Io non la so usare la scrittura per sfogarmi. Io so usare la scrittura per costruire storie dove mi sfogo.
È diverso.
Ho imparato a tenere a bada l’ego, nella mia scrittura. Ad ammansirlo. Ho imparato a rendere collettivi e universali i sentimenti del mio ego. I pensieri del mio ego. I dolori del mio ego. I desideri del mio ego.
Ma adesso lui strabocca. Cola ovunque. In ogni frase che tento di buttare giù, in ogni storia che tento di raccontare. Fuoriesce in ogni virgola, in ogni parola, in ogni sfumatura e colore.
E allora facciamoci pace. Diamogli spazio, mi dico. Qualcosa verrà fuori. Magari. Ho un blog, mi dico. Potrà servire anche a questo. Oltre alle parole che trovo per i libri delle altre e degli altri. Oltre alle parole, ormai sempre meno, le mie, che riesco a mettere insieme. Che poi questa è un’altra storia. Ma non avrò mai voglia di raccontarla.
Sono stanca. Stanca di non sentire i corpi vibrare, di non condividere lo spazio con altri occhi, altre mani, altri voci. Altri corpi, fatti di pelle e respiri, di posture e gesti.
Sono stanca, me ne accorgo. Sto esaurendo le scorte, anni e anni di esperienza nel tenere la mia mente al sicuro mi sono stati utili in questi mesi. Ma si stanno esaurendo le scorte. Me ne accorgo.
Il quadro generale è scomposto, frammentato. Oltre il sospeso, oltre l’attesa. Si sfalda. Impossibile tenerlo insieme, immaginarlo in divenire.
Spiegarlo. Perfino prendersi in giro dicendo di averlo compreso. Impossibile. Le complessità si sovrappongono, e non riconosco il senso. Il senso profondo, la direzione.
E dentro. Dentro le cose sfarfallano, come la lampadina di una qualsiasi sala d’attesa di una stazione qualsiasi immersa in un buio qualsiasi.
E sono stanca.
Io sono fatta per essere in mezzo alle cose, tra le cose. Tra le persone. Io sono fatta per utilizzare i sensi. Tutti. Io per vivere devo toccare, devo vedere, e guardare, annusare, assaggiare. Ascoltare.
Io sono fatta della mia solitudine. La solitudine che ho costruito, che bramo e desidero. Sono fatta della mia solitudine, per la mia solitudine, quella che cerco, quella in cui sono reale. Quella in cui mi siedo, in cui gioco. Io sono fatta per ritirarmi dentro, quando voglio io. Quando il dentro è accogliente, quando il dentro mi cura, quando il dentro mi rassicura, quando il dentro mi risponde. Quando dentro ci sono io.
Ma dentro. Adesso dentro le cose sfarfallano. Sfuggono. Si fa fatica e tenerle.
Il senso sfugge.
Il senso del mio agire, personale e politico. Quell’agire nel quotidiano, all’interno e all’esterno, su cui ho costruito e costruisco la totalità di me. Condividere, dialogare, attraversare, distruggere, oltrepassare.
Relazioni, stanze, percorsi.
Sfarfalla.
Come una lampadina.
E duellare con la rassegnazione, con l’abitudine. Con l’attraversare lo stallo, la sospensione, fino a non distinguere più il limite, quel limite così pericoloso da attraversare. L’assuefazione. L’immobilismo.
Non si è mai davvero immobili. Nell’immobilità ci muove, senza nemmeno capire quanto, senza nemmeno capire quando, si scivola. Si slitta.
E servono grandi manovre di controllo del mezzo per non slittare nella direzione sbagliata.
Sono allenata alla guerriglia quotidiana, alla costruzione di un mondo che sia in opposizione e in posizione di resistenza attiva. La costruzione quotidiana di qualcosa che sia altro dall’esistente che ci viene imposto.
Sono una donna, sono un’anarchica. Sono allenata alla guerriglia. Piedi radicati e gioia armata.
Ma anche la più solida delle guerriere cerca il riposo, l’abbandono. Il momento in cui tutto cede, l’acqua che inonda, le macerie.
Le macerie sui cui ho imparato a sedermi a fare colazione prima della ri-costruzione.
Adoro le macerie, l’esplosione del tutto. Sganciare i cavi, il crollo dell’impalcatura. Tutto sempre in divenire, tutto sempre in movimento, all’interno, all’esterno. E vaffanculo all’eterno che ripete se stesso.
Ma non posso far esplodere niente, adesso.
Mi manca la possibilità dell’abbandono.
Abbandonare il gioco, abbandonare la nave. Gettarsi in mare e nuotare senza un direzione, la mente si risposa senza dover pensare a questo dover colmare la distanza.
La distanza dal mondo, la distanza dai corpi, dagli amori.
Perché io non ho affetti. Io non ho congiunti. Io ho amori. Le persone che compongono il mio mondo, e di cui io compongo il loro, sono fatte del mio amore e io del loro.
E questa distanza da colmare si allarga. E ci cade tutto dentro, in questa distanza che deforma, manipola, ingigantisce.
L’ego strabocca. Mi resta la bestemmia. Sussurata, dio vile.
Piedi radicati e gioia armata.