Euphoria – serie tv
Con colpevole e imperdonabile ritardo ho visto Euphoria, serie Tv ideata e scritta da Sam Levinson.
Sestanti. Che modificano, ampliano e invertono la rotta di questa navigazione in mare aperto. Citazioni di libri di cui non sono riuscita a scrivere di più, per un motivo o per un altro, perché alcuni libri sono stati per me troppo intensi o perché non lo sono stati abbastanza ma qualcosa, anche solo un passaggio, è rimasto lì dove doveva. Film, musica, mostre. Segnali dall’universo.
sestante: strumento ottico per la misurazione dell’altezza degli astri sull’orizzonte, usato soprattutto su navi e imbarcazioni nella navigazione astronomica, ovvero per rilievi topografici e idrografici, come un goniometro in grado di misurare gli angoli tra le visuali di oggetti lontani visti da uno stesso punto di osservazione.
Con colpevole e imperdonabile ritardo ho visto Euphoria, serie Tv ideata e scritta da Sam Levinson.
È stata un’emozione fortissima vedere Cristina Rivera Garza, ascoltare le sue parole.
Quello che ancora non c’è
Avevi tante cose per la testa e per la testa avevi ancora un sogno da scoprire
E se è stato un sogno disperato, disperato è anche il bisogno di star bene
Maid – serie tv – Miniserie tv creata da Molly Smith Metzler con Margaret Qualley e Andie MacDowell.
Adattamento cinematografico del romanzo Donne che parlano di Miriam Toews.
foto scattate all’esposizione “Storie di donne Samurai – Tenoha exibition – Milano
No is the greatest resistance
No to your nothing existence
No is a walk, no small talk
No I don’t think it looks better
Muholi al Mudec di Milano.
Piccola ma intensa. Più di 60 autoritratti. Il bianco e il nero, lo sguardo, gli sguardi e la narrazione di sé. L’urgenza. I contrasti, cromatici.
aveva visto a un tratto cercar d’innalzarsi in un liquido sciabordio la massa della parte per pianoforte, multiforme, indivisa, piana e internamente ribollente come l’agitazione color malva dei flutti incantati e bemollizzati dal chiaro di luna.
Di nuove strade e nuove collaborazioni. Di intrecci imprevedibili e traiettorie future. Si apre ufficialmente la collaborazione di blockmianotes con il sito LaMôme Su LaMôme si esplorano scrittura e lettura, libri, cultura. Recensioni, libri che diventano film, interviste, teatro. Io sono entusiasta ed emozionata, ma soprattutto curiosa di scoprire dove mi porterà questa nuova scintilla. Per iniziare, la (non) recensione di “Per forza di cosa”, di Marco Sensi per Edizioni Malamente Seguite il coniglio bianco, andate a leggere la (non) recensione su LaMôme.it
Ho finito ieri sera di leggere La mano sinistra del buio di Ursula K. Le Guin. So che non riuscirò a scriverne, che non riuscirò a scrivere una della mie (non) recensioni. Perché una lettura che passa dal cuore e percorre la linea delle affinità lascia frammenti intimi, emozioni che smuovono e si muovono senza poter essere fermate e isolate in frasi che possano avere un significato traducibile dall’interno all’esterno. Resta il bianco, ghiaccio e neve. L’assenza di ombre. Resta la nostalgia, un’umanità intravista e riconosciuta. Resta l’incanto della scrittura, la complessità della narrazione. La potenza dell’immaginazione, il volo e l’atterraggio. Restano le voci. Le parole. E un pianto improvviso, viscerale e silenzioso. Restano le frasi sottolineate e appuntate fra cui pare impossibile trovarne una che possa rappresentarle tutte. Nusuth, chiudo gli occhi e scelgo. La felicità ha a che fare con la ragione, e la si ottiene solo grazie alla ragione. Quella che mi era data era una cosa che non si può ottenere, né conservare, e spesso sul momento non si può nemmeno riconoscere: la gioia. La mano sinistra del buioUrsula K. Le Guintraduzione di Chiara Reali
[…] Aspetto che siano loro a svelarmi la natura e l’intensità della loro resistenza e a spiegarmi come siano riusciti a rinunciare al potere di agire come colonizzatori. Aspetto che diventino testimoni, capaci di raccontare. Affermano che il discorso sulla marginalità, sulla differenza, è andato oltre la discussione sul «noi e loro». Ma non dicono come ciò sia accaduto. Questo scritto è una risposta dallo spazio radicale della mia marginalità. Uno spazio di resistenza. Uno spazio che ho scelto. Aspetto che smettano di parlare dell’«Altro» e che la finiscano di ripetere quanto sia importante parlare di differenza. Importante non è soltanto ciò di cui parliamo, ma anche come e perché decidiamo di parlare. Spesso questo discorso sull’«Altro» è anche una maschera, un parlare oppressivo che nasconde vuoti e assenze, quello spazio dove le nostre parole prenderebbero corpo se fossimo noi a parlare, se intorno a noi ci fosse silenzio e soprattutto se noi ci fossimo. Questo «noi-soggetto» è quel «noi-oggetto» nei margini del «noi e loro», quel «noi-soggetto» che abita lo spazio del margine inteso non come luogo di dominio, ma di resistenza. Entrate in quello spazio. Spesso questo discorso sull’«Altro» annulla, cancella: «Non c’è bisogno di sentire la tua voce, quando posso parlare di te meglio di quanto possa fare tu. Non c’è bisogno di sentire la tua voce. Raccontami solo del tuo dolore. Voglio sapere la tua storia. Poi te la ri-racconterò in una nuova versione. Ti ri-racconterò la tua storia come se fosse diventata mia, la mia storia. Sono pur sempre autore, autorità. Io sono il colonizzatore, il soggetto parlante, e tu ora sei al centro del mio discorso». Stop. Noi vi celebriamo come liberatori. Questo «noi-soggetto» è quel «noi-oggetto» nei margini del «noi e loro», quel «noi-soggetto» che abita lo spazio del margine inteso non come luogo di dominio, ma di resistenza. Entrate in quello spazio. Il mio è un invito deciso. Vi scrivo, vi parlo, da un luogo ai margini, un luogo dove io sono diversa, dove vedo le cose in modo differente. Sto parlando di ciò che vedo. Parlare dai margini, parlare nella resistenza. Apro un libro. Nella quarta di copertina leggo: mai più nell’ombra. Un libro che suggerisce la possibilità di parlare da liberatori. Solo chi parla e chi rimane in silenzio. Solo chi vive nell’ombra – ombra in un corridoio, spazio in cui le immagini delle donne nere sembrano non aver voce, spazio in cui le nostre parole sono invocate per servire e aiutare, spazio della nostra assenza. Solo fragili echi di protesta. Noi siamo state ri-scritte. Siamo «Altro». Siamo il margine. Chi parla e a chi. Dove collochiamo noi stesse e i nostri compagni. Costretti al silenzio. Temiamo chi parla di noi, chi non parla a noi e con noi. Sappiamo che cosa significa essere costretti al silenzio. Certo, sappiamo che le forze che ci hanno fatto tacere, poiché non hanno mai voluto farci parlare, sono ben diverse dalle forze che dicono: parla, raccontami la tua storia. Unica condizione: non parlare con la voce della resistenza. Parla soltanto da quello spazio al margine, che è segno di privazione, ferita, desiderio insoddisfatto. Racconta solo del tuo dolore. Elogio del margine-Scrivere al buiobell hooks, Maria NadottiTAMU EDIZIONI
L’Isonzo scorre tranquillo e pulito; respira in modo uniforme e profondo. Tra la folla ci sono molti bambini, perché è tempo di vacanze estive. I bambini non hanno la più pallida idea della Storia. Esattamente dieci anni dopo, quegli stessi bambini, nello stesso luogo, interrati nelle proprie trincee, strisceranno nel fango fino a scomparire nell’Isonzo, e le immagini di questa solenne giornata di sole si faranno strada tra le rapide impazzite color smeraldo dell”‘acqua benedetta” come tante lucciole, come una ninna nanna, come un’eco, scivolando sotto le loro palpebre e sussurrando addio in almeno cinque lingue diverse. Loro invece, nel rantolo della morte, chiameranno le proprie madri -Mutti, Mama! Mamma, oh, mamma! Majko! Anyuka, anyuka! Mamusiu! Maminka! Gli uccelli non voleranno. Gli uccelli cadranno. Una pioggia nera di uccelli diventerà il sudario dell’Isonzo. Francesco Ferdinando, accompagnato dai membri della sua famiglia, scende dal treno, stringe la mano ai costruttori, saluta con ampi gesti la gente raccolta, si sbraccia, sorride, quindi s’avvicina alla balaustra di quel meraviglioso, bianco ponte, scolpito da 4.533 blocchi di pietra calcarea del Carso, e rimane a osservare il fiume che splende. L’architetto Rudolf Jaussner e l’ingegner Leopold Orley non nascondono l’orgoglio e l’emozione. Francesco Ferdinando guarda verso il fiume Soca/Isonzo e non ha idea di quanti giuramenti d’amore e di quante promesse appassionate siano stati pronunciati proprio lì, mentre lui, il fiume, cresceva, straripava furioso, incapace di arrestare la caduta del cielo. Jaussner e Orley hanno impiegato due anni per realizzare questo miracolo: il più grande ponte ferroviario a arco mai costruito su un fiume. Per la sua edificazione sono state utilizzate cinquemila tonnellate di pietra; l’arco centrale, costruito di tutto punto in soli diciotto giorni, ha una campata di ottantacinque metri, ampiezza mai vista prima di allora. Viene inaugurata così la celebre Transalpina, la linea ferroviaria che collegherà direttamente la costa, ovvero Trieste, con l’Austria.
Mio padre e mia madre, infatti, stanni vicino allo stereo in silenzio. Nessuno dei due dice una parola, nessuno dei due sembra volersi schiodare dall’immobilità di quell’istante.Assaporano l’atmosfera come immersi in un grande sogno.Una nota dopo l’altra, il soggiorno si tramuta in un pentagramma mentale, tutto sembra lì per una ragione ben precisa, come se ogni cosa non aspettasse altro… Ma cosa? Cosa stiamo aspettando?Il tempo sembra essersi fermato, inghiottito dai suoni che riempiono l’aria, e così anche io mi avvicino, coi capelli arruffati e la mano del sonno ancora premuta sugli occhi, prendo posto in quel silenzio, mi accovaccio accanto alla loro solitudine, mi abbandono all’ascolto di qualcosa che mi sembra importante, magico.Qualcosa che lì per lì, in fondo, non so nemmeno cosa sia. La solitudine, dunque. Queste pagine non possono che iniziare da qui. Vivere la musicaMottailSaggiatorep. 190
Sabato 24 e domenica 25 ottobre 2020, al cinema Avorio e in diretta streaming, si è svolto inQuiete, festival di scrittrici a Roma. Quest’anno in edizione speciale, con il titolo Corpi e Spazi.Un’edizione speciale, un’edizione immersa nella pandemia. Ho seguito dallo schermo del mio computer, sigarette, caffè, cuffie, un po’ sul divano, un po’ alla scrivania, prendendo appunti, tutti gli appuntamenti che uno dopo l’altro hanno costruito questo momento di condivisione e riflessione. Nonostante la distanza, nonostante lo schermo. Nonostante la consapevolezza che quel cinema, in quei due giorni, non avesse un pubblico in presenza. Non mi ero resa conto di quanto avessi bisogno di un’immersione in un immaginario di parole e in una sguardo femminista finché domenica sera, alla fine dell’ultimo appuntamento, non ho spento tutta quanta la tecnologia e mi sono ritrovata a tirare un lunghissimo, liberatorio, inaspettato, sospiro di sollievo.Quindi, prima di tutto, grazie. Alle organizzatrici, alle ospiti, e a tuttǝ quellǝ che hanno reso possibile l’edizione 2020 di questo Festival. Corpi, Spazio. Corpi nello spazio della pandemia. Alcune suggestioni, in ordine più o meno sparso. Quelle che seguono non sono parole parole mie, sono le parole inQuiete che mi sono rimaste più impresse. Perché non ci avevo pensato e mi hanno aperto una porta, perché le pensavo ed è bello sentirle dire anche da altre. Perché mi hanno fatto sorridere, perché mi hanno presentato artiste che non conoscevo. Si è parlato di cura, della tossicità che può assumere quando declinata esclusivamente al femminile, quando le donne si trovano costrette a ri-diventare solo madri, all’interno delle mura domestiche, rinunciando al fuori, che sia un fuori lavorativo o un fuori di relazioni.E del rischio del vuoto lasciato da queste relazioni fisiche che restano chiuse fuori dalla porta di casa. Di questa pandemia che ha palesato quanto ci sia bisogno di questa invocata cura, e dell’inadeguatezza del sistema politico che non è stato in grado di rispondere. Si è parlato di corpi che diventano confini, di corpi vulnerabili non tutelati nel contesto pubblico, nel contesto di un semplice viaggio da una città ad un’altra. Della vulnerabilità e della fragilità.Dell’oblio della vulnerabilità, della tendenza a nasconderla e a rimuoverla che ci ha portati qui e ora in questa nuova e complessa realtà.Della necessità di affrontare questa complessità e di trasformala, anche attraverso l’attenzione al linguaggio, alle sue trasformazioni e all’uso che se ne fa. E conservare quello buono e rigettare quello cattivo. Durante inQuiete si è parlato di desiderio, di editoria, di scrittura, dello sfondare muri e soffitti di cristallo, di territori selvaggi e distopie estranianti, di forme di pecorino e cammini di Santiago sentimentali, di Virginia Woolf, di Margaret Bourke White, e il domandarsi se il ritirarsi e il non dire non siano comunque una forma di posizionamento. Di Maria Lai e Simone de Beauvoir. Di calze di cotone e di senso di responsabilità. E di tantissime altre cose, tantissime altre suggestioni e traiettorie. E in collegamento con il Canada, il Cile e il Messico. Potete rivedere gli incontri sul sito di inQuiete a questo link, oppure sul canale yuotube del festival a questo link. Fatelo, date retta a me. Che vi fa bene.
La penitenza, mi rendo conto, non si conclude con l’atto di inchiodarmi a una croce. Chi vuole portare su di sé i peccati del mondo deve sopportare molto, molto altro. […] Per quelli che mi conoscono di persona, sono la donna che ha la responsabilità di asciugare le lacrime delle persone che amo, di alleviare il dolore provocato dagli sfortunati eventi del mio matrimonio, dando loro la sensazione che in fondo la situazione non fosse cosi terribile come l’ho descritta. […]Cosa dico a gente come lui, che vuole un ritratto obiettivo, che vuole sapere se il torturatore era una persona reale, con un lato radioso, in modo da ricordarsi della propria umanità?Mi rendo conto che è la maledizione delle vittime, sentirsi obbligate a dare una sfumatura di bontà al proprio aguzzino.Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno. La benevolenza del padrone, la gentilezza del kapò, il senso dell’umorismo del criminale, la puntualità del marito che picchia la moglie.
[…] In questo cielo, molto buio, la costellazione risplende a causa di echi, d’indirizzi, di testamenti, di rapporti di citazioni che legano in modo tenue e soggettivo questi differenti punti luminosi. I testi principali che costituiscono il fondamento della filosofia del Black Panther Party fors Self Defense rendono omaggio agli/alle insorti-e del ghetto di Varsavia; le pattuglie di autodifesa queer sono in un rapporto di citazione con i movimenti di autodifesa neri; il ju-jitsu praticato dalle suffragiste anarchiche internazionaliste inglesi diviene loro accessibile, in parte, a causa di una politica imperiale di captazione dei saperi e delle competenze dei/delle colonizzati-e, del loro disarmo. La mia storia e la mia esperienza corporea hanno costituito un prisma attraverso il quale ho sentito, visto, letto questo archivio. La mia cultura teorica e politica mi hanno lasciato in eredità l’idea fondatrice secondo cui i rapporti di potere non possono essere sempre completamente ridotti in loco a un corpo a corpo già collettivo, ma riguardano le esperienze della dominazione nell’intimità di una camera da letto, alla svolta di un’uscita della metropolitana, dietro la tranquillità apparente di una riunione di famiglia… In altri termini, per alcuni-e, la questione della difesa non cessa con la fine di una mobilitazione politica rischiosissima, ma appartiene a un’esperienza vissuta continuamente, a una fenomenologia della violenza. Questo approccio femminista coglie, nella trama di simili rapporti di potere, ciò che è tradizionalmente pensato come un al-di-dentro o un al-di-fuori del politico. Così, nell’operare quest’ultimo slittamento, non intendo lavorare a livello dei soggetti politici costituiti, quanto piuttosto a quello “della politicizzazione della soggettività: nel quotidiano, nell’intimità dei sentimenti di rabbia racchiusi in noi, nella solitudine delle esperienze fatte della violenza, rispetto alle quali pratichiamo continuamente un’autodifesa non riconosciuta come tale. Cosa fa la violenza, giorno dopo giorno, alle nostre vite, ai nostri corpi e ai nostri muscoli? E a questi ultimi, a loro volta, cosa è consentito fare all’interno della violenza e attraverso di essa? […] Elsa DorlinDifendersi. Una filosofia della violenzaFandango Libri, collana Documenti
Una volta ho avuto una visione lucida e perfetta in cui il carrello da supermercato e il mio destino erano inevitabilmente connessi, il che significa che un giorno io potrò abbandonare me stessa e andare in giro con il carrello a distribuire i miei averi e tagliare i ponti con quello che c’è adesso. Non è complicato. Una notte, invece di rientrare normalmente a casa, prenderò il carrello pieno delle mie cose e inizierò a girare per il quartiere distribuendole ai passanti, chiedendo in cambio lattine vuote, fin quando le cose non finiranno e allora sarò abbastanza sporca e piena di bottiglie da poter essere ritenuta ufficialmente pazza. Vado spesso alla stazione dei pullman di Newark per allenarmi, per abbandonare il ruolo di quelli che giudicano, ma dopo le prime scopate, azioni lisergiche e manifestazioni di protesta ho capito che sono tutti come me. I matti si insultano fra loro e questo è quanto. La solidarietà che cercavo, l’idea di un mio simile che in fosse vicino per davvero, come Edward, si è sgonfiata. Claudia DurastantiUn giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestraLa nave di Teseo
“Baby Sue mi ha dato una ciocca dei suoi capelli. Mi ha detto: ‘Lanciala nell’acqua. Lì in quell’oceano tetro come la notte sono state gettate mia sorella e mia madre. Non so come sono sopravvissuta e vederle soffrire sotto il peso di quegli uomini orribili. Non è umano vedere la propria madre o la propria sorella umiliati in quel modo. Non le ho viste morire. I loro corpi sono stati riempiti dall’abito di troppi uomini, e dopo che si sono divertiti abbastanza le hanno gettate agli squali. Sono morte sotto il peso di quelle bestie, ma io so che sono lì. In quel mare hanno creato un’altra vita. Ogni tanto le vedo in sogno. Preparano la manioca e ballano, come facevano al villaggio. Nell’oceano ci sono tante donne, tanti uomini. Il loro corpo si è trasformato, non hanno più mani ma squame. Solo nel ballo rivedo in loro persone di un tempo. Sono diventati pesci con i capelli ricci e ribelli. Ma non sanno che fine hanno fatto i loro cari. Non sanno che l’America è stata peggio di quella nave. A volte vedo nel sogno un’ombra di preoccupazione sui loro volti, e so che pensano a noi. Se puoi, Lafanu, getta a mia madre e mia sorella questa ciocca dei miei capelli. Sussurra alle loro orecchie che la Dea si è presa cura di noi, di me, anche di te, di tutte.”Baby Sue non fu l’unica a chiedere a Lafanu di lanciare ciocche di capelli nell’Oceano Atlantico. Molte persone, anche delle contee vicine, avevano saputo del sui viaggio e l’avevano pregata di far sapere agli antenati “che stiamo bene. Che lottiamo”. La linea del coloreIgiaba ScegoBompianipp. 384
La dolcezza di Isidoro Sifflotin nelle parole di Enrico Ianniello. […] Quanta compagnia mi fecero le pagine dei libri, e quante cose mi imparai là dentro. Perché, nelle pagine dei libri belli, ci sta scritta la vita che non si riesce a dire; nelle pagine dei libri belli la parola è un segno nero che si muove, si disegna, fa delle cure, delle linee dritte, dei cerchi, e tutti quei segni astratti significano di più di quello che veramente è la vita che tieni attorno, quando alzi gli occhi dal libro. Anzi, è di più e di meno allo stesso tempo, cambia anche lo spazio che tieni attorno e questo assomigliava ai miei fischi, che erano un segno di suono astratto, a volte bianco, a volte azzurro, a volte giallo, che volava nell’aria, e pure lui era allo stesso tempo di più e di meno della vita vera. […]