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La mischia – Valentina Maini – (non) recensione

Perché non sento parlare ovunque di questo romanzo, perché non leggo ovunque di questo romanzo, La mischia di Valentina Maini?

Di questo romanzo con una sua voce netta e nitida che canta su una musica complessa, che prima ci vuole un po’ di tempo, il tempo di abituarsi al ritmo per poi ritrovarsi completamente in immersione.
Di questo romanzo in cui niente è scontato, in cui ogni dettaglio, frammento è indagato in profondità e da punti di vista inusuali. E sfumature e traiettorie che illuminano, nascondono, mostrano, dicono tutto e il contrario di tutto.
Questo romanzo che scava, che scava in profondità e scava in obliquo. Questo romanzo di cui non si riesce ad immaginare, intuire, indovinare la frase successiva.
Questo romanzo dove non c’è il giudizio, il giusto e lo sbagliato, il simpatico e l’antipatico, il bello e il brutto.
Il vero o il falso.

Di questo romanzo che dice “procurandomi per la prima volta nell’alto torace una morsa quasi letale.”

Questo romanzo che non è un esercizio di stile, ma una narrazione tenuta stretta dalla prima all’ultima pagina.
Di questo romanzo che scende nel perturbante, niente sentimenti accondiscendenti, ma suoni che stridono, bombe sganciate, sentimenti disfunzionali.
Di questo romanzo che racconta una storia, di quest’autrice che non lascia andare, che tiene le trame, che dice delle cose. Quest’autrice che sceglie chi, sceglie dove, sceglie come, sceglie quando. E sceglie i perché.
Questo romanzo che ti costringe a fissare il disordine, a contemplare lo sporco. A respirare il dolore, il malessere.
L’errore.

Di questo romanzo che è un caleidoscopio. Scrittura a struttura che scartano, spiazzano. Diverse forme, diversi linguaggi.

Di questo romanzo preciso, così preciso da risultare irrimediabilmente, meravigliosamente, drammaticamente universale.
Questo romanzo che affronta la massa distruttrice.

Di questo romanzo in cui abitano personaggi pieni, difettosi, reali.
Così difettosi che se ti volti all’improvviso li puoi vedere in piedi alle tue spalle.
Questo romanzo che è un coro, questo romanzo che corre, rallenta, cammina, si ferma. Simula.
Di questo romanzo che a tratti toglie il fiato, e fa indietreggiare di qualche millimetro.

Questo romanzo che è Jokin che si cerca sotto l’epidermide.
Desideravo vederlo, conoscerlo a tutti i costi, aprirmi un varco in direzione del mio sottosuolo e chiedergli qualcosa

Questo romanzo che è Gorane.
Io non sopporto le mescolanze perché ci sono cresciuta, nella mischia, perché nessuno mi ha insegnato come separare il sogno dalla verità…

Di questo romanzo che dice quando ti incammini per la strada sbagliata diventi come lo strascico delle spose, come i jeans a zampa di elefante, come la lingua dei cani, perché tiri su tutto, la merda, i resti del cibo e i diamanti, la luce, la notte e il mezzogiorno, ed è una cosa che non succede quando vai per la strada giusta dove ti capita solo ciò che hai scelto che ti debba capitare.

Di questo libro che ho dovuto chiudere, due volte. Perché mi ha colpito dove cedo. Questo libro che ho dovuto chiudere, due volte. Per riprendere fiato, e sbattere veloce le palpebre. E poi svuotare fino in fondo i polmoni.

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