo dell’impalcatura. Tutto sempre in divenire, tutto sempre in movimento, all’interno, all’esterno. E vaffanculo all’eterno che ripete se stesso.Ma non posso far esplodere niente, adesso. Mi manca la possibilità dell’abbandono.Abbandonare il gioco, abbandonare la nave. Gettarsi in mare e nuotare senza un direzione, la mente si risposa senza dover pensare a questo dover colmare la distanza.La distanza dal mondo, la distanza dai corpi, dagli amori.Perché io non ho affetti. Io non ho congiunti. Io ho amori. Le persone che compongono il mio mondo, e di cui io compongo il loro, sono fatte del mio amore e io del loro.E questa distanza da colmare si allarga. E ci cade tutto dentro, in questa distanza che deforma, manipola, ingigantisce. L’ego strabocca. Mi resta la bestemmia. Sussurata, dio vile. Piedi radicati e gioia armata.

pensati libera
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Margherita, frammento #3

qui il frammento #1 e il frammento #2 ‘pensati libera’ Così c’è scritto sul muro ocra, una scritta grande fatta con la vernice nera e un pennello. E un ramo disegnato, un ramo con delle foglie, sotto la scritta. Stilizzato, didascalico, quasi un vezzo superfluo, come un desiderio, una decorazione che non lasciasse sole le parole, un segno per sottolineare il pensiero. ‘pensati libera’ Così c’è scritto sul muro ocra del giardino botanico. E Margherita si ferma. Si ferma e si siede sul marciapiede di fronte, a volte si siede tra una macchina e l’altra ferme parcheggiate. Si siede e legge. ‘pensati libera’  pensatemi libera pensatevi libere pensiamoci libere lasciateci libere pensiamoci pensiamoci  Margherita si ferma, si siede, a volte si siede tra una macchina e l’altra ferme parcheggiate. A volte si accende una sigaretta, ha pensato di smettere. Un giorno. Si ferma e si siede. Fuma e legge. ‘pensati libera’ e pensa. Pensa e si chiede. Libera da cosa? Libera da me stessa? Libera dall’inadeguatezza, da questa distanza? Margherita si ferma, si siede e fuma. Se c’è il sole chiude gli occhi e pensa ad occhi chiusi con il viso rivolto verso il sole e cerca. Cerca, ad occhi chiusi con con il viso rivolto verso il sole, di non sentirsi sola. Libera dal senso di colpa? Libera da questo inespresso che si espande nella cavità buia? Libera da un’immagine di me che non corrisponde a nessuna immagine intorno a me?  Margherita si ferma, si siede e fuma. Se c’è il sole chiude gli occhi e pensa ad occhi chiusi con il viso rivolto verso il sole e cerca. Cerca, ad occhi chiusi con il viso rivolto verso il sole, di non sentirsi sola. Se le viene fame, dalla borsa tira fuori qualcosa da mangiare. Mangia, al sole. E pensa. Seduta dall’altra parte della strada, di fronte al muro giallo ocra dell’orto botanico. E pensa. E si pensa. ‘pensati libera’ Nel perenne stato di non aderenza. In un eterno fuori posto, eternamente fuori luogo. Non poter essere nel momento, non poter essere al di là. Attraversata da correnti senza nome. Irrisolta vagante. Quasi aliena. Trasparente. Alienata. Scomoda. Una domanda ad ogni passo anche solo immaginato. Una domanda per ogni notte, una domanda per ogni risveglio. Pelle e sangue, ossa e nervi. Assemblata. In assenza di direzione, in assenza di traiettoria passata presente futura. Una frattura in cui inserirsi, un luogo in cui stare. Silenzio dove ricominciare. Nel perenne stato di non aderenza, in un reale che non può agire, assorbire, modificare. Sconosciuta. Eretta mai in modo corretto. Corretta dall’esterno. Mobile ma immutabile. Inadeguata secondo parametri indotti. Dicotomici. Impedita nel poter pronunciare io sono. Spostata, esaltata, eliminata, usata, discussa, esaminata, giudicata, derisa, annullata. Negata. Relegata in assenza di azione, ammessa solo nei gesti innocui. Costretta a rivendicare, ad urlare. Privata di un luogo che sia luogo accessibile. Non pronunciata, non verbalizzata. Privata di un linguaggio che sia riconosciuto. Marcia, sana, pulita, infetta. Oggetto identificato. Estromessa dal contesto. Nel perenne stato di non aderenza. Impossibilitata a pronunciare le parole semplici e indispensabili io sono. Una voce in un corpo scorretto, corrotto, dedotto, incantato, incatenato in un non luogo. Un corpo detto, stabilito. Destino, destinato. Tradotto. Cristallizzato nella differenza. Cristallizzato. Costretta a rivendicare, costretta ad urlare. Costretta a camminare su una strada tracciata solo con il prossimo passo, cercando nei passi passati un percorso da potersi definire suo. In attacco è in difesa, posizionamenti astratti su presupposti estranei. Io sono. Io sono niente se non quello che faccio. Io sono quella che sono. Ma non sono quello che dovrei, stando a quello che dicono. Ogni giorno, dovrei essere qualcosa che non sono, ogni giorno potrei essere qualcosa che non voglio. Ogni giorno sono quella che sono senza sapere cosa sono. Ogni giorno sono qualcosa che non so conoscere. Doppia, tripla. Accompagnata, accudita, sgridata, contemplata. In uno stato di vita apparente, il fare oltre l’essenza stabilita non ha un luogo, non ha parole per essere detto. Concepita solo nell’assenza, nell’essere altro da ciò che è come unico ed univoco. Esistenze ripetute, all’infinito. Io sono. Io sono. Mar ghe ri ta. Ma rghe rita Margherita. Sono un nome, un fiore, un nodo, un dolce, una pizza, una canzone, un lago, un’isola, una cima, una città, un satellite, una nave.

diritti d'autrice
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Margherita, frammento #2

Ma r gh e ri ta Scompone il suo nome tra le labbra. Mar ghe ri taMar gheri taMa r gh eri ta Fa rimbalzare le lettere sulla lingua chiusa al buio nella bocca. E intanto muove le dita dei piedi tra materasso e piumone, la stanza sospesa, non è notte non è giorno.Margherita sta. Sta nel letto, e snocciola le lettere del suo nome. Margherita non vuole perdere il suo nome. Margherita sa che finché si ricorderà il suo nome. Finché saprà ricordare e pronunciare il suo nome. Finché. Saprà il suo nome. Anche se è il nome di un corpo vuoto.Di un corpo che quindi non sente.Sdraiata su un fianco, non è notte non è giorno. Margherita sa, dove si trova. Riconosce la stanza come la sua stanza, nella sua casa. Riconosce come sua la scrivania sotto la finestra e il fico fuori dalla finestra, radicato nel giardino dell’appartamento al piano di sotto. L’armadio, i vestiti. I libri. Le foto. Sa, che sua madre e suo padre dormono nella loro stanza in fondo al corridoio. Che il corridoio è lungo e che in fondo al corridoio da un lato, davanti alla camera dei suoi genitori, c’è il bagno, in fondo dall’altro lato c’è il salotto.  M a r gh e r i t a M ar ghe r ita Margherita respira, sdraiata su un fianco sotto al piumone. Si tiene vicino a tutto quello che ancora sa. Tutto quello che ancora sa senza bisogno di pensare, decidere, capire, scegliere. Margherita affida ad un elenco mnemonico e dicibile la costruzione della sua cartina interiore. Margherita affida all’elenco puro ed inequivocabile la costruzione della sua direzione emotiva. Riduce distanze, delimita confini.Margherita sa. Margherita sa il suo nome e sa dove si trova. Riconosce le cose che la circondano. Conosce le strade da percorrere per andare e tornare. Le strade da percorrere per raggiungere e lasciare luoghi e persone.  Margherita respira, ripete il suo nome e ripete tutte le cose che sa con certezza. Ripete l’elenco di tutte le cose che esistono perché le può toccare.   Tutto il resto galleggia.Al di là delle distanze, dei confini. qui, il frammento #1

margherita
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Margherita, frammento #1

Prima di Rita, Ghita, Altra e Marghe. Intorno, e dopo. Margherita, in frammenti. Per poter lavorare devo far uscire dalla scatola quello che è stato scritto. Margherita, frammento #1 Margherita è un nome. Si volta verso la finestra, sul muro della casa al di là della strada un passerotto si posa e becca l’intonaco, vibra di piccoli movimenti ripetuti. Poi accade qualcosa, qualcosa che non vede e non sente, ma volano decine di passerotti, anche quello sul muro. Volano via. Margherita rimane a guardare il muro della casa al di là della strada. Vuoto. Margherita non si immagina di volare via con i passerotti. Non vuole sapere cosa non ha visto e cosa non ha sentito. Margherita ha una mano, piccola, bianca infilata tra le cosce accavallate. L’altra è un pugno, piccolo, bianco appoggiato sul tavolo. Nel pugno c’è una penna.Margherita è un nome, è il suo nome. È il suo nome e quello di tante altre Margherita. Che camminano, amano, mangiano, dormono, lavorano, odiano, ridono, escono. Tante altre Margherita, da qualche parte. Tante Margherita, che esistono. Avanzano. Corrono. Arretrano. Ballano. Tante Margherita. Che si provano vestiti, che annaspano. Che cercano. Che ascoltano, chiudono gli occhi, studiano, lavano i piatti. Si voltano, sbagliano. Camminano, toccano. Aspettano. Progettano, scappano. Restano. Cadono. Si nascondono. Tornano. Chiedono.Questa Margherita allenta il pugno. Nel pungo c’era una penna. La penna fa un piccolo rumore quando incontra il tavolo, fa un mezzo giro su se stessa e poi si ferma. Questa Margherita stringe i muscoli intorno agli agli occhi, le si formano due pieghe sulla fronte. Sigilla le palpebre e fa sparire tutte le altre Margherita. Quando si volta, il passerotto, un passerotto, torna e si posa sul muro a beccare l’intonaco, vibra di piccoli movimenti ripetuti. Margherita è un nome. È il suo nome. Ma Margherita sa che un nome senza corpo è solo qualcosa che puoi pronunciare senza che accada niente. Margherita. È un nome senza corpo.  E il corpo è.Il corpo è tutto. Il corpo sente, il corpo incassa. Il corpo vive. Il corpo si riempie. Il corpo ricorda. Il corpo non mente. Il corpo percepisce, dolore. Piacere. La fame e la sete. Il corpo reagisce. Il corpo accoglie. Il corpo si chiude, il corpo non dimentica. Il corpo traduce il mondo. Il mondo colpisce il corpo, il mondo accarezza il corpo. Il corpo risponde. Il corpo sceglie. Il corpo dice. Il corpo afferma. Il corpo trema, il corpo resta. Il corpo aspetta, ascolta. Il corpo tocca, riconosce, scopre. Il corpo esplora, il corpo conosce. Il corpo agisce. Il corpo sta. Margherita fissa i libri aperti, il quaderno aperto.  Il corpo è. Il corpo è tutto. Margherita sfila la mano dalle cosce accavallate, con tutte e due le mani si sposta i capelli lunghi, lisci, neri dietro alle orecchie. Con la mano che prima stava infilata in mezzo alle cosce accavallate, che sono sempre accavallate, sfoglia un pagina, l’altra mano riprende la penna. Margherita legge, costruisce un pensiero intorno a quello che legge, riporta il pensiero sulla pagina del quaderno aperto. Margherita studia.Margherita studia mentre il passerotto becca il muro della casa al di là della strada e vibra di piccoli movimenti ripetuti. Il corpo di Margherita, adesso, è vuoto. Un corpo vuoto non è.Un corpo vuoto non è niente. Il corpo di Margherita non è.E Margherita è solo un nome.Il suo nome. Ma un nome senza corpo è solo qualcosa che puoi pronunciare.Senza che accada niente. Margherita.

sono fatta di piccole cose
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Sono fatta di piccole cose

Sono fatta di piccole cose. E questo, a volte, non aiuta. Mi piace bere grandi tazze di caffè mentre guardo fuori, magari con la fronte che ogni tanto si appoggia al vetro.Mi piace affondare il viso nel cuscino quando mi sveglio la mattina. Mi piace fumare in silenzio, senza fare altro, con i piedi appoggiati sulla scrivania. Mi piace annusare l’odore dell’inverno. Mi piace tenere le luci basse quando cucino, e mi piace la condensa che si forma sui vetri. Mi piacciono le penne con la punta fine e l’inchiostro nero. Mi piace piegare la biancheria e lasciarla impignata per un po’ sul letto. Mi piace annaffiare le mie piante grasse. Mi piace tirare fuori i libri dalle librerie e spolverarli con un pennello. Mi piace guardare mio padre quando legge e si arriccia i baffi con il pollice e l’indice. Mi piace il rumore che fa il lapis quando sottolineo le frasi di un libro. Mi piace come si appoggia una luce particolare, nel pomeriggio, sul pavimento e che risale fin sopra al divano.Mi piace camminare piano. Mi piace impastare l’acqua con la farina, senza uova, solo acqua e farina. Mi piace mettere a seccare i fiori e le foglie tra le pagine dei quaderni. Non dei libri, ma dei quaderni. Mi piacciono i dettagli. Mi piacciono le cose piccole. Mi piace la lentezza. Mi piace il pensiero senza una meta. Sono fatta di piccole cose. E questo, a volte, non aiuta. Perché là fuori, fuori dal mio piccolo mondo minuto, i dettagli sfuggono. E le piccole cose non trovano spazio. E nemmeno io.

note sul tempo
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Note sul tempo.

Immobile nel tempo. Nello scorrere implacabile. Snocciola i minuti che passano. Spalanca la finestra. I minuti scivolano per strada, sbattono contro gli alberi, rotolano sull’asfalto. Inesorabili. Vanno. Immobile di fronte all’inondazione. Sopraffatta. Ingoia la saliva, nel silenzio immobile incantata inerme. Se solo li potesse fermare, se solo potesse fermare l’inondazione. Fermare il tempo. Per dire tutto quello che non dice. Per gridare tutto quello che tace. Con i piedi a mollo nei minuti, salgono fino alle caviglie. Non si possono arginare.

scrittura
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Marghe – un racconto

Come Rita, come Ghita, come Altra. Vuoi passarti il palmo della mano sulla nuca sudata. Sollevare i riccioli rossi sudati, appiccicati sul collo sudato. E assaporare il sollievo. Ma non hai mani libere. Il sacchetto della spesa pesa, pesa nella mano destra. Non troppo, ma pesa. E la mano sinistra stringe il cappio di plastica che ciondola dal soffitto del tram. Fa caldo. E non hai mani libere. È una sensazione semplice, di semplice disagio temporaneo. Sotto pelle, si intromette. Di questo si tratta. Sensazioni che attraversano il corpo appena sotto la superficie. Nel caldo, nelle voci, nei corpi. Tutto intorno. Il tram che frena secco, si sposta il baricentro e perdi l’equilibrio. E lo ritrovi. Instabile. La spesa i finestrini chiusi il traffico le macchine i palazzi i negozi le persone sedute le persone in piedi. Si intromettono. Sotto pelle, a volte. C’è qualcosa, appena sotto. C’è qualcosa, quasi sempre. Qualcosa per cui a volte, al mattino, ancora ancorata al sonno, disarticolata. Come aver il corpo sparpagliato sotto le lenzuola. Conti le fermate. Le percorri e le superi, una dopo l’altra e sei a casa, hai fatto la doccia, stai preparando la cena. Sei al sicuro. Ma adesso è adesso, con i vestiti addosso e i corpi intorno, i respiri le parole le vite gli occhi i piedi nei sandali la borsa di traverso la tracolla di traverso i semafori rossi l’equilibrio perduto ritrovato. Instabile. Interferenze.Di questo si tratta.Interferenze. Si riparte, adesso e di nuovo. Al di là del vetro una ragazza in bicicletta attraversa il traffico. Sta cantando. Non la senti, ma la vedi, è evidente. Sorride e canta. La vedi, la guardi, la segui con lo sguardo. Pedala senza mani, in perfetto equilibrio. Il tram si allontana, la ragazza si allontana, fila via veloce oltre le macchine. Ti resta nello sguardo. Il tram si ferma, delle persone scendono. Spazio. Appoggi il sacchetto della spesa per terra.Ti passi il palmo sulla nuca sudata e sollevi i riccioli rossi sudati appiccicati sul collo sudato. È una sensazione semplice, di semplice piacere temporaneo. Si infila sotto pelle. Di questo si tratta. In questo tempo che passa e che scivola scivola e scivola e si stende si allarga si gonfia in questo tempo qui e ora. Di questo si tratta. Sensazioni. Interferente. Continuamente. Qui e ora. E qui e ora, dissolviti. Quante volte l’hai pensato. Quante volte ti è sembrato di sentirtelo dire? Imperativo. Dissolviti, ma senza fare rumore, fatti aria. Né troppo fredda né troppo calda. Evapora, fatti soffio. Dissolviti. Ma come se non fossi, mai stata. Mai stata qui né altrove. Mai esistita. Mai esistita in questo tempo che passa e che scivola scivola e scivola e si stende si allarga si gonfia. Dissolviti. Imperativo o desiderio. Comandamento. Attraversata da questa correnti senza nome, da queste parole sconosciute, incagliate. Disarticolate. Che si formano e si sformano, slittano e si insediano negli angoli bui, sull’autobus, mentre ti fai la doccia e poi ti guardi nello specchio, parli al telefono, cerchi il sonno sotto le coperte. Fatti aria, fumo o vapore. Senza lasciare alcuna traccia di te. Impronta. Vuoto. Assenza o differenza. Indifferenza. Come se non fossi, mai stata. Mai stata qui né altrove. Mai esistita. Incomprensibile, impronunciabile. Marghe, dissolviti.Interferenze imprevedibili.Di questo si tratta.Imperativi.Interferenzedisarmonichearmoniche.Desideri.Inclinazioni.Pieghe.Slittamenti.Contraddizioni.Asimmetrie.Esitazioni.Piani inclinati.Cacofonie. Conti le fermate, pensi ripassi ripensi le cose che devi fare. Perché di questo si tratta. Quello che devi fare. Ma c’è qualcosa, e ticchetta. Come il tempo, ma non è il tempo. Perché il tempo non ticchetta. Gli orologi ticchettano, ticchettano così forte che non riesci a dormire. Come i pensieri, che a volte ticchettano. Ticchettano così forte che non riesci a dormire. I pensieri. Ticchettano. Quando cerchi il sonno sotto le coperte.Incomprensibile, impronunciabile.Ma il tempo no. Il tempo non ticchetta, il tempo scivola, e scivola e scivola e scivola e tu ci scivoli dentro. Il tram ci scivola dentro. La vita ci scivola dentro.Senza arrivare mai.All’infinito.All’infinito attraversata da correnti a cui non sai dare un nome, da queste parole che non sai riconoscere.In questo tempo e negli altri, in questo luogo e negli altri.All’infinito.Di questo si tratta? Scivolare.Imperativi.Interferenzedisarmonichearmoniche.Desideri.Inclinazioni.Pieghe.Slittamenti.Contraddizioni.Asimmetrie.Esitazioni.Piani inclinati.Cacofonie. Se mi levassi di dosso uno strato dopo l’altro cosa resterebbe di me? Lascia stare. Non ci pensare. Non dubitare. Passati ancora una volta il palmo sulla nuca sudata, spostati i riccioli rossi sudati appiccicati sul collo sudato. Osserva il sole, il sole che batte. Mentre il tram vibra e freme al semaforo rosso. Il sole che batte sull’albero. Osserva il sole che batte sulle foglie. Foglie verdi che fremono. Foglie verdi, verde scuro, verde che sembra grigio, grigio che sembra argento, verde chiaro, verde quasi bianco, bianco. Trasparente. Fremono. Brillano. Danzano. Marghe, sorridi. Non troppo, né troppo poco. Sorridi, lascia andare. Lascia andare, sorridi. Marghe, non scavare, non domandare, non indagare. Non dubitare. Lascia che tutto sia come deve essere, e siedi al tuo posto. Marghe, sorridi. Sei quasi arrivata. Non dubitare. Dissolviti. Imperativo. Desiderio, trascurabile. Angoli bui. Parole insediate. Sibilano, insinuano instillano sobillano. Verità, e porte e abissi e specchi. E bastasse passarsi il palmo sulla nuca sudata per dissolversi. Farsi vapore o fumo o aria. Asincronie. Correnti senza nome. Incagliata, disarticolata. Bastasse passarsi il palmo sulla nuca sudata, e scostarsi i riccioli rossi sudati appiccicati sul collo sudato per non perdersi, e non essere sempre incerta nel passo, nel gesto, nella decisione. Bastasse passarsi il palmo sulla nuca sudata per non sentirsi. Per non sentirsi sempre. Qualcosa che sta negli angoli bui insieme alle parole insediate. Bastasse passarsi il palmo sulla nuca sudata, per non sentirsi trascinata. Incapace. inadeguata. Guidata. Indirizzata. O dissolversi. Dissolvere le interferenze. Le cacofonie. Questo senso di perdita. Questo senso di incompiuto. Irrisolta. Sul tram che riparte, ondeggia, rallenta, singhiozza. Fuori c’è il sole. Hai fatto la spesa. Tornerai a casa e preparerai la cena, studierai ancora un po’ per il colloquio di domani. Chiamerai i tuoi genitori. Di questo si tratta. Fare le cose che devono essere fatte. Questo è quello che sai, questo è quello

un racconto
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Altra – un racconto

Questo testo è lo specchio di Ghita. Come Ghita e Rita fa parte del famoso testo a cui sto lavorando. — So, in un secondo, che è di vitale importanza che il mio sguardo resti nel suo sguardo. Non sbatto le palpebre, non cambio espressione. Sto nel suo sguardo, ci precipito dentro. So, in un secondo, che quello che devo fare è restare. Qui e ora, nel suo sguardo. Resisto all’impulso, di uscire, precipitarmi sulle scale, precipitarmi in strada, sfondare la porta, trascinarla fuori. I muscoli si fanno cemento per trattenere lo scatto. Resto. In primo piano mentre lo sfondo si sfalda, sto. Nel suo sguardo, che mi si aggrappa al petto, mi scivola fino alla pianta dei piedi, radicati al pavimento. So, che all’improvviso il suo viso si contrare. So, che volta di scatto la testa, che chiude la tenda. So, che mi lascio andare sul pavimento, che torna lo sfondo mentre il mio corpo precipita a terra, il cemento si fa segatura. So, che rimango sfatta sul pavimento. Molle, sfinita. C’è una parola che possa descrivere uno sguardo che non è paura e che non è angoscia, che non è resa e che non è assenza, che non è dolore e non è vergogna, che non è rabbia e non è odio ma è tutte queste cose insieme? E c’è una parola che possa descrivere il restare in uno sguardo che è tutte queste cose insieme? Mi alzo, apro la finestra. Come quella sera. Fa caldo, anche stasera come un anno fa. Faccio entrare l’aria fresca. Come quella sera. Faceva caldo e volevo aria fresca, su di me sulla casa sudata. Torno sdraiata su letto, le mani intorno all’ombelico che si alza e si abbassa. Ci sono storie che devono essere raccontate. Chiudo gli occhi. Esistono quelle parole? Apro gli occhi, fisso il soffitto e guardo oltre. Narrare uno sguardo senza poterlo nominare, narrare lo stare in quello sguardo senza poterlo nominare. So, che quando riesco ad alzarmi dal pavimento il tempo è scivolato sotto la porta della mia camera senza fare rumore. Vado in bagno, metto i polsi sotto all’acqua fredda. Non mi guardo nello specchio, non ho spazio per guardarmi, parlarmi e non riconoscermi. So che vado a letto, affronto le lenzuola in uno stato di disordine che sbatte contro le tempie. Mi addormento. So che quando mi sveglio la mattina dopo sono dentro al suo sguardo, sono dentro al disordine. Mi alzo, vado alla finestra, lei non c’è. So che incrocio le braccia, che scuoto la testa per mescolare i pensieri e gettarli sul tavolo in una nuova combinazione. E poi un’altra, poi un’altra ancora. Il cellulare squilla sul comodino, mi muovo. È mia madre, allora rispondo. Ciao mamma. Ciao tesoro. Silenzio. Non hai ancora bevuto il caffè? No. Allora ti richiamo dopo, o magari ti chiama papà. Va bene. Ciao. Ciao. E poi sono di nuovo alla finestra, e lei non c’è. I muscoli si fanno nuovamente cemento. Resisto all’impulso. Scuoto la testa. Una volta, due volte, un’altra volta. Precipito in quello che ho visto. Ma vedere non è il verbo giusto. Chiudo gli occhi. So, che devo muovermi piano. Sdraiata sul letto, intreccio le dita delle mani. Guardo ancora oltre il soffitto. Non credo che esistano quelle parole. Né l’una, né l’altra. Mi ricordo tutto, però, in ogni più piccolo è trascurabile dettaglio. Per questo, forse, devo raccontare questa storia. In ogni suo più piccolo e trascurabile dettaglio. Partendo da quello sguardo. Dal precipitare in quello sguardo. Anche se non so come si dice né l’uno né l’altro. Perché so che non sarò mai più come ero prima. E forse anche per questo devo raccontare questa storia. Perché ci sono storie che devono essere raccontate, in un modo o nell’altro. E questa è una di quelle. Tutto quello che è successo, tutto quello che ci è successo. Come due pesci in un acquario, ognuna dietro alla sua finestra.Il suo sguardo, io che ci precipito dentro. E che scelgo. Io che so senza sapere come. Io che so, che è di vitale importanza muoversi piano. Io, che l’ho vista, un’ombra, distrattamente, perifericamente l’ho visto entrare e sparire nel portone un attimo prima. Io, che scelgo. So che devo muovermi piano. Ho portato la poltrona dal salotto alla mia camera dal letto. L’ho messa vicino alla finestra, insieme al comodino. Ho chiamato in ufficio. Mi prendo qualche giorno di ferie. Tutto bene? Sì, ho delle urgenze familiari da gestire. Se abbiamo bisogno posso farti fare delle cose da casa? Certo. Grazie. Ciao. Ciao. Poi mi siedo. Appoggio la testa contro la poltrona, sento il mio corpo. Aspetto. Mi lego i capelli. Mi alzo, mi faccio un caffè. Leggo un libro. L’ultima volta che alzo la testa e guardo fuori dalla finestra convinta di non vederla, come tutte le altre volte, lei è lì. Mi alzo, la guardo. Mi guarda. Bevo un sorso di caffè. Ormai è freddo. Quasi non respiro. Piano. Inclino la testa, leggermente. Anche lei lo fa. Sorrido, piano. Anche lei sorride, sospesa. Incerta. Il viso immerso in un mare infinito di espressioni interrotte. So, che devo muovermi piano. Muovo le braccia, le mani. Apri la finestra. Scuote la testa. Sorrido. Non importa. Mi dispiace. Non importa. Possiamo parlare? No. Resto qui? Sì. Così? Sì. Tutto il suo corpo mi investe, mi si schianta addosso. L’indicibile peso di un corpo intrappolato. Pelle, ossa, sangue. Uno schianto. Precipito. Nell’urgenza, nella totalità. Senza un inizio e senza una fine. Tutto il suo corpo parla. E quello che dice è un fracasso assordante. Un battere e un pulsare, ripetutamente. Resto. Lo posso sopportare. È lei, non sono io. Resto. Sciolgo le dita delle mani intrecciate. Mi guardo le dita dei piedi. Nudi appoggiati sulle lenzuola. Ascoltare un simile fracasso muta il tuo essere in punti in cui non credevi si potesse accedere. Ascoltare un simile fracasso riscrive le certezze e le illusioni. Riscrive il senso profondo di quello che pensi di sapere. Un simile fracasso

un racconto
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Ghita – un racconto

Anche Ghita, come Rita, fa parte del testo a cui sto lavorando da un po’. Intanto. Ghita – un racconto Ghita si guarda. Il volto riflesso.Ghita si fissa, il volto riflesso nel vetro. Sa che se lo facesse abbastanza a lungo di lei, nel vetro, non rimarrebbe niente. Solo la casa al di là della strada, con la persiana sghemba della finestra al primo piano.Ghita si fissa, inclina la testa. Inclina la testa e appoggia il palmo della mano sul vetro.Accanto al volto riflesso, sotto la persiana sghemba. Ma non basta. Questo non basta. Vederla adesso, così non basta.C’è una cosa che dobbiamo provare a sentire. Per capire. No. Per provare anche solo ad immaginare. Rarefatta, senza contorni, non dico capire, no, ma immaginare sì, anche se rarefatto e senza contorni. Quello che dobbiamo provare a sentire è il quotidiano. Che si ripete.Sentire i giorni, che si fanno uno dentro l’altro, si sfanno. Uno dentro l’altro. Pensare i giorni, i mesi, gli anni. E i giorni, tutti. Uno dentro l’altro, uno dopo l’altro, prima dell’altro, dentro l’altro. Ghita, silenzio.Il volto riflesso. Il palmo della mano.La mano sul vetro.La testa inclinata. Non è qualcosa che va e che viene, che a volte accade e a volte no. C’è sempre, accade sempre, anche quando non accade, c’è il prima e c’è un dopo, per questo accade sempre. I giorni si infilano uno dentro l’altro. Uno dopo l’altro, prima dell’altro, dentro l’altro.Le ore che passano, fatte di secondi, le ore che passano fatte di secondi, i secondi che fanno le ore che fanno i giorni che fanno le settimane che fanno i mesi che fanno gli anni che sono fatti di ore, anni che sono fatti di secondi anni fatti di secondi intrecciati tic tic tic secondi ore giorni mesi anni senza interruzione senza sosta uno dopo l’altro questo dobbiamo sentire per riuscire anche solo ad immaginare.Tutti i giorni, un peso nel petto. Un bolo, gomitolo sudicio. È difficile respirare, i polmoni non si aprono, non si riesce a respirare, ad aprire i polmoni, a respirare, fino in fondo, non si riesce a respirare fino in fondo, ad aprire, tutto resta indietro, i pensieri anche quelli, i pensieri restano indietro, un passo due passi tre passi indietro. A volte lo vede. Un bolo, un gomitolo sudicio, polveroso. Pensa di toglierlo, penso di aprire e afferrarlo e lavarlo. No. Buttarlo. Ma è li, e non si può aprire, ed è grande radicato, fa parte del suo petto, fa parte del suo corpo, fa parte dei suoi giorni, e mesi e anni. Tutti i giorni. Immobile, si fissa. Il corpo teso, non troppo. Leggermente proteso. La camicia che indossa, la circonda. La nasconde, come fosse appoggiata ma non indossata. La gonna, le scarpe. Nere con un po’ di tacco. Non troppo. Si fissa, abbastanza a lungo da scomparire.Resta solo la casa al di là della strada, la persiana sghemba della finestra al primo piano.Sfila la mano dal vetro, rilassa le spalle con un respiro minimo, diaframma che si contrae. Non troppo.Sbatte le palpebre. Eccola di nuovo. Accanto alla persiana sghemba. Della finestra al primo piano della casa al di là della strada. Tutti i giorni. Non si distingue, nel tempo. Si perde e si confonde. I secondi, i minuti, le ore, i giorni, i mesi, gli anni. Soprattutto i giorni. Quelli dobbiamo sentire, i giorni. Fatti di una pasta. I giorni, certo. I mesi, gli anni. Non sono, non hanno un nome, non hanno un pensiero. Non una pasta, non è una pasta. No. Anche le parole si perdono, e i significati. Dobbiamo capire i giorni. Dobbiamo sentire i giorni. Dobbiamo stare nel quotidiano che si ripete senza inizio e senza fine. Un quotidiano infinito in un infinito quotidiano. E non si può uscire, non è come aprire la porta e andare, e anche quello, neanche quello si può fare. Non c’è un pensiero che possa anticipare il gesto, un gesto, qualcosa, un movimento che sia diverso. Se una cosa non la pensi, se una cosa non la riesci ad immaginare quella cosa non esiste. Non esiste il diverso da questo, da questa cosa che vive. Questa cosa in cui sta, immersa. Può solo stare. Sta. Ma non immobile. Sta in uno stato di immobilità, piuttosto. Non attende, non pensa. Non è in procinto di. Uno stare continuo senza fine in cui tutto si sovrappone. Il tempo è assente, il tempo è un sempre inagibile. Nuvole. Nuvole piccole in cielo, fuori. La luce cambia, i colori calano. Un momento. Il tempo di dirsi qualcosa sotto voce. No, non è nemmeno sotto voce, è solo un sospiro verbalizzato. Piano, le labbra si muovono. Un rumore, ottuso, da qualche parte. La luce cambia di nuovo, sempre e solo per un momento. Nuvole, nuvole piccole in cielo, fuori. Un sospiro, calma devi stare calma. Sta facendo buio, fuori dalla finestra, dentro alla finestra. Nuvole piccole in cielo. Fuori dalla finestra, nuvole, in alto nel cielo. Sta, nello stato di immobilità. Immutabile. Tesa e immobile. I pensieri non hanno forma in questa cosa in cui vive, i pensieri non si formano. Ci sono le cose che sa, le cose che ha acquisito, i gesti che ha imparato per rendere tutto meno acuto, meno pericoloso, è un non pensiero questa cosa in cui è immersa, è la ripetizione di una serie di cose che deve fare. Solo certi sentimenti sono. Sono acuti, ma sono anche opachi, come quando li perdi. No, come quando non li pensi, non li provi ma ci sei immersa. I pensieri la vivono. I sentimenti la vivono. Il tempo la vive il quotidiano la vive il tempo la vive lei non vive tic tic tic lei sta Ghita nel vetro. Guarda le nuvole, le ombre. Le luce offuscate dei lampioni. Le fissa. Poi si fissa. Scompare, di nuovo. Di nuovo c’è solo la persiana sghemba. Passa una macchina, fruscio di pneumatici, poi un’altra. Poi un’altra. Poi silenzio. La persiana sghemba al primo della casa al

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fallimento

Fallimento. Indaga la parola con la punta della lingua, ne valuta il sapore. È sorpresa, non è amara come aveva sempre pensato. La parola fallimento è acida. L’annusa, ricorda qualcosa che è stato dimenticato ed ha iniziato a fermentare. Non a marcire. A fermentare. Cerca una corrispondenza, l’eventualità di una correlazione emotiva. Tocca l’idea con la dita, è molle. Umida. Sgradevole. La solleva, ne valuta il peso, la sposta dalla mano sinistra a quella destra. La lascia andare, la osserva. Si allontana, in apnea. Poi lascia andare anche il respiro, con più forza di quanto non si aspettasse.Fallĕre. Si volta a guardare i ricordi, nella memoria. Ingannare, ingannarsi, sbagliare.È andata così? Si tratta di questo?Cos’altro?Non riuscire, mancare d’effetto.Mancare il colpo.Potrebbe, sì. Potrebbe essere questo il punto. Ma non sa se le importa, non sa se le serve. Sapere, capire, spiegare. Spiegarsi. Trovare una corrispondenza emotiva. Dare un nome alla cosa. Alle cose. Ché forse non le importa più. Perché forse non le importa più pensare. Perché forse sta nel pensare l’inganno, lo sbaglio. È nel pensare che è iniziata la fermentazione, il fallimento. Perché forse il pensiero può ingannare. Allontanare. Manipolare.Perché forse il pensiero accudisce, e lenisce il conflitto. Lo sfibra, lo depotenzia. Perché forse pensare disarma il conflitto. E allontana la risposta. La manipola.Ma la risposta è lì.Perché forse il pensare ha solo prodotto pensieri consolatori e assolutori.Trattiene il fiato, gonfia le guance. Arriccia le labbra e soffia, soffia via tutto.Si lascia andare, all’indietro. Sul pavimento, immobile. Sprofonda, il corpo pesante lascia l’impronta.Immobile nell’impronta nel pavimento.Nel pensare per darsi ragione la cosa ha cominciato a fermentare.L’errore irrimediabile, l’inganno senza perdono. Il pensare che mente e disarticola la riflessione.Sprofonda, il corpo pesante. L’impronta sul pavimento.Il pensare che aggiusta l’orlo del vestito per non inciampare. E non chiama le cose con il loro nome. Criceto nella ruota. Passi in superficie senza mai affondare. Assoluzioni sommarie. E il tempo è andato perso, assoluzione dopo assoluzione, rimozione dopo rimozione. Criceto nella ruota. Passi in superficie senza mai affondare. Il corpo pesante nell’impronta sul pavimento sprofonda.E un pensiero si scarta, affonda il passo, si scuote, urla, preme. Cerca la profondità. Si divincola, scatta in avanti. Affonda il passo, cerca la profondità.Ma il corpo si alza, e non c’è impronta sul pavimento.L’inganno senza perdono.È andata così? Si tratta di questo? Altro in notes Si vede. Si guarda.Dovrei in questo strano momento.

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Si vede. Si guarda.

Si vede. Si guarda. Vede come fa scivolare via i giorni rifiutandosi di dargli un senso, una prospettiva. Li lascia andare senza una traiettoria. Li accumula in un passato che si riverserà in un non luogo. Si guarda, mentre resiste alla quotidianità, mentre compie gesti automatici che sa essere funzionali ad un’aderenza alle cose appresa, automatica ed automatizzata. Si vede. Si guarda. Vede come attraversa i minuti senza pensarli, o pesarli in relazione alle ore. Vede come attraversa il tempo senza sapere come guardarlo, usarlo, sezionarlo. Assimilarlo. Ci passa attraverso, ad occhi chiusi. E non le resta niente addosso, tra i capelli, sulle dita. Lo attraversa.Si vede. Si guarda. Capisce che inizia a non riconoscermi, sospesa in superficie.Sulla superficie di questo tempo che si ripete senza proiezioni, senza aspettative.Senza immaginazione.Ecco.Si vede. Si guarda. In assenza di immaginazione, vede come attraversa il tempo senza corpo, consistenza. Senza peso, desideri. E il pensiero immobile, che non si proietta oltre l’ostacolo.Vede, le parole galleggiare. Sparpagliate, senza uno schema.Parole in assenza di immagini come corpi in assenza di gravità.Fa scivolare i giorni, ci passa attraverso. In assenza di architetture plausibili. In assenza di prospettive calcolabili. Verificabili. Immaginabili.Si vede. Si guarda.Ma non si parlo.In assenza di dialogo, senza corpo e consistenza procede in avanti.Aggrappata all’istinto. Altro in notes La mia scrittura in lockdown.Dovrei in questo strano momento.

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