Occhi negli occhi
[più che altro si tratta di doversi tenere in allenamento] Il caldo gli stronca il cervello. Gli annebbia la vista. Insieme a tutta la merda che pensa. Che pesa. Se ne deve liberare, immediatamente. Stringe i pugni, si guarda le scarpe da ginnastica, sudicie e consumate, pensa ai suoi piedi bolliti mentre il tram parte rinculando dopo aver richiuso le porte su quest’afa che uccide. I capelli appiccicati alla nuca, sulla fronte, sta seduto in fondo, i finestrini sono aperti, ma entra solo aria bollente. Con tutta la merda che pensa. E di cui si deve liberare immediatamente. È solo. La ragazza seduta qualche metro più in là che legge Vanity Fair è carina, ma qualunque impulso sessuale è inghiottito dalla merda che pensa, e dall’immagine dei suoi piedi bolliti dentro le scarpe da ginnastica. Che frustrazione, mentre guarda Milano scorrere con gli occhi socchiusi. La odia. Odia tutto. Odia tutti. Anche la vecchia che gli sta seduta davanti. Odia i sacchetti della spesa afflosciati a terra, e il vestito a fiori, e gli orecchini orrendi che porta, e i lobi grinzosi a cui sono appesi. Si asciuga il sudore dalla fronte mentre il tram oltrepassa gli ultimi metri di centro prima di iniziare ad inoltrarsi verso la periferia. Odia tutti, stringe forti i pugni. Suda, e si sente a brandelli, slabbrato come le sue vecchie scarpe, come stesse per sfaldarsi in piccoli pezzi di carne sudaticcia. Apre bene gli occhi, li spalanca, bruciano, il sudore. Ondeggia insieme al tram. Si guarda intorno. La signora è scomparsa con la sua spesa, anche la ragazza con il suo Vanity Fair si è dissolta nell’afa. Alla fermata, ad aspettarla, ci sarà stato un ragazzo bello, alto e pieno di progetti e grandi prospettive. Stronzo. Stronzi tutti. Su questo tram sono tutti stronzi. Quello con la giacca e la cravatta. Stronzo. E quello in giacca senza cravatta. Stronzo pure lui. La signora, con le due belle nipotine, stronze, tutte e tre. Stronzi tutti. È colpa della merda che pensa. Che pesa. Di cui si deve liberare. Immediatamente. Adesso, con il sudore che gli cola melmoso sulla schiena. Adesso, con i piedi gonfi, bolliti nelle scarpe. Si alza, si aggrappa all’asta, la mano sudata scivola, serra le dita intorno al metallo. Fissa un punto. Deve liberarsi. Il tram sferraglia, perde l’equilibrio. Il tram frena, si aprono le porte, alla sua destra, entra l’inferno, fattosi aria putrida di smog incandescente, e nuovi passeggeri. Si siede. Ha uno scatto nervoso, una specie di tic improvviso che gli deforma la faccia. Si sente gli occhi di tutti addosso, nessuno lo guarda. Resta così, molle. Altra fermata, altra ondata di oscena aria bollente. Sale un uomo, un uomo nero, trascina due grossi sacchi di plastica blu, spuntano foulard, il manico di una borsa. È triste, immensamente triste. Nessuno si sposta per facilitargli il passaggio, esausto si ferma dov’è, davanti a lui un giacca e cravatta sbraita parole incomprensibili perfino a sé stesso dentro l’auricolare che gli spenzola dall’orecchio. È tutta una immensa cloaca di merda in cui navighiamo stretti, l’uno accanto all’altro senza neanche chiederci se sia proprio necessario continuare così, se magari non esiste un altro modo. Se magari bastasse spostarsi per facilitare l’altro. Distoglie lo sguardo, in fondo non gliene frega un cazzo. Gli importa solo della merda che pensa, che pesa, e di cui non sa più cosa farsene. Suda. Sta per esplodere. Gli stanno addosso tutti, sempre. Si alza, deve scendere. Preme il dito sudato sul bottone rosso. Prenota la fermata. Le porte si aprono, sente la pelle friggere, gli occhi colargli giù dalle orbite. Scende. Il traffico, il rumore. La solitudine. Investito. Colpito. Ferito, stordito, si incammina in una direzione qualsiasi. Con le mani in tasca e la smania di colpire. Di essere colpito. Di sanguinare. Gridare. Inginocchiarsi sul marciapiede, cacciarsi due dita in gola e vomitare. Liberarsi di tutta la merda che pensa. Che pesa. Ma invece cammina, cammina, cammina, i piedi bolliti nelle scarpe da ginnastica. Il respiro corto. La mascella serrata. L’afa. E tutti quei corpi sani, indaffarati, che gli passano accanto, diretti in un punto preciso, tutti ad un passo dalla meta. Sani. Inseriti, soddisfatti. Trincerati dietro ad un ruolo, al sicuro dentro la loro funzione sociale. Serra i pugni chiusi nelle tasche strette dei pantaloni. È una spirale senza uscita. Bar, vetrine, portoni, cemento. Tutto gli sfreccia accanto, perifericamente. Fastidio. Merda. Solo merda. E nemmeno un cane, un amico, andrebbe bene anche un estraneo per bere una birra e fare finta di niente, parlare di nulla e sentirsene pienamente soddisfatti. È un’ossessione, una girandola di schiaffi. Perché tutti, tutti, anche i più stronzi, i più inutili, stanno lì a chiedergli cose, fare domande, esigere risposte. Lo fissano, con il biasimo negli occhi e la carità nelle mani. Lo invitano, assuefatti alla velocità, a salire sulla giostra. Che prenda posto, anche un posto qualsiasi, ma che non rimanga a guardarli dal basso, per dio, e che si svesta degli abiti dell’eterno adolescente. Perché a trent’anni non si gioca più, non si scherza più, non si aspetta più di capire davvero. Stronzi, stronzi tutti. Cammina e ad ogni passo mastica rabbia. Le scarpe che si confondono con il marciapiede, fagocitano sputi e merda di cane. Il caos indistinto, pauroso. Il rumore dei suoi passi, quel cigolio di gomma usurata. È una voragine, una spirale, questa cloaca. Un labirinto. Il fare e il non fare, l’andare e il rimanere, l’urlo e il silenzio. L’urlo o il silenzio. Il rifiuto senza alternativa. E ad ogni passo mastica rabbia. Vorticosamente. Insieme a tutta la merda che pensa. Che pesa. Se ne deve liberare, immediatamente. Il punto di rottura, la saturazione. Stringe i pugni, tossisce. Si ferma. Si isola. Si sigilla. Sente solo la tenia che gli mangia il cervello. Sente i denti entrare nella materia grigia, le mandibole che scattano, il biascicare a bocca aperta. Alza la testa, alza lo sguardo. Occhi negli occhi.