Fallimento.
Indaga la parola con la punta della lingua, ne valuta il sapore. È sorpresa, non è amara come aveva sempre pensato. La parola fallimento è acida. L’annusa, ricorda qualcosa che è stato dimenticato ed ha iniziato a fermentare. Non a marcire. A fermentare. Cerca una corrispondenza, l’eventualità di una correlazione emotiva. Tocca l’idea con la dita, è molle. Umida. Sgradevole. La solleva, ne valuta il peso, la sposta dalla mano sinistra a quella destra. La lascia andare, la osserva. Si allontana, in apnea. Poi lascia andare anche il respiro, con più forza di quanto non si aspettasse.
Fallĕre.
Si volta a guardare i ricordi, nella memoria.
Ingannare, ingannarsi, sbagliare.
È andata così? Si tratta di questo?
Cos’altro?
Non riuscire, mancare d’effetto.
Mancare il colpo.
Potrebbe, sì. Potrebbe essere questo il punto. Ma non sa se le importa, non sa se le serve. Sapere, capire, spiegare. Spiegarsi. Trovare una corrispondenza emotiva. Dare un nome alla cosa. Alle cose. Ché forse non le importa più.
Perché forse non le importa più pensare.
Perché forse sta nel pensare l’inganno, lo sbaglio. È nel pensare che è iniziata la fermentazione, il fallimento.
Perché forse il pensiero può ingannare. Allontanare. Manipolare.
Perché forse il pensiero accudisce, e lenisce il conflitto. Lo sfibra, lo depotenzia.
Perché forse pensare disarma il conflitto. E allontana la risposta. La manipola.
Ma la risposta è lì.
Perché forse il pensare ha solo prodotto pensieri consolatori e assolutori.
Trattiene il fiato, gonfia le guance. Arriccia le labbra e soffia, soffia via tutto.
Si lascia andare, all’indietro. Sul pavimento, immobile. Sprofonda, il corpo pesante lascia l’impronta.
Immobile nell’impronta nel pavimento.
Nel pensare per darsi ragione la cosa ha cominciato a fermentare.
L’errore irrimediabile, l’inganno senza perdono. Il pensare che mente e disarticola la riflessione.
Sprofonda, il corpo pesante. L’impronta sul pavimento.
Il pensare che aggiusta l’orlo del vestito per non inciampare.
E non chiama le cose con il loro nome. Criceto nella ruota. Passi in superficie senza mai affondare. Assoluzioni sommarie.
E il tempo è andato perso, assoluzione dopo assoluzione, rimozione dopo rimozione. Criceto nella ruota. Passi in superficie senza mai affondare. Il corpo pesante nell’impronta sul pavimento sprofonda.
E un pensiero si scarta, affonda il passo, si scuote, urla, preme. Cerca la profondità. Si divincola, scatta in avanti. Affonda il passo, cerca la profondità.
Ma il corpo si alza, e non c’è impronta sul pavimento.
L’inganno senza perdono.
È andata così? Si tratta di questo?
Altro in notes
Si vede. Si guarda.
Dovrei in questo strano momento.