Viola Di Grado da fuoco al cielo
L’ospedale dei matti era affollato e pieno di calcinacci. L’ospedale dei matti era solo un reparto dell’ospedale di tutti. I muri erano gialli. Un giallo fiacco, scrostato qua e là. Nelle corsie e nelle stanze sfilava una folla di pezzi umani abbandonati. Pezzi, solo pezzi, perché ogni pezzo aveva la sua storia diversa e perché mancavano delle cose nel corpo e nel cervello. Che cosa mancasse non sempre si capiva. Matti e malati, persone che non avevano più voce o desiderio di dire le cose. C’era odore di fenolo e liquidi corporali.
L’avevano legata, drogata, ammansita come un cane. Le avevano aperto le mani e avevano trovato l’immaginetta plastificata di Gesù bambino e un pezzo di foglia rotta.
Si era addormentata e si era svegliata libera, i polsi doloranti e una donna magra in camice china su di lei, i capelli rossi e le braccia piene di efelidi, che continuava a dirle: “Come va? Ora va in bagno.” Lei rispose: “Vacci tu in bagno, puttana!” La sua testa poteva anche essere proprietà dei medici ormai – ci scaricavano dentro i farmaci che volevano – ma il suo corpo era ancora suo.
Solo suo. Era quello che le restava. Era la sua sacca piena e bruciante della vescica: non l’avrebbe svuotata per loro.
Dopo due giorni e un’infezione urinaria smise di resistere. Ma al bagno non ci sarebbe andata mai. Per tre giorni si pisciò e cagò addosso, aspettando, sdraiata nel sudore e nel piscio e nelle feci, con un sorriso regale stampato in faccia. Aspettando che capissero il significato – il significato di dire di no a tutto, di essere vivi nel modo in cui si vuole.
Fuoco al Cielo
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