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(non) recensioni di libri

L’amica geniale (quattro volumi) – Elena Ferrante – (non) recensione

Per scrivere dei quattro volumi de “L’amica geniale” di Elena Ferrante devo chiudere gli occhi, per afferrare tutto, e trattenere il fiato, per fermare le immagini, le sensazioni. Le parole. Occhi chiusi e fiato sospeso per tenere insieme la scrittura, i personaggi, la trama, le trame. Le storie. Ma tutto si mescola. Si smargina. Solo un sentire emerge e resta a galla. Il senso di appartenenza. Ma non sono questi quattro libri ad appartenermi. Sono io che appartengo a loro. E credo sia la prima volta che mi capita. Appartengo alla scrittura della Ferrante, netta e poetica, onesta, viva. Dura e delicata. Appartengo Lila e Lenù, imperfette e reali, che la narrazione mi porge vive nella loro ricerca di un posto nel mondo, nei mondi. Nel micro e nel macro, nel personale e nel politico. Appartengo alla rabbia e alla disperazione, al tagliarsi e poi ricucirsi, allo sfarsi e poi ricomporsi. Appartengo a quell’affetto profondo e a quel senso di famiglia al di là della famiglia. Ai corpi esplorati, rifiutati, cercati, odiati e amati. Appartengo allo spogliarsi e al rivestirsi. Appartengo agli amori sfibranti. A quel senso di sé sfuggevole, mutevole, in balia di dubbi e paure. Come il sali scendi della marea. Appartengo all’infanzia che resta nei gesti, nelle parole e nelle scelte. Nel bene e nel male. Appartengo al percorso di liberazione dall’approvazione dello sguardo altrui. Al desiderio incessante di dare un senso alle cose attraverso la scrittura. Alla volontà di esserci, alla paura di essere. Appartengo alla cattiveria, ai sentimenti sporchi e al tentativo di nasconderli. Appartengo alla realtà narrata nel suo fluire, senza argini, senza sconti, senza abbellimenti. Appartengo alle bugie dette per sopravvivere, alle verità urlate per non soccombere. Al perdersi e ritrovarsi. Ad occhi chiusi, con il fiato sospeso. Elena Ferrante L’amica geniale 2011 e/o p. 400 Elena Ferrante Storia del nuovo cognome, l’amica geniale volume secondo 2012 e/o p. 480 Elena Ferrante Storia di chi fugge e di chi resta, l’amica geniale volume terzo 2013 e/o p. 382 Elena Ferrante Storia della bambina perduta, l’amica geniale quarto e ultimo volume 2014 e/o p. 451

Esserci

Esserci. Essere nel mondo. Essere nella realtà là fuori, dove poco o niente combacia con quello che vorrei. Resistere alla tentazione di chiudere le comunicazioni. Resistere alla tentazione di ignorare, non sentire, non vedere, non parlare, non pensare. Non soffrire. Esserci, e in ogni piccolo gesto, in ogni piccola parola, cercare il modo, i modi, di far combaciare l’essere e il potere essere. Opporsi al procedere distorto. Non tacere, prendersi i rischi e le responsabilità. Esserci, la fuori, tra le cose e le persone, seguendo traiettorie diverse. Non cedere. Anche se sembra inutile. Anche se indietro tornano sguardi e parole che, di nuovo, sempre, il più delle volte, non combaciano con l’intenzione. Non combaciano con il desiderio. La marea che ti strattona e ti spinge indietro, la marea che si mangia ogni volta un pezzo. La marea che ti sommerge. La marea che ti toglie il fiato e spezza, a tratti, la fermezza. Del corpo, della mente. Esserci. Essere, là fuori. Nonostante tutto.

chiudi bene la porta, che stasera tira vento

Chiudi bene la porta, che stasera tira vento, è un vento fortissimo. Tira su per aria le cartacce da terra e se le porta via, fa oscillare gli alberi e sbattere le persiane. Chiude bene, chiudi bene la porta per favore. Chiudi anche la finestra, chiudi tutto. Il vento mi fa paura, mi ha sempre fatto paura. E stasera non ho voglia di avere paura. Mi metto qua, nell’angolo comodo del divano e provo a non fare rumore. Respiro piano, passami solo la coperta. Non ho freddo, no, ma fuori c’è il vento, e il vento mi fa paura e con la coperta addosso mi sento più tranquilla. No, non leggo stasera. Guardo le pagine ma mi sfuggono le parole, non riesco a stringerle, non riesco a tenerle in ordine. Se ne vanno via senza dirmi niente. Sarà colpa del vento, chi lo sa. Sì, puoi sederti qua vicino a me ma non ho voglia di parlare. Non saprei cosa dire, ho pensato troppo oggi. Ho pensato troppo a cose a cui non mi andava di pensare e ora sono un po’ stanca. Mi piacerebbe che fosse inverno, almeno stasera. Questa stanchezza appartiene all’inverno. Domani no, domani voglio il sole, e il caldo. E passeggiare da qualche parte, ti va? Bene, allora domani ci facciamo una passeggiata. Hai sentito? Ho sentito un rumore. Sì, hai ragione, sarà il vento. Maledetto vento, lo odio. Hai chiuso bene la porta? Sì, lo so che non è solo colpa del vento se stasera son così, lo so. Ma non ho voglia di pensarci, preferisco dare la colpa solo al vento. Mi tremano ancora un po’ le mani, lo so, ma non ti devi preoccupare. È normale, sono i pensieri che si assestano. Ci sono abituata, mi conosco. So come sono fatta, quando penso troppo poi i pensieri si devono assestare e mi tremano le mani. No, non c’entrano le sigarette e nemmeno il caffè. Sono i pensieri, credimi. Cosa penso di fare? Non penso di fare niente, semplicemente. Non c’è niente che io possa fare. Non stavolta, non è compito mio. Un bicchiere di vino? Sì, beviamo un bicchiere di vino. No, non posso fare niente. Vorrei, in un certo senso, ma non posso. Vorrei in un senso astrattatto, se così si può dire. Vorrei sempre fare qualcosa, in questo senso dico, in senso generale, se stessimo discutendo per ipotesi e non nella concretezza. Mi dispiace sempre quando succedono queste cose. È una specie di perdita, no? Buono questo vino, ricordiamoci di prenderne ancora. Si, è come se perdessi qualcosa quando le cose vanno a finire così. Senti, senti che vento. Mettiamo un po’ di musica, sì? Un po’ di musica così non sento il vento. Domani dove andiamo a camminare? Ho voglia di far andare i piedi uno dopo l’altro, uno dopo l’altro. Decidiamo domani, domani ci alziamo e decidiamo. Sì, me lo domando cosa succederà. Ma non ce l’ho una risposta, e non è un problema. Avessi sempre tutte le risposte, sapessi sempre rispondere a tutte le domande che domande sarebbero? Sarebbero solo ragionamenti ininterrotti, un unico lunghissimo, noiosissimo discorso. Oddio, m’è partita la vena filosofica. Sarà il vino. No, non ho voglia di andare a letto. Ancora no. È troppo presto, è ancora tutto qui. Addosso, sulle mani, nella testa. Sento l’eco. Non voglio andare a letto portandomi l’eco di tutta questa giornata. Voglio stendermi nel letto, infilarmi sotto il lenzuolo e addormentarmi subito. Se vado a letto adesso mi porto appresso l’eco. Il vento e l’eco. Non ci voglio nemmeno pensare, guarda. Me lo immagino così l’inferno, provare a dormire mentre fuori c’è il vento e nella testa l’eco di una giornata di merda. Adesso basta però, basta parole. Basta pensieri. Altrimenti l’eco non se ne va.

la leggerezza e la carota, e il potere su mezzo metro di sudicio niente

La pioggia batte ancora, sul tetto, sui vetri. Io vorrei fare ordine. Fuori, e dentro. La testa si rincorre, esattamente come fanno i cani quando gli parte la brocca, s’addentano la coda e scappano inseguendosi. Non c’è modo di fermarli. Ma la situazione è complessa. Le situazioni, sono complesse. Così complesse che ne basterebbe una sola per fare un avanzo. Progetti di scrittura che non riescono a trovare lo spazio sufficiente per passare dallo stato di idea a quello di oggetto. Strascichi di malumori che non se ne vogliono andare, per quanto lo sforzo fatto sia quello di ridere, lucidamente, comunque, alla faccia delle piccole, mille piccole, cose fuori posto. Il tempo che si restringe, giorno dopo giorno, che si rincorre, anche lui, come i cani sbroccati e la mia testa. E poi. Le posizioni da difendere, dai piccoli attacchi del quotidiano. La voglia di leggerezza, legata al bastone al posto della carota per continuare a percorrere una strada che ho trovato e trovo giusta. Giusta per me. Ché poi ti volti e vedi in lontananza chi è rimasto indietro, per colpa o per difetto, o per incidenti involontari di percorso, ma io, Io, tallone punta, tallone punta, vado avanti e indietro non ci torno. Orde di parole maleducate che sibilano sfrecciandomi a meno di un palmo dalle orecchie senza colpirmi, fortunatamente, in piena fronte. Per un pelo. In pieno petto. Parole sbagliate che niente hanno a che vedere con il loro reale significato. Parole usate tanto per fare. Io che le parole le peso, o almeno ci provo. Dove mi giro mi giro, la sensazione è sempre quella di aver cominciato improvvisamente a parlare un’altra lingua. O che abbiano cominciato a farlo tutti gli altri. In un caos comunicativo senza precedenti. E poi. Le manifestazioni più o meno grandi di oppressione e di autoritarismo. Esercizi di stile sulla variante del mantenimento e della rivendicazione del potere, anche solo  su mezzo metro di sudicio pavimento, anche solo su mezzo metro di sudicio niente trasformato in regno, che mi fanno ribrezzo e paura insieme. Comportamenti che trasudano odio marcio e violenza male indossata. Rabbia che s’è trasformata in rancore rancido, che viene su alla gola come una cena mal digerita, con i succhi gastrici impazziti che ti foderano la gola. Questa compulsione all’ordine e alla gerarchizzazione. Alla disciplina e al rispetto dei ruoli. E poi, la confusione di chi non sa gestire il caos, il dubbio, il moltiplicarsi rapido delle variabili, la mutazione incessante e che vuole trascinarti nel suo castello di certezze sanguinolente, agonizzanti. Resta il fatto che la testa si ricorre rincorre come un cane sbroccato che si morde la coda. Prima o poi si fermerà, e il discorso sarà più fluido.

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