prima di qui
perché c’è un prima rispetto al qui e ci stiamo lavorando, i gomiti piantati sulla scrivania, gli occhi a fessura e il cappello di lana ben calzato sulla testa ché fa un freddo cane ma va bene così
perché c’è un prima rispetto al qui e ci stiamo lavorando, i gomiti piantati sulla scrivania, gli occhi a fessura e il cappello di lana ben calzato sulla testa ché fa un freddo cane ma va bene così
È una morsa che stringe e strozza. Gola polmoni stomaco. Il tempo ride di me, della mia inadeguatezza, della mia vigliaccheria. Delle scuse che trovo e a cui credo. Il tempo gioca a calcio con la mia testa, lui la lancia contro i muri, lei rimbalza sull’asfalto. Il tempo ride di me, dello spreco, della frenesia inconcludente, della disorganizzazione, della frustrazione oscena e colpevole. Dei gesti che non seguono mai le parole. Delle cose che avrei dovuto fare e non ho fatto. Parole sprecate, fogli mangiucchiati, penne a cui ho lasciate seccare l’inchiostro. Cose dimenticate. È una morsa, che stringe e che strozza. La gola, i polmoni, lo stomaco. E si mangia quel poco di sano che mi resta. E il tempo ride di me, di questo vuoto a perdere. Al puzzle manca un pezzo, e quel pezzo se l’è mangiato il gatto. Niente è stato sistemato, e il disordine occupa tutto lo spazio disponibile. E tutto il tempo passato, presente e futuro. Le dita picchiettano, e spingono, e pigiano. I tasti fanno tic tic, questo so farlo. So mettere insieme una parola dopo l’altra. Ma non saprò mai qual’è l’ordine giusto. Sono l’unica responsabile di questo disordine. Il tempo non è il mio tempo, non comando io. Le cose accadono, con o senza di me. Ma non accadono a me. Accadono sempre di lato. Accadono a chi si muove veloce. Non è vero che basta aspettarla, una cosa, per farla accadere. Il tempo lo sa e ride di me. Dei miei sorrisi sguaiati, dei miei gesti improvvisi. Dei miei slanci. Del mio credere. Io che non credo eppure ci credevo. A qualcosa che adesso non ricordo neanche più devo aver creduto, e molto anche. Qualcosa che mi ha spinto fino a qua. Qualcosa che mi fa essere qui, adesso, così. Qualcosa che non ricordo più, il tempo sa anche questo e anche per questo ride di me. Ride della mia guerra, delle barricate e delle zone liberate. Ride delle mie voglie e dei miei desideri. In una morsa che stringe e strozza la gola, i polmoni, lo stomaco. [queste parole sono collegate in qualche modo a queste, non so esattamente in che modo, non so esattamente dove stanno andando e se stanno andando ma tant’è]
Il più delle volte è solo un’immagine. Un’immagine sola, nitida. Perfettamente a fuoco, perfettamente contrastata. Qualcosa, qualcuno. L’attimo prima dell’inizio, l’attimo esatto in cui tutto è finito. Il più delle volte, una fotografia. Da afferrare, da memorizzare prima che sparisca sommersa da altre immagini meno importanti. Poi ci sono le volte, tante, in cui è solo una parola. Una parola sola. Ammesso e non concesso che una parola possa essere sola. Senza l’universo che evoca, senza le altre parole che le si appiccicano addosso, come pezzi di ferro su una calamita. Una parola, una parola sola. Da afferrare, memorizzare, prima che sparisca sommersa da altre parole meno importanti. E poi ci sono quelle volte che è tutta una storia. Una storia tutta intera. Dall’inizio alla fine. E non c’è niente da afferrare, non c’è niente da memorizzare. La storia è lì. Tutta. Dall’inizio alla fine.
“I bambini, come gli animali, usano tutti i sensi per scoprire il mondo. Poi ci sono gli artisti che lo riscoprono daccapo, alla stessa maniera; per gli uni e per gli altri, è lo stesso mondo. E ogni tanto ci giunge notizia di un artista che quel dono non l’ha mai perduto. Nella mia educazione sensoriale includo la consapevolezza fisica della parola. Di una certa parola, cioè; del suo legame con ciò che rappresenta. Intorno ai sei anni, credo, mi trovavo sola nel nostro giardino in attesa della cena, proprio all’ora in cui negli ultimi pomeriggi d’estate il sole è già sceso sotto l’orizzonte e la luna piena, già sorta, smette di avere un’aria gessosa e comincia a illuminarsi. Quello è l’istante, e allora me ne accorsi, in cui da piatta la luna diviene tonda: per la prima volta mi colpì gli occhi sotto forma di globo. E la parola luna mi riempì la bocca come se me l’avessero porta su un cucchiaio d’argento; stretta nella mia bocca la luna divenne una parola, con la rotondità degli acini di uva fragola che il nonno, in Ohio, staccava dai suoi grappoli e mi dava da succhiare fuori dalla buccia e inghiottire interi.” Eudora Welty, Come sono diventata scrittrice