Prima, aspettavo. Cercando educatamente di non soccombere.
Aspettavo, di essere felice.
Credevo che bastasse aspettarla, la felicità, per vederla arrivare. Aspettare e fare quello che deve essere fatto.
Prima, credevo che bastasse. Una mattina qualsiasi di un giorno qualsiasi pensavo che mi sarei svegliata felice.
Cercando, nel frattempo, educatamente, di non soccombere.
Di non inciampare nel tentativo di andare a tempo. Il tempo su cui tutti sembravano scivolare senza difficoltà, senza timore, senza incertezze. Quel tempo, quel ritmo.
Le cose che devono essere fatte.
Prima, aspettavo.
Che il senso di colpa sparisse, come inghiottito da un maelstrom improvviso e inspiegabile. Miracoloso. Che il limpido e cristallino senso di inadeguatezza si disfacesse. Che quel senso di margine su cui accumulavo le giornate si aprisse, masticando e deglutendo, e magari digerendo, quel senso di esclusione e non appartenenza che stava masticando e deglutendo me.
Mi impegnavo. Nell’attesa e nel fare quello che deve essere fatto. Nell’essere quello che.
Quello che.
Cercavo di essere qualcosa che gli altri potessero sempre riconoscere. A cui tutti potessero ricondurre aggettivi chiari, impressioni rassicuranti. Cercavo di suscitare pensieri innocui. Qualcosa di facilmente identificabile.
Eseguivo quotidianamente il compito che mi ero data, o che qualcuno prima di me, qualcuno che avevo dimenticato, o qualcuno che non conosco ma conosceva me, mi aveva assegnato in un momento che non ricordavo.
La parte più difficile, forse ve l’ho già detto, era mettere a tacere i pensieri. Fondamentale per non soccombere. Educatamente.
Mantenere il passo, seguire il ritmo. Il ritmo di chi sembrava, oltre ogni ragionevole o irragionevole dubbio, essersi svegliato una mattina qualsiasi di un giorno qualsiasi felice. Mantenere quel passo, seguire quel ritmo. Senza inciampare.
Prima, mi capitava di domandarmi se ci fosse un reparto del supermercato dove poter comprare lo spartito di quella musica, per impararlo quel ritmo. Un reparto del supermercato dove poter comprare, a qualsiasi prezzo, certezze e consapevolezza.
Ma erano i momenti in cui inciampavo, in cui perdevo drammaticamente il ritmo.
Erano i momenti in cui i pensieri prendevano il sopravvento, senza controllo. In cui mi immaginavo spettinata, malvestita, sbraitante sull’autobus affollato dell’ora di punta, invocando l’arrivo imminente dell’apocalisse.
Come quella donna sul 56. I capelli bianchi, spessi ma radi. Gli occhi blu, piccoli. Intensi.
Momenti.
Momenti in cui mi domandavo se magari.
Momenti in cui l’assenza.
Momenti in cui i dubbi. Il dubbio.
Momenti in cui l’eventualità di soccombere si faceva così vicina da poterla accarezzare.
Momenti in cui mi domandavo se forse mi ero dimenticata un passaggio fondamentale. O se magari quel qualcuno che non conoscevo ma conosceva me se ne fosse dimenticato.
Momenti.
Intorno cesellavo la mia ripetuta quotidianità. Fatta di gesti calibrati in lunghezza, intensità ed estensione. Gesti proiettati verso l’approvazione e l’accettazione del prossimo. Qualunque prossimo.
Prima, senza strappi, senza scosse, aspettavo e facevo quello che doveva essere fatto.
Ero, senza strappi e senza scosse, quello che dovevo essere.
Educata, accogliente. Moderatamente disponibile. Limpida, circolare. Facilmente maneggiabile. Stabile. Curiosa ma non invadente. Estranea al conflitto. Abile nella cura dell’altro, qualsiasi altro.
Da seduta, le mie ginocchia si sono sempre toccate. Se capite cosa voglio dire.
Ed ero brava.
Ora, da qui, lo posso dire.
Prima, ero di una bravura pericolosa.
Mi sentivo goffa, fuori posto, incapace, inadatta. Inseguita dalle paure, plasmata dall’angoscia. Spappolata dall’attesa.
Ero brava.
A non lasciare spazi vuoti, porte socchiuse, vie di fuga.
Prima ero brava. Ad osservare e ad imparare. Ad imparare e a mettere in pratica. A mettere in pratica per fare quello che deve essere fatto per svegliarsi, una mattina qualsiasi di un giorno qualsiasi, felice.
Brava a non mostrare la cacofonia mentre tenevo il passo. Tenevo il ritmo.
Quel passo, quel ritmo.
Prima, ero brava a nascondermi. A nascondermi quei momenti.
[prima c’è il qui, auspico anche un poi]
2 risposte
Conosco bene quella sensazione. Non avrei saputo esprimerla meglio. Wow.
Mi hai regalato il commento giusto al momento giusto. Non ero del tutto convinta di pubblicare questo pezzo. È ancora una bozza in evoluzione, come il pezzo che lo precede, “Qui”, e in attesa della terza parte, che spero si presenti al più presto.
Grazie.
M.