Faccio un lavoro che non mi piace.
Siamo in tanti, mi rendo conto, a convivere con questa bega.
Certo, c’è da dire che poteva andarmi molto ma molto ma molto peggio. Quindi, insomma, faccio attenzione e provo a non lamentarmi troppo.
Il lavoro è un brutto brutto affare. Nei miei sogni più belli non esiste.
Non esiste il lavoro, non esiste il denaro. Eccetera eccetera eccetera.
E quindi non mi lamento troppo, certo, perché c’è chi fa lavori più tremendi del mio e c’è gente che il lavoro non ce l’ha.
Però.
Resta il fatto che odio il lavoro, che vado poco d’accordo con il mio, e resta il fatto che faccio, tutti i giorni da, mi pare, sei anni, un lavoro che non mi piace. Che non mi appartiene, a volte estremamente difficile da conciliare con me, con i miei modi e le mie attitudini.
E poi c’è quello che mi piace fare. Quel che mi fa stare bene come nient’altro.
La cosa in cui non mi sento mai fuori posto, quella cosa che spesso mi capita di pensare di riuscire a fare meglio di altri. La cosa di cui parlerei per ore. La cosa che mi fa sentire come se fosse il mio posto, l’unico al mondo giusto per me. La cosa di cui non posso fare a meno, che condiziona il mio stato d’animo e ha condizionato molte scelte che ho fatto nella vita. La bussola, il filo. La base. Il filtro, o lente, se preferite, con cui guardo il mondo e le persone. Con cui codifico il mondo e le persone. La cosa, l’unica, che faccio da sempre, che non ho mai smesso di fare, che non faccio tutti i giorni, che non ho mai pensato di smettere di fare.
La scrittura.
La cosa che non ho mai pensato di far diventare un lavoro.
Lavoro inteso come attività retribuita che deve sottostare a regole e meccanismi che niente hanno a che vedere con il mio piacere, quello che provo nel convivere quotidianamente, tra alti e bassi, risate e bestemmie, con la scrittura.
Per questo ho fatto in modo che i lavori che ho attraversato nella vita non avessero una relazione diretta con la mia scrittura. Per questo tengo il mio stipendio separato dalle mie storie.
Per questo quando è capitato che si incontrassero, il denaro e la scrittura, ho fatto in modo che la retribuzione fosse un accessorio e non il motore.
Per questo, e per tutta una serie di altri motivi, mi autoproduco.
Per questo, e per tutta una serie di altri motivi, uno su tutti il credere fermamente che le parole siano di tutti, quello che scrivo lo si scarica gratuitamente dal mio blog o dal mio sito.
Però, dirà qualcuno, metti in vendita il formato cartaceo ed elettronico di alcuni scritti. E certo, dico io. È nei miei sogni più belli che non esiste il denaro, non esiste il lavoro, eccetera, eccetera, eccetera. E dietro quei libri di carta e quei libri elettronici ci sono delle spese. E dietro quella carta e quei file ci sono delle persone, del lavoro tecnico, pratico. E due cose penso del lavoro, che è una merda e che va retribuito. E i soldi, pochi, vanno a finire lì, e nei progetti futuri.
Che poi finisce quasi sempre che quando qualcuno mi chiede di vendergli un libro, e siamo faccia a faccia, e in mano tengo quelle pagine con le mie storie, glielo regalo, beh, questa è un’altra storia.
O forse no.
E però, dirà qualcuno, e lo dicono, me lo dicono, anche le persone che mi stanno più vicino, se dai la possibilità di scaricarle gratis le tue cose chi vuoi che te le compri.
E a parte il fatto che mi scappa sempre da ridere, perché per un attimo penso che sì, certo, come no, le vendessi e basta le mie cose avrei una casa in riva al mare dove gingillarmi con la scrittura, e anche una casa a Barcellona, una a Lisbona, e una in Salento, a parte questo, dicevo, potrei rispondere che forse si potrebbe cominciare a scavallare e scardinare, superare e reinventare certi meccanismi legati alla fruizione, alla condivisione e alla divulgazione delle opere dell’ingegno (!). Potrei rispondere un paio di altre cose, certo. Ed entrare in vie e viottoli in cui spesso finisco per camminare da sola.
E spesso lo faccio.
Ma il più delle volte sorrido. E dico che preferisco così.
E penso che questo, questa cosa che faccio, il modo in cui la faccio, in questo presente che quando mi volto a guardarlo mi piace, sono io.
È la cosa che mi assomiglia di più.
Certo, dico io. Ogni tanto ci sono i se.
Dove sarei se, dove non sarei se. Cosa farei se.
Se avessi fatto davvero la scuola di giornalismo come mi aveva consigliato mia madre, o se da ragazzina avessi superato il test di ingresso alla Holden. Ma anche, semplicemente, se avessi scelto la carriera universitaria.
Se avessi passato gli ultimi anni alla ricerca di un editore, o di un posto nel mondo dell’editoria, qualsiasi posto, qualsiasi livello.
Se fossi un’autrice indipendente diversa da così.
Se non dovessi fare un lavoro che non mi piace perché mi pagano per fare quello che mi piace.
Ma sono se che non sono io.
Oggi è così, domani non lo so e non mi importa di saperlo adesso.
E non chiedermi come sarà domani è un lusso che con la scrittura mi voglio permettere.
Con la scrittura e con un altro paio di cose sotto cui non metterei mai una firma.