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Diṡàgio
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Diṡàgio

Diṡàgio s. m. [comp. di dis–1 e agio]. – 1. a. Mancanza di agi, di comodità e sim.; condizione o situazione incomoda: soffrire, patire, sopportare disagi di ogni specie; affrontare i d. di una lunga navigazione; stava a d. in quella sedia troppo stretta per lui. b. Senso di pena e di molestia provato per l’incapacità di adattarsi a un ambiente, a una situazione, anche per motivi morali, o più genericam. senso d’imbarazzo: è un luogo, una compagnia, in cui mi trovo a d.; quei discorsi misero a d. tutti i presenti; davanti a lui mi sento sempre a d.; il suo modo di guardarla la metteva a disagio. 2. ant. Mancanza di cosa necessaria o opportuna: natural burella Ch’avea mal suolo e di lume d. (Dante); acciò che di mangiare non patisse d., seco pensò di portare tre pani (Boccaccio). (Treccani) Hey girls / Hey boys / Superstar DJ’s / Here we goDovevamo arrivarci, prima o poi, a questa parola. Una delle più difficili. Una delle più usate, abusate e maltrattate. Insieme a stigma e a narrazione tossica, che sono due parole ma ormai sembrano una, tutto attaccato, narrazionetossica. Che diṡàgio. Senso di pena e di molestia provato per l’incapacità di adattarsi a un ambiente, a una situazione. Right here, right now / Right here, right now /Right here, right now / Right here, right now. Ve l’ho detto, la situazione è critica. Soprattutto se l’ambiente è il mondo e la situazione è la vita. Se il mondo è un mondo ostile, e se la vita è una fatica. Scrive kappazeta su mastodon (neretti mie), il 27 settembre 2021: Nelle ultime settimane sto continuando a leggere e sentire testimonianze (in italiano e francese, ma di sicuro ce ne sono anche in altre lingue) di persone che sono sfinite, sul limite del burn out, demotivate, stanche e senza energie dal rientro delle vacanze (o pure prima). Come dicevo con un amico, credo davvero che sia una roba collettiva, che però la società ci impone di vivere in solitudine, come incapacità personale, fallimento, colpa. E invece non è così: che sia così forte e diffusa è un sintomo di un disagio più grande che non è personale. Sicuramente è legato anche alla pandemia che abbiamo vissuto negli ultimi due anni. Ma come combatterlo? Cosa è possibile fare? Come se ne esce? Io, sicuramente, stanca. Sfinita. Esausta. Di restare vigile, in allerta, in uno stato di tensione prolungato all’infinito. Di questo sottofondo perenne di ansia, di questo tarlo che mastica e che mi mastica. Stanca di essere stanca, di non riuscire a rifugiarmi e ripararmi in quello che in cui mi rifugiavo e mi riparavo. Stanca della stanchezza di sentirmi inadeguata e impreparata. Io, sicuramente, a disagio. Quando mi si chiede forzatamente di tornare ad una normalità in cui non sono mai stata a mio agio. Il mondo, ve lo devo dire io?, era ostile anche prima. Io, quindi, sicuramente a disagio quando mi si chiede forzatamente di fare, andare, consumare, non oziare, non sprecare il tempo, dobbiamo stare bene, dobbiamo tornare a stare bene. Io sicuramente a disagio, oggi come ieri, quando mi si chiede di fare quello che deve essere fatto. Quando mi si chiede di avere fiducia e di rispettare le regole senza poterle valutare, discuterle. Quando a chiedermelo non è solo la televisione.Io, /di·ṣa·già·ta/. Oggi come ieri. Diṡàgio. Mancanza di cosa necessaria o opportuna. Cosa mi manca di necessario ed opportuno? È colpa della pandemia o la pandemia ha solo reso manifesto il mio fallimento, le mie incapacità e le mie colpe? Di fronte all’acutizzarsi dell’ostilità del mondo anche la mia inadeguatezza ha fatto altrettanto? La mia resistenza a sintonizzarmi sul ritmo stabilito, a rispettare il tempo, tempo scandito da mete e traguardi da raggiungere, da piaceri indotti, desideri standardizzati, attività ricreative preconfezionate è difetto e mancanza insanabile?Cosa mi manca che ad averlo potrei facilmente uscire da questo stato di disagio? Per poter desiderare, anche io, finalmente, di tornare alla normalità? Cosa mi manca per sedare il tarlo? Oppure. La verità è che davvero la società ci impone di vivere in solitudine le nostre stanchezze, alimenta i nostri tarli, confonde le nostre priorità e sbiadisce le nostre inclinazioni. E che questo disagio è davvero qualcosa di più grande, e non è (solo) personale. La verità, è che non ho risposte. Non ancora. Ma l’hai capito che non serve a niente / Mostrarti sorridente / Agli occhi della gente / E che il dolore serve / Proprio come serve la felicità.

Distorsióne
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Distorsióne

Distorsióne s. f. [dal lat. tardo distorsio –onis, class. distortio –onis, der. di distorquēre «storcere», part. pass. distortus]. – 1. In genere, spostamento o deformazione che provoca un’alterazione della forma o dell’atteggiamento naturale: la d. dell’immagine riflessa da uno specchio concavo o convesso. In usi fig., alterazione, stravolgimento: d. del vero senso di una frase (nell’interpretarla o nel riferirla); un’intenzionale d. della realtà dei fatti; strana d. e caricatura del procedere filosofico (B. Croce); d. innaturale con cui aveva cambiato momentaneamente in odio l’amore per il figlio (V. Brancati). (Treccani) Sono io o sono loro. Distorta o distorti? Dalle casse rotte che gracchiavano (na na na na na) / Uscivano i Beach Boys distorti Io, sicuramente, nella banalità del doversi guardare nello specchio un po’ più a lungo, per riconoscersi. In questa immobilità innaturale, il corpo teso e deformato in una posizione di difesa inefficiente. La mente alterata nella sua forma, vaga, non si ferma mai, rincorre qualcosa. Io, sicuramente alterata nel mio atteggiamento naturale. Agitata. Mi sento scossa agitata-a, agitata-a, un po’ nervosa-a / Uoh uoh. In un acutizzarsi esponenziale della percezione dell’ostilità del mondo. Nella sentenza definitiva che sancisce il mio non poterlo abitare, trasformare, nemmeno all’interno di quel perimetro delineato negli anni. Anni di lotte, anni di pensiero critico, anni di condivisione. Il perimetro si restringe e posso solo abitare me stessa, nella rottura della condivisione, nella rottura della comunicazione. A cui, evidentemente, non riesco a rinunciare e provo a raccoglierne i pezzi. E provo a condividere, comunicare. Nello stravolgimento del vero senso delle frasi, nell’intenzionale distorsione della realtà dei fatti tutto intorno a me. C’è tutto un mondo intorno che gira ogni giorno / E che fermare non potrai / E viva e viva il mondo, tu non girargli intorno / Ma entra dentro al mondo, dai. Ma dal mondo arrivano messaggi distorti, le casse si sono rotte, le voci gracchiano. Non le riconosco, non riesco a collocarle nella galassia di cui ho, evidentemente, perso le coordinate sentimentali, insieme a quelle politiche, per la spedizione interstellare del pensiero e del procedere e le parole fluttuano alla deriva nello spazio, mentre il discorso critico muore su due binari paralleli. Le voci gracchiano parole deformate. Io credo, in qualche modo, deformate dal panico, e si manifestano in un rigurgito di attaccamento ossessivo, mentre il discorso critico muore su due binari paralleli alimentati dall’inquietudine, dal disagio, dalla confusione, dalla paura e da una rabbia malsana che annebbia gli occhi e perde di vista il bersaglio, e la comunicazione si interrompe e diventa soliloquio, tarlo che mastica in sottofondo. Ma i miei pensieri sono distorti, la mia testa gracchia. Per usare una citazione, più pop della metafora sulla spedizione interstellare ma sicuramente più calzante, la merda è entrata nel ventilatore.

Dissèsto
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Dissèsto

Dissèsto s. m. [der. di dissestare]. – 1. Condizione di squilibrio, d’instabilità: d. di un meccanismo; d. statico, nella tecnica delle costruzioni, l’insieme degli effetti (lesioni nelle pareti, rigonfiamento degli intonaci, movimento delle parti, ecc.) derivanti dalle insufficienti condizioni di stabilità di una struttura. 2. fig. Stato di disordine, cattive condizioni, situazione critica: avere dissesti di salute; sosteneva che tutta la moderna cultura è in dissesto; in partic., e più spesso, cattivo stato economico: d. finanziario; il d. del bilancio dello stato; causare, provocare un d.; trovarsi in grave dissesto. (Treccani) Cerco da giorni una parola che possa descrivermi. Che possa descrivere la condizione che mi trovo ad attraversare. Non so stare senza parole, non so stare senza la corrispondenza tra l’emotività, la mia, e la sua corretta definizione, per me. O descrizione, o metafora. Un appiglio, una boa. Un punto in cui stare senza andare alla deriva. Dissèsto mi descrive. Dice molto di me in questo momento. Delle mie insufficienti condizioni di stabilità della struttura. Dello stato di disordine, dello squilibrio. La situazione è critica, direbbero in uno di quei telegiornali che evito accuratamente di guardare. Cerco altre fonti, non mi accontento della versione ufficiale, non mi accontento dell’analisi di un servizio logoro in prima serata, non mi fido del giornalista servo e allarmista.Ma ho una sola fonte, purtroppo poco attendibile. In un processo piuttosto che farmi testimoniare la difesa chiederebbe alla giuria di andare in fiducia e di arrivare ad un verdetto sulla base del lancio dei dadi. Ci scherzo su. Questo è un buon segno. Una risata vi seppellirà. Citazioni, ancoraggi. Divagazioni. Anche se voi vi credete assolti / Siete lo stesso coinvolti. La scrittura è un’entità multiforme, vive di vita propria. Da anni non riesco a parlarci con sincerità quando si tratta di me. Da anni, quando si tratta di me, divento una fonte inattendibile. Bugiarda. La schivo, non mi faccio trovare. La distraggo. Mi arrendo. Mi scoppia il cuore, non riesco a sostenerla.Per questo mi serve una boa. Non c’entra la deriva. Mi serve una boa per non andare a fondo, lì dove dovrei andare. E come sempre sento che affondando ancora un poco arriverei alla verità. (Virginia Woolf – Diario di una scrittrice) Per questo cerco parole che possano definirmi nel momento. Che possano descrivermi il momento. Questo momento e non un altro. Perché sono capace di esistere solo nel momento. /dis·sè·sto/ /dis·se·stà·ta/ Vorrei ancora potermi tatuare sulla pelle In ogni caso nessun rimorso. Perché sono capace di esistere solo nel momento. Questo mi definisce. Questo mi descrive. Questo mi frega. E se il personale è politico, e viceversa, questo non è un buon momento.   Se avete voglia qua potete leggere Diśàgio e invece qui Distorsióne.

ricominciare
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Ricominciare

Ricominciare a scrivere, ricominciare a scrivere sul serio. Surreale, non pensavo che sarebbe accaduto, scrivere di nuovo, come prima ma in modo completamente diverso. Non so quanto durerà, se durerà. Mi godo il momento e questa condizione di rinnovato equilibrio. Perché, lo so, solo quando scrivo, solo quando sono a lavoro su qualcosa, non mi sento un relitto alla deriva in un mondo mare in cui non ho mai imparato a nuotare. Di alcune cose mi ero completamente dimentica. Dell’impatto sul corpo, sul fisico per esempio. Avevo dimentico la spossatezza fisica dopo un’intera giornata dentro ad una storia, cercando di non perderla, di darle il giusto colore, il giusto timbro una parola dopo l’altra. Mi ero dimentica di quelle frasi di raccordo che ti vengono in mente all’improvviso, mentre non sei con il culo sulla sedia e i gomiti sulla scrivania, il terrore di perderle, di non riuscire a cucire i pezzi.Mi ero dimenticata dell’esaltazione.Mi ero dimenticata della giostra, che dall’esaltazione ti scaraventa nell’abisso dell’inadeguatezza e dell’incapacità. Vedere la storia, poi non vederla più. Vedere il senso di quello di quello che si scrive e poi non vederlo più. Come quando ho scritto VA:LE. Come quando ho scritto i racconti del Tarlo Ippopotamo.Come quando ho scritto Ni una más. Ma comunque in modo completamente diverso. Per me, senza pensare ad una destinazione, ad una collocazione. Senza pensare a niente se non a quello che sto raccontando. Spero di non essermi dimenticata come si scrive, ecco. Ma questo si vedrà più avanti.

(non) recensioni di libri
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Di ego e di bestemmie

Io non la so usare la scrittura per sfogarmi. Io so usare la scrittura per costruire storie dove mi sfogo. È diverso. Ho imparato a tenere a bada l’ego, nella mia scrittura. Ad ammansirlo. Ho imparato a rendere collettivi e universali i sentimenti del mio ego. I pensieri del mio ego. I dolori del mio ego. I desideri del mio ego. Ma adesso lui strabocca. Cola ovunque. In ogni frase che tento di buttare giù, in ogni storia che tento di raccontare. Fuoriesce in ogni virgola, in ogni parola, in ogni sfumatura e colore. E allora facciamoci pace. Diamogli spazio, mi dico. Qualcosa verrà fuori. Magari. Ho un blog, mi dico. Potrà servire anche a questo. Oltre alle parole che trovo per i libri delle altre e degli altri. Oltre alle parole, ormai sempre meno, le mie, che riesco a mettere insieme. Che poi questa è un’altra storia. Ma non avrò mai voglia di raccontarla. Sono stanca. Stanca di non sentire i corpi vibrare, di non condividere lo spazio con altri occhi, altre mani, altri voci. Altri corpi, fatti di pelle e respiri, di posture e gesti. Sono stanca, me ne accorgo. Sto esaurendo le scorte, anni e anni di esperienza nel tenere la mia mente al sicuro mi sono stati utili in questi mesi. Ma si stanno esaurendo le scorte. Me ne accorgo.Il quadro generale è scomposto, frammentato. Oltre il sospeso, oltre l’attesa. Si sfalda. Impossibile tenerlo insieme, immaginarlo in divenire.Spiegarlo. Perfino prendersi in giro dicendo di averlo compreso. Impossibile. Le complessità si sovrappongono, e non riconosco il senso. Il senso profondo, la direzione.E dentro. Dentro le cose sfarfallano, come la lampadina di una qualsiasi sala d’attesa di una stazione qualsiasi immersa in un buio qualsiasi.E sono stanca.Io sono fatta per essere in mezzo alle cose, tra le cose. Tra le persone. Io sono fatta per utilizzare i sensi. Tutti. Io per vivere devo toccare, devo vedere, e guardare, annusare, assaggiare. Ascoltare.Io sono fatta della mia solitudine. La solitudine che ho costruito, che bramo e desidero. Sono fatta della mia solitudine, per la mia solitudine, quella che cerco, quella in cui sono reale. Quella in cui mi siedo, in cui gioco. Io sono fatta per ritirarmi dentro, quando voglio io. Quando il dentro è accogliente, quando il dentro mi cura, quando il dentro mi rassicura, quando il dentro mi risponde. Quando dentro ci sono io.Ma dentro. Adesso dentro le cose sfarfallano. Sfuggono. Si fa fatica e tenerle.Il senso sfugge. Il senso del mio agire, personale e politico. Quell’agire nel quotidiano, all’interno e all’esterno, su cui ho costruito e costruisco la totalità di me. Condividere, dialogare, attraversare, distruggere, oltrepassare. Relazioni, stanze, percorsi.Sfarfalla.Come una lampadina.E duellare con la rassegnazione, con l’abitudine. Con l’attraversare lo stallo, la sospensione, fino a non distinguere più il limite, quel limite così pericoloso da attraversare. L’assuefazione. L’immobilismo. Non si è mai davvero immobili. Nell’immobilità ci muove, senza nemmeno capire quanto, senza nemmeno capire quando, si scivola. Si slitta.E servono grandi manovre di controllo del mezzo per non slittare nella direzione sbagliata.Sono allenata alla guerriglia quotidiana, alla costruzione di un mondo che sia in opposizione e in posizione di resistenza attiva. La costruzione quotidiana di qualcosa che sia altro dall’esistente che ci viene imposto.Sono una donna, sono un’anarchica. Sono allenata alla guerriglia. Piedi radicati e gioia armata. Ma anche la più solida delle guerriere cerca il riposo, l’abbandono. Il momento in cui tutto cede, l’acqua che inonda, le macerie. Le macerie sui cui ho imparato a sedermi a fare colazione prima della ri-costruzione.Adoro le macerie, l’esplosione del tutto. Sganciare i cavi, il crollo dell’impalcatura. Tutto sempre in divenire, tutto sempre in movimento, all’interno, all’esterno. E vaffanculo all’eterno che ripete se stesso.Ma non posso far esplodere niente, adesso. Mi manca la possibilità dell’abbandono.Abbandonare il gioco, abbandonare la nave. Gettarsi in mare e nuotare senza un direzione, la mente si risposa senza dover pensare a questo dover colmare la distanza.La distanza dal mondo, la distanza dai corpi, dagli amori.Perché io non ho affetti. Io non ho congiunti. Io ho amori. Le persone che compongono il mio mondo, e di cui io compongo il loro, sono fatte del mio amore e io del loro.E questa distanza da colmare si allarga. E ci cade tutto dentro, in questa distanza che deforma, manipola, ingigantisce. L’ego strabocca. Mi resta la bestemmia. Sussurata, dio vile. Piedi radicati e gioia armata.

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