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Rita – un racconto

Rita fa parte di un testo a cui sto lavorando. Questo tempo eccezionale ha rivoluzionato tempi e intenti. Intanto. Rita – un racconto Quasi sempre c’è un corvo sul tetto. Quando guardo fuori dalla finestra, sull’angolo del tetto della casa di fronte. Sta immobile, a lungo, e punta l’orizzonte con il becco. Questa è l’idea che mi sono fatta. Sta immobile, a lungo, e punta l’orizzonte con il becco. Poi, senza preavviso, inclina il corpo verso il basso, punta la terra con il becco e si tuffa nel vuoto. Precipita. Senza preavviso per me. Lui sembra averci pensato a lungo, immobile con il becco puntato verso l’orizzonte. Sembra sapere, ogni volta, perché in quel momento e non in un altro. Lui o lei, non so distinguere un corvo da una corva.Comunque questa è l’idea che mi sono fatta. Ma non è vero che precipita. Apre le ali e prende quota.Vola.Quasi sempre mi sento ricoperta di polvere. Un velo sottile, come seta. Ricoperta di polvere, come un mazzo di chiavi dimenticato su un tavolo dimenticato in una stanza dimenticata in una casa dimenticata in un luogo dimenticato. So che non è così. È l’idea che mi sono fatta.Polvere, che è come dire il tempo che passa e ti si sbriciola addosso. E sulle cose anche. Le cose immobili. E io sto immobile, come il corvo sull’angolo del tetto della casa di fronte. Ma non punto l’orizzonte con il becco, non mi tuffo nel vuoto. Non apro le ali. Non prendo quota.Non volo. Non sono una corva, non posso volare.Passo invece molto tempo seduta su questa sedia, in questa stanza, in questa casa, in questo spazio. In questo tempo.E guardo fuori dalla finestra. Mi piace, non mi ferisce.E la sedia è una sedia a dondolo, e io dondolo. Dondolo piano, quasi sempre. È una sedia a dondolo di legno scuro con un cuscino viola. Dondolo piano, e mi ricopro di polvere, anche se non posso vederla, e nemmeno sentirla. Il tempo passa e io mi ricopro di polvere. Sono idee, sono immagini che si formano nella mia testa, nella mia immaginazione. Qualcosa che mi passeggia nella mente. L’ho raccontata ad Agnese, l’idea della polvere, e mi ha detto che è un’immagine molto affascinante. Una bellissima metafora, ha detto. Agnese usa queste parole, gonfie. Morbide e gonfie. Metafora. E ha mani bellissime. Grandi e lisce. Quando viene smetto di guardare fuori dalla finestra e seguo le sue mani che puliscono, che affettano le verdure, che sfogliano le pagine dei libri che mi legge. Quando viene Agnese non controllo se il corvo, o corva, sta sul tetto con il becco puntato verso l’orizzonte. Perché Agnese ha queste mani così grandi, e la pelle è così liscia. Non come la mia. Io adesso sono grinzosa, un foglio di carta accartocciato e poi disteso. Le sue mani sono grandi, e la pelle così liscia e le muove come se potesse controllare tutto. Anche il tempo che passa e che ti si sbriciola addosso. Come se non dovesse accadere niente senza preavviso. Anche se in realtà, ci ho pensato a lungo, niente accade senza preavviso. Nemmeno il volo del corvo. O della corva. Le cose accadono, e alcune sono improvvise solo per me perché non so che stanno per accadere. Le cose accadono, proprio nello stesso modo in cui io dondolo. Mi è sempre piaciuto dondolare, lasciarmi andare alle cose che penso, alle immagini che mi passeggiano nella mente. Anche quando mi dicevano che avevo troppa immaginazione. Anche quando mi dicevano che avevo un carattere strano. Che ero difettosa.Le cose accadono, e a volte, alcune, non accadono più. Per tanto tempo non sono riuscita a dormire. Forse perché per tanto tempo mi hanno fatta dormire. Anche da sveglia. Adesso invece dormo tutta la notte. Agnese dice che questa è una cosa meravigliosa. Un’altra parola gonfia, e morbida. Meravigliosa. Anche Agnese è morbida. A volte penso di toccarla, ma non lo faccio. Neanche lei mi tocca, le ho chiesto per favore di non farlo. Ancora non mi piace. E non sarebbe giusto toccarla senza farmi toccare. Agnese dice che va bene così. Ha detto che è comprensibile.Comprensibile è un’altra bella parola. Comprensibile. Ci sono parole che sono più belle delle altre. Per il suono che hanno, a volte solo per il suono che hanno. A volte, invece, per quello che vogliono dire. Per il loro significato.Dormire ha un significato bellissimo.Non riuscivo a dormire perché nel buio, ad occhi aperti, ad occhi chiusi, il mio corpo ricordava tutto. Ricordava tutto ad un volume troppo alto.Adesso, invece, dormo tutta la notte e di giorno, per la maggior parte del tempo, sto seduta su questa sedia a dondolo. Mi piace, non mi ferisce.Sto seduta su questa sedia e dondolo, e le immagini mi passeggiano nella mente. Dondolo, e il corvo, o corva, punta l’orizzonte con il becco. Tranne quando viene Agnese. Quando c’è Agnese guardo le sue mani che fanno le cose, ascolto i libri che mi legge e ci raccontiamo le cose. Parliamo piano, una cosa alla volta. Perché ci sono cose che devono essere raccontate e altre che non possono essere raccontate. Non adesso, o mai. Perché mi fanno male, o possono farlo a lei. Ci vuole tempo, strati sottili di polvere come seta.Anche per questo dondolo sulla mia sedia a dondolo. Mi aiuta a pensare i ricordi, arrivano piano, senza spingere. Posso vederli arrivare, decidere se pensarli o no. Se raccontarli o no.Anche se questa non è la mia sedia a dondolo, questa non è la mia stanza, questa non è la mia casa. Non ho mai avuto niente di mio, nemmeno me stessa. Nemmeno adesso che potrei, come dice Agnese. Ma questa è una cosa troppo difficile. Questa è una delle cose che posso dire ma che non posso spiegare, nemmeno ad Agnese. Ci sono cose che si riesce a spiegare e cose che si possono solo pronunciare.Non c’è niente di mio, non ho mai avuto niente di mio. Nemmeno me stessa. Non mi appartengo.Appartengo ai ricordi.Per questo dondolo.Perché appartengo alle mani che mi hanno strattonata, svestita, lasciata nuda, toccata, esplorata, visitata e poi rivestita di una

sestanti

Madeleine – le stanze che custodiscono i nostri ricordi

Madeleine – le stanze che custodiscono i nostri ricordi Grazie, di cuore, a Margherita. Sono molto felice di far parte di questa antologia. MADELEINELe stanze che custodiscono i nostri ricordi a cura diMargherita Galiano redazioneMarco Montanaro impaginazioneManfredi Damasco copertinaAndrea Serio qua >>> Madeleine ____________________________________ Madeleine è un’antologia di racconti inediti composta da sguardi singolari e fragile vissuto. Partendo da uno spazio reale e attraverso una ricerca affettiva, nove autori evocano immagini che si legano ad altre immagini, pensieri ad altri pensieri. Sotto forma di vertigine introspettiva, ha origine un corteggiamento intenso rivolto al passato, che cresce e si tramuta in una tensione dialettica tale da ricomporre quella stanza di cui si ha più memoria. La dimensione narrativa diviene così un mosaico fatto di frammenti emotivi e percezioni sensoriali, come le tende gialle di Mia Parissi, la rimessa dei cavalletti e dei mangiadischi di Luisa Ruggio, lo stanzino di Cosimo Argentina, le lenzuola di Ilaria Giannini, il Bukowski a colori di Nero Desideri, e ancora il tumulto dell’inverno contro i vetri di Maria Lo Conti, i piedi nelle stanze degli altri di Marco Lupo, il fritto di pesce di Rossella Tempesta, l’odore d’incenso di Maira Marzioni e gli avanzi disordinati di Elisabetta Liguori. Il risultato è una raccolta di ricordi, maturata in un lungo tempo, fatta di parole fitte fitte dentro uno spazio che si fa spazio, che suggella il significato profondo della recherche proustiana, approdando con delicatezza nelle stanze pensate e disegnate da Andrea Serio. Margherita Galiano—INDICE:Due volte, Mia ParissiLa passionaria, Luisa RuggioIl cuore di Priamo, Cosimo ArgentinaCamera diciassette, Ilaria GianniniLa stanza prima, Nero DesideriIl bisogno di restare, Maria Lo ContiLa stanza, Marco LupoQui fuori, Rossella TempestaOdore d’incenso bruciato, Maira MarzioniBurnout, baby!, Elisabetta Liguori—

Milena Busquets [cit. También esto pasará]

Yo no puedo abrir un libro sin desear ver tu cara de calma y de concentración, sin saber que no la veré más y, lo que tal vez sea incluso más grave, que no me verá más. Nunca volveré a ser mirada por tu ojos. Cuando el mundo empieza e despoblarse de la gente que nos quiere, nos convertimos, poco a poco, al ritmo de la muertes, en desconocidos. Mi lugar en el mundo estaba in tu mirada y me parecía tan incontestable y perpetuo que nunca me molesté en averiguar cuál era. No está mal, he conseguido ser una niña hasta lo cuarenta años, dos hijos, dos matrimonios, varias relaciones, varios pisos, varios trabajo, esperamos que sepa hacer la transición a adulto y que no me convertía directamente en una anciana. No me gusta ser huérfana, no estoy echa para la tristeza. O tal vez sí, tal vez sea del tamaño exacto de la pena, tal vez sea ya lo único vestido de mi talla. Milena Busquets, También esto pasará Editorial Anagrama

“Non c’è”

Arrotolo l’ennesima sigaretta, che fumerò a metà. Nauseata più dal gesto che dal sapore, o dalla sensazione di catrame aggrappato ai polmoni. È un’altra giornata senza fine, ragazza mia, un’altra giornata passata a tergiversare, attraversata cercando altro da non fare pur di non. La bottiglia è aperta, basterebbe appoggiarci le labbra, tirare indietro la testa e lasciar scivolare in gola qualcosa che conosco bene. Ma non è più tempo nemmeno per questo, la mente annebbiata e svegliarsi la mattina con il sapore del fegato sulla lingua. Spengo la sigaretta a metà. Fuori sta facendo buio. Come ieri del resto, e poi domani. Mi si spezza il fiato. Qualunque cosa io decida di fare stasera. Non c’è immagine nitida e reale di me domani, che io resti qui, ad arrotolare sigarette da fumare a metà, o che decida di alzarmi da questa sedia per uscire, per andare. Qualcosa si è rotto. Mille piccoli pezzi indistinguibili l’uno dall’altro. Mi alzo, faccio pace con la bottiglia. Sento ancora dolore. Sono stanca. Sorrido alla mia immagine riflessa nel vetro della finestra. Se sorridere è questa leggera flessione verso l’alto dell’angolo destro della mia bocca. Do un altro bacio alla bottiglia. La fracasserei contro il muro, non fossi stanca anche di questi gesti violenti che non mi lasciano più niente. I primi tempi funzionavano. Per un attimo, breve ma vitale, il corpo tornava leggero e la mente, per un attimo lucida. Libera. Libera di guidare i pensieri, di dirigerli. Libera di perdersi. Mi scuoto. Lascio andare gentilmente la bottiglia sul ripiano della cucina. Arrotolo un’altra sigaretta, apro la porta, esco in giardino. Ho deciso. Questa la fumo tutta. Un tiro alla volta. Mi siedo sul gradino di cemento, faccio una smorfia. E mi prendo la testa tra le mani, vorrei strapparmela dal collo e lanciarla lontano. Lascio la presa, infilo la sigaretta in bocca, l’accendo, aspiro, trattengo il fiato. Trattengo il fiato. Trattengo il fiato. Trattengo il fiato. Sputo aria e fumo, lentamente. Non c’è immagine nitida e reale di me domani, e nemmeno lacrime, adesso, che leniscano il dolore. Né gesti che assopiscano la rabbia, addormentino il corpo e la mente. Questa rabbia. Appoggio la tempia contro lo stipite della porta. Poi la allontano, e colpisco lo stipite. Piano. Mi scosto di nuovo, colpisco ancora lo stipite della porta. Più forte. Poi di nuovo. Ancora più forte. Resto immobile, e immagino di fracassarmi il cranio un colpo dopo l’altro. Non riesco a guidare i pensieri, non riesco nemmeno a crearli, a filarli nella mente. Potrei fracassarmi il cranio, sentire il sangue colarmi sul viso, sul collo. Riuscirei a sentire il suono secco dello schianto dell’osso prima di morire? La sigaretta si fuma da sola. Mi volto verso la cucina, verso casa. Sul tavolo il pezzo di carta e inchiostro risalta bianco in contrasto con il nero del tavolo. Mi alzo, entro in cucina, faccio un tiro e un altro po’ di catrame mi si aggrappa ai polmoni mentre afferro il piccolo pezzo di carta. Lo guardo. La calligrafia di Giulia è ordinata, come sempre. Mi domando come abbia fatto, che giri sia riuscita a scardinare per farmi ottenere queste quattro, cinque parole di inchiostro blu. Quando le ho detto che forse mi sarei sentita meglio se avessi potuto almeno ferirlo il suo viso ha fatto una pausa. Non ho aggiunto altro, ho lasciato navigare nella birra che mi aveva offerto quel laconico potessi almeno ferirlo. Ferirlo. Colpirlo. Forse. Ma sono solo pensieri. Sono solo visioni distorte. Immagini che si fanno e si disfano nella mia testa. Colpirlo. Ferirlo. Lui. Tutti. E Giulia ha capito. Due giorni fa mi ha chiamato. L’ho trovato, mi ha detto. Ho l’indirizzo, passo a lasciartelo. E io adesso devo solo fare una scelta. Cammino, avanti e indietro, poi verso destra, poi subito verso sinistra, poi di nuovo indietro. È un male senza tregua, senza cura. Vago. E il mio corpo, tutto, mani, braccia, gambe, ventre, vaga. Sbando, nessun luogo per me. Nessun luogo. Nessun domani. Dolore. Perdita. Vuoto. Assenza. Colpa. Rabbia. Qualcosa si è rotto. E il pezzo di carta è qui, accartocciato nel palmo della mia mano. Un indirizzo, una destinazione da inserire nel navigatore. Io non lo volevo neanche. Mi hai convinta tu. Tu. Non più. La bottiglia. La tocco. Il pezzo di carta. Lo stringo. In mano, cosa ho? Strazio. Infinito, interminabile strazio. Strazio, strappare, scarnificare. Sono qui. Straziata. Strappata. Scarnificata. Devo muovermi. Se resto immobile sono statua di sale. Sono vittima. Mi muovo, cambio stanza, cambio luogo. Poso lo sguardo su altri oggetti, ma mi incidono il cuore. Vorrei essere cieca. Sorda. Muta. Cambio ancora, cammino come avessi una meta. Uno scopo. Ma il mio scopo è fuori da qua. Il mio scopo è fuori da qua. Perché. Se io ti restituisco ciò che mi hai lasciato, smetto di sopravvivere e ricomincio a vivere? Se ti lego, e ti torturo, e ti ferisco, mi libero del cemento che mi pesa nel ventre? E se ti strappo le unghie, se ti spezzo le dita, se ti cavo gli occhi, io dopo. Io, dopo, posso avere un domani? Ma non è a te che penso, e nemmeno a me. Penso a lei. Lei. Lei. Occhi verdi. E se ti ammazzo, se lascio che il sangue ti scivoli via, lei non torna ma io? Io torno? Cazzo. Non riesco. Non riesco a centrare il pensiero. Morte chiama morte. È questione di equilibrio. Assenza presenza. Sono di nuovo immobile. Non me lo posso permettere. L’immobilità genera pensieri pesanti, monolitici. Che sedimentano e non permettono la giusta riflessione. So dove sei. Devo solo venirti a prendere. Venirti a prendere. Vengo a prenderti. Non te lo aspetti. Non sai. Le conseguenze del tuo gesto sono arrivate fino a dove uno come te nemmeno sospetta che si possa giungere. Questa è la prima cosa per cui verrai punito. L’ignoranza. Vengo a prenderti. Apro la porta ed esco in strada. Salgo in macchina, infilo le chiavi nel quadro, metto in moto. E

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