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Tag: passato

Pulire, e buttare

C’è qualcosa di catartico nel fare le pulizie. Questo atto detergente sugli oggetti, l’eliminazione della polvere, la rimozione delle macchie. E poi. Quello che mi piace di più. Mettere le mani nel mio studio. Smontare il precario equilibrio che consente di contenere 32 anni in un’unica stanza. Ché l’assemblaggio si fa verticale, verso l’alto. E l’arte di impilare gli oggetti si affina in corsa rapida verso la perfezione. E poi. E’ tutto un turbine di scatole e cassetti e raccoglitori che si dischiudono su oggetti la cui esistenza era scivolata nell’oblio. Che uniti, e disposti idealmente in ordine cronologico, a quello che invece si è scelto di tenere in bella vista, ricompongono una vita intera. Appunti, idee scarabocchiate su fogli volanti o quaderni iniziati e poi abbandonati. Biglietti di mostre e concerti, mappe stradali di città  in cui si è giurato di tornare ma a cui si è sempre preferito il nuovo, l’ignoto, la meta più lontana, la meta non ancora raggiunta. Cartoline, programmi di eventi visti, programmi di eventi a cui non si è fatto in tempo ad andare. Liste di libri da comprare, liste di cose da fare. Tappi di bottiglie di spumante, con tanto di data e nomi. I biglietti del tempo del liceo, quei messaggi incisi sui fogli a quadretti, sui fogli a righe, che ti lanciavi da un lato all’altro della classe.  Pieni zeppi di te, della vita che facevi, delle cose importanti che stavano in prima fila, a sovrastare tutto il resto. E le foto. E i diari. I biglietti del treno usati come segnalibri che ti dicono esattamente dov’eri. Certificati del tuo vagare. Del tuo andare e tornare. E poi, forse la cosa più bella, ogni volta, ogni volta che metto mano al mio studio e poi rimonto il precario equilibrio che mi consente di contenere tutta la mia vita in un’unica stanza, che poi mi fermo a rimirare l’assemblaggio verticale, il passo avanti fatto verso la perfezione nell’arte di impilare gli oggetti, rendermi conto che qualcosa è cambiato, nel mio ordine personale. E nel passato. Perché qualcosa che stava nascosto prende posto all’esterno. E qualcosa che ho visto tutti giorni viene risposto. Ma sopratutto, qualcosa viene buttato. E se c’è un non so che di catartico nel pulire, nel rimuovere polvere e macchie, è niente se paragonato all’atto sacro e intimo di quando si decide di eliminare, buttare, e infine dimenticare quello che deve essere eliminato, buttato e infine dimenticato.

(non) recensioni di libri

Tutta mio padre – Rosa Matteucci

Ci ho messo un po’ a trovare le parole per parlare di questo libro della Matteucci. Evidentemente avevo bisogno che le parole lette trovassero il loro spazio. Le ho lasciate sedimentare, per provare a centrare meglio il punto. Prima un appunto del tutto personale. Non capita spesso, ma a volte succede. Aprire un libro, iniziarlo, e rendersi conto, con un leggero brivido di stupore, che quello che stiamo leggendo prende perfettamente posto nei pensieri del momento. È un periodo che nella mia testa passeggiano parole come famiglia, memoria, passato, frammenti che sommandosi danno come risultato la persona. Questo libro combacia perfettamente con questi pensieri. A pagina quindici si legge, “Nella campagna militare che sto per intraprendere le mie uniche alleate saranno le parole. Ecco, mi appresto a combattere. Non devo tralasciare alcun dettaglio per infimo che sia. Ho indossato la mimetica e tutta la santabarbara ad armacollo: pronomi, aggettivi, verbi, figure retoriche, arcaismi. Ho persino una confezione da borsetta di spry antistupro, per difendermi dai neologismi.” Questa entrata in guerra armata di parole produce passaggi come questi, “Pascetevi degli scarti della memoria, di questo tempo che è fuggito e che più non torna. Delle occasioni mancate, delle fatalità, dei casi strani e della fatica di vivere che grava sul cuore. Amatevi l’un l’altro, sempre anche a costo di venir rifiutati, ma amatevi. Siate come la lepre, come il pipistrello, perché la determinazione a vivere sempre prevarrà di fronte alle disgrazie. Perché a me la pena di vivere mi prese sin dalla nascita, le sono appartenuta da subito senza opporre la minima resistenza, perché ad essa ero votata già molto tempo prima di nascere.” Questa entrata in guerra, spietata, da vita ad una immersione nella memoria, una dissezione chirurgica e implacabile di un passato che torna, un passato fatto di luoghi, oggetti, odori, abitudini familiari, tic, ossessioni. Dettagli che sommati uno dopo l’altro, uno sopra l’altro, ci restituiscono un affresco di vita personale ma insieme anche collettivo. Questo libro è un mosaico fatto di piccoli e grandi frammenti, accostati così come memoria e necessità impongono. Ricordi, schegge. Che odorano e fanno rumore. Ancora e ancora. Un distillato di ironico cinismo, dolore che a tratti è rabbia, che si mescola al profondo amore e si manifesta nel sorriso beffardo di chi sa che le cose devono essere chiamate con il loro nome per poterle guardare dalla giusta prospettiva, dalla necessaria distanza per poterle chissà, magari, archiviare. L’autrice ci offre una catarsi, la sua, che possiamo fare nostra. Liberarci, magari. Magari, riprendere la giusta distanza. Tutto fissato sulla carta con una padronanza della lingua italiana davvero invidiabile, una narrazione che corre, sale, si arrampica, si avvolge su stessa, gira, torna indietro e riparte, con un ritmo che non cala mai di tono, con digressioni che non stancano e descrizioni che non lasciano dubbi, e che spesso porta il sorriso a trasformarsi in sonora risata. Tutta mio padre Rosa Matteucci p. 286 Bompiani

Se chiudo gli occhi

Se chiudo gli occhi riesco ancora a sentirne l’odore. Mobili di legno antico, fiori. Un po’ di polvere. Se chiudo gli occhi, riesco ancora a vederla. La luce. L’angolo di prospettiva dalla porta di ingresso, il corridoio che corre verso sinistra, il mobile di legno con lo specchio in cui si riflettono due barbuti figuri immobili dentro due quadri che per quanto brutti anche loro mi mancano. La sala da pranzo, le tende bianche e le piante. Il salotto, la televisione accesa e i piedi nudi di mia madre che spuntano appoggiati sul bracciolo della poltrona. Se chiudo gli occhi riesco ancora a sentire il rumore dei piatti nell’acquaio di marmo, la radio accesa in bagno, il gioco dei tagli di luce che dalle stanze si incastrano sul pavimento del corridoio. Se chiudo gli occhi corro di corsa dal salotto al bagno, tutte le luci accese. È sera, stiamo guardando la televisione. Sono piccola e ho paura del buio. Se chiudo gli occhi vedo l’albero di Natale, la tovaglia bianca con i trifogli, il lampadario acceso. Se chiudo gli occhi sto correndo dalla cucina verso la camera da letto dei miei genitori con in mano la mia calza della befana. Sono le otto, è festa. Mi inchiodo davanti alla porta chiusa e mi ricordo di bussare e di parlare piano. Se chiudo gli occhi entro in cucina mentre mia nonna sta preparando l’impasto delle polpette, con le lenti degli occhiali un po’ unte e con qualche granello di pangrattato appiccicato sopra. Infilo due dita nella ciotola e poi mi metto in bocca un pizzico di carne trita con pane, uova, latte, sale e noce moscata. Se chiudo gli occhi e apro la finestra della cucina esco in terrazza, se allungo una mano riesco a prendere un fico dall’albero che sale dal giardino della vicina del piano di sotto, e se esco dalla cucina, con il fico in bocca e vado verso il bagno, davanti al bagno, in camera, c’è mio padre che cammina avanti e indietro mentre sente la partita della fiorentina alla radio. Se chiudo gli occhi sono sdraiata sul mio letto, sto fumando, ascolto della musica. Sto leggendo. Sto scrivendo. Se apro gli occhi resta il fatto che nella casa dove la mia famiglia ha vissuto per più o meno quaranta anni adesso c’è uno studio di avvocati. Credo sia giunto il momento di superare il lutto. Questi che ho scritto sono cazzi miei, praticamenta senza il minimo interesse collettivo indispensabile a trasformare un fatto personale in un racconto. Non resta che trasformarli in un qualcosa d’altro. Ci sto lavorando.

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