Del mantenere la rotta.
So che sto per accendermi un’altra sigaretta. Lo so, come so che resterò a fissare il cielo grigio scuro che sputa acqua da tre giorni finché non avrò finito questa grande tazza di caffè. So che non penserò a qualcosa di risolutivo e definitivo, qualcosa che mi farà pensare di non aver attraversato un’altra giornata sotto voce. Non penserò qualcosa che varrà la pena di continuare a pensare domani, che varrà la pena di provare a fare dopodomani.
Mantenere lo rotta è cosa assai complessa. La cambusa è piena e i piedi sono asciutti, ma la rotta.
Sarebbe più facile poter restare nell’immobilità, nel non fare alcunché. Come fissare il cielo che sputa acqua da tre giorni bevendo una grande tazza di caffè e fumando tante sigarette quante ce ne possono stare nel tempo dilatato dell’immobilità. Del non fare alcunché.
Perché mantenere la rotta è cosa assai complessa. Restare salde, i piedi ben radicati. Oscillare senza cadere. Sobbalzare senza scivolare.
Alle volte. Penso a tutte quelle volte.
Lo sapevo, mi accendo una sigaretta. Guardo il cielo grigio scuro vomitare acqua e penso.
Penso a tutte le volte in cui ho pensato di mollare il timone. Allentare la presa, aprire le mani, alzare le braccia. A tutte quelle volte in cui la sensazione di navigare nell’oceano vasto ed infinito in solitaria solitudine assumeva contorni così netti e invalicabili da rendermi difficile anche quel gesto semplice e naturale ed essenziale del tirare il fiato per il respiro successivo. A tutte quelle volte in cui muovermi fuori tempo non mi è sembrato inevitabile e gustoso. A tutte quelle volte in cui essere fuori luogo non mi è sembrato gestibile. Allentare la presa, aprire le mani, alzare le braccia.
Il cielo grigio scuro continua a vomitare acqua. Il mondo si muove, le persone agiscono, fanno cose importanti, partecipano. Interagiscono. Costruiscono, progettano. Io fumo sigarette e bevo caffè. E penso.
Penso a tutte le volte che ho cambiato rotta, a tutte le volte in cui sono finita altrove. Perdendo il senso profondo delle cose. Delle mie cose. Del mio sentire, del mio volere. Del mio pensare. Del mio desiderare. In tempi non miei, in luoghi non miei. In oceani grandi come vasche da bagno. Senza neanche un’onda. In cui è facilissimo annegare.
Il cielo grigio scuro vomita acqua, io fumo e bevo caffè. E penso. Con i piedi ben radicati e le mani sul timone.