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Lo Sciamano

Un racconto su suggestione, per Allegra. Stasera ha addosso un paio di pantaloncini slabbrati e una canottiera costellata di macchie di unto. Sugo, forse. Ma potrebbe benissimo trattarsi di olio, quello che ti cola addosso quando mangi il fritto con le mani. Spettinata, con i vestiti sporchi di unto, l’insonnia mi mordicchia le dita dei piedi.Quando spengo la luce e dico al mio corpo dormi lei arriva. Piccola, sciatta maledetta stronza insonnia.Tengo il corpo immobile, la stanza ronza, le insegne lungo la strada si sciolgono, si fondono e si infilano tra i listelli delle persiane. Passa una macchina. Un’altra, un’altra ancora. Silenzio. Un’altra ancora.E siamo alla giostra dei pensieri unitili, cavallini sbiaditi, meccanismo cigolante e musica distorta. La giostra dei progetti improrogabili e dei gesti irrisolti.Agguanto il respiro, lo stringo per la collottola. Cerco di controllarlo e guidarlo, lei mi mordicchia l’alluce. Si scosta i capelli dalla fronte, mi guarda e sorride.Ma perché mai ad un certo punto della mia vita ho smesso di farmi le canne?E da lì l’onda anomala che sbatte sul spetto, si schianta e si sfrange. Mi inonda di memoria. Tasto il comodino, prendo il telefono. Digito.Ma te lo ricordi lo sciamano?Fisso lo schermo per un po’ poi l’appoggio sul letto. Scanso il piede con un colpetto, l’insonnia mi sta massacrando un mignolo, l’illuminazione dello schermo di affievolisce fino a scomparire. Passa una macchina, poi un’altra ancora. Asfalto umido.Il materasso vibra, la luce dello schermo filtra attraverso il lenzuolo.Sono le quattro del mattinoSì, ma te lo ricordi o no?No, non me lo ricordo lo sciamano. Dormi.Insonnia.Ma perché hai smesso di farti le canne?Eh. Per questo volevo sapere se ti ricordavi dello sciamano.Seee vabbè buonanotte.Buio. La stanza ronza. Neon liquefatti che filtrano attraverso i listelli delle persiane.Una macchina, un’altra. Un’altra ancora. Silenzio.Mi arrendo, immobile. Aspetto che l’insonnia si stufi di mordicchiarmi le dita dei piedi. * Chissà se il treno fa ancora le stesse fermate. Il paesaggio fuori dal finestrino è lo stesso, o almeno mi sembra. Non riesco a definire i cambiamenti, a sovrapporre per immagini lo scorrere del tempo trascorso. Ho fatto questo tragitto l’ultima volta vent’anni fa, seduta nella macchina dei miei genitori tra uno scatolone e l’altro. Andavamo a vivere in città, ed io adolescente catapultata per direttissima in un’altra dimensione. Il treno è cambiato, questo sì. Non è la stessa scalcinata littorina, ghiacciata d’inverno e bollente d’estate che ci trascinava ammassati dal paese a quella che chiamavano, con un mezzo sorriso, civiltà. E viceversa. Zaini, scarpe da ginnastica, e diana rosse morbide schiacciate nella tasca posteriore dei jeans.Se chiudo gli occhi è come un’immensa lunghissima infinita diapositiva.Vibro.A che punto sei, qui stiamo aspettando tutti te.Merda.Di a mamma che stanotte non ho dormito, mi sono appena svegliata. La chiamo più tardi.Cosa stai combinando?Sono in treno.In treno?In treno. Sto tornando al paese.Ma sei scema?Vado a trovare lo sciamano.Gesù cristo devi trovare te, al più presto.Preferisco lo sciamano.Ma cos’è questa storia dello sciamano (mamma non l’ha presa bene, dice che ti rifiuti di prendere la melatonina e che queste sono le conseguenze).Lo sciamano, quello che viveva appena fuori dal bosco. Dai. Altro un metro e un sospiro, nodoso come un albero.Quello sciamano?Quello.Sei scema. Ci sono modi meno complicati per trovare qualcosa da fumare.Torno presto.E ci mancherebbe. Non fare cazzate, torna tutta intera. Baciuz.Ok. Baciuz.Il paesaggio forse è lo stesso, o forse no, il treno sicuramente è diverso. Io sono sempre quella a cui viene detto di tornare a casa tutta intera e di non fare cazzate.Sono quella che non ha finito l’Università e che ancora dice molti no e pochi sì. Sono quella che soffre d’insonnia e che a trentasette stridenti anni ancora preferisce i lavori a tempo determinato.Io sono quella che si ricorda dello sciamano.L’onda anomala che sbatte sul spetto, si schianta e si sfrange. Mi inonda di memoria. * C’era il sole. Avete presente il sole quando è perfetto? Così perfetto che se hai sedici anni e andare a scuola non rientra nelle tue priorità lui ti parla e ti accorda senza troppi discorsi il permesso di non andarci, a scuola?Quel sole lì. Perfetto.Arrivata alla discesa per la stazione proseguo dritta. Perché il sole è perfetto, perché la scuola non rientra nelle mie priorità, perché ho un morso alla bocca dello stomaco che mi dice costantemente di andare. Andare, andare, andare. Ho un morso alla bocca dello stomaco che mi fa sentire scomoda, febbricitante. Ho un morso allo bocca dello stomaco che mi fa dire no, questo no questo no, questo no, io devo andare, andare, andare. Lasciatemi stare. E c’è un sole perfetto.Attraverso il paese, passo accanto alla fontana con le rane di pietra, esco dal paese.Nel bosco il sole perfetto si sparpaglia in infinite schegge ballerine, luminose chiazze vibranti di luce. Le foglie di castagno sotto ai piedi, e colossi che si stagliano, si annodano, fino alle fronde, i rami, le foglie, ai loro piedi massi rivestiti di muschio.Cammino, mi spingo un passo oltre, sempre un passo oltre.Il sole è perfetto, io sono perfetta. È un movimento minimo, un fruscio tra le felci.“Oh, Sciamano. Non è presto per i funghi?”“Oh, cara. Macché funghi, ho perso un pezzo di fumo.”“T’aiuto.”“Brava nini. Dovrebbe essere qui, proprio qui.”Cerchiamo in silenzio nel silenzio.Anche se silenzio, nel bosco, non vuol dire nulla. Scricchiolii, fruscii. Tonfi sordi. Nel bosco, in realtà, silenzio e immobilità non vogliono dire nulla. Steli che oscillano come metronomi, fronde scosse da battiti d’ali.Siamo solo io e lo Sciamano che ci muoviamo in silenzio, scansiamo foglie umide con la punta delle scarpe e ci accovacciamo naso a terra e sguardo fisso. Facciamo, come minimo, tra i cinquantacinque e i sessanta anni in due, difficile definire con certezza l’età dello Sciamano, eppure, penso mentre scanso un rametto secco, la sensazione è che potremmo iniziare entrambi a fare le capriole dei bambini da un momento all’altro. Così, per gioco.È facile stare in silenzio con lui, averlo accanto e stargli accanto senza avere niente da dire e non sentire la stretta dell’imbarazzo nelle articolazioni. “No, via, ‘un c’è. Lo vuoi un

frammento
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Margherita, frammento #5 #6 #7

Frammento #1 #2 #3 #4 Masticata. In una giostra logora. Vertigini e conati. Margherita sputata. Esausta. Margherita allo specchio. Margherita senza voce. Contratta, trema. Senza fiato. Margherita immobile. Il cielo diventa grigio e si alza il vento. Gli alberi oscillano, i rami si sparpagliano. Margherita si chiude. Le nuvole si addensano, la luce cala e preme sui vetri. Margherita si inabissa, il cielo si abbassa, il mondo si restringe, le ombre si sfilacciano. Margherita si sfalda, la pioggia dal cielo. Lo scroscio, il lampo, il rombo.  La pioggia dal cielo, si schianta sui tetti, sull’asfalto, sugli alberi, sui vetri e poi cola. Margherita ferita. Ferita aperta che non sanguina. Margherita si stringe. Non parla, non piange, non grida. La pioggia dal cielo, nel cielo grigio, cade precipita si schianta. Margherita trema. Muta. Divelta, inchiodata, isolata. Margherita scivola, vorrebbe fermarsi, fermare le cose. Toccare le parole. Arginare. Proteggere, difendere. Margherita inciampa. Margherita cade. Margherita ha freddo. Margherita, precipita si schianta cola. Lo scroscio, il lampo, il rombo. Margherita si spacca, pietrificata. Il cuore incagliato. La pioggia, il vento, l’asfalto. Le mani gelate. I sensi ottusi. L’abisso osceno dove tutto cade, precipita, si schianta. Si rimescola, morde, ribolle, si infiltra. La mandibola schiocca. Uno schianto secco. Il cielo si schianta. La pioggia si schianta. Non si ferma, si rovescia. Non c’è tregua. Mar ghe ri ta Mar gheri ta Ma r gh eri ta Mar ghe ri ta Finché saprà ricordare e pronunciare il suo nome. Margherita risale in superficie. * Margherita svuota i polmoni poi prende aria a piccoli sorsi. Margherita è il suo nome.  Il suo corpo non è vuoto. Allora Margherita pone il suo corpo al centro.  Pone il suo corpo al centro del conflitto.  E Margherita sente. Tutto. Di nuovo.Continuamente. Margherita sente gli occhi, tutti intorno. Negli occhi Margherita sente. Il dolore. La frustrazione. La disperazione. Margherita sente. La paura. Gli affamati tentativi di sopravvivenza. L’instancabile ricerca. I corpi vibrare di piccoli movimenti ripetuti. E sente i corpi sbattuti, i corpi perduti. I corpi reclusi. I corpi negati. Margherita sente le parole senza voce. Margherita sente l’asfalto sotto la suola delle scarpe. Sente gli alberi respirare. Margherita sente le risate lanciate oltre l’ostacolo. Margherite sente i passi. Sente gli sforzi, le trincee. I corpi come barricate. Margherita sente il profumo dell’ostinazione. Margherita sente le fughe senza direzione. Margherita sente i polsi stretti. Margherita sente l’affanno della corsa. La sconfitta. Sente i pesci nuotare. Le mani intorno alla corda. Sente le chiavi nel buio. Margherita sente il peso. Il fumo nei polmoni. Le lacrime che si mischiano con la polvere e con il sangue. L’angoscia di un quotidiano ripetuto all’infinito. Margherita sente i piedi nudi nella sabbia. Margherita sente la rabbia. Sente l’odio. Sente l’amore. Margherita cerca, una genesi plausibile di se stessa. Un filo da annodare. Margherita cerca Margherita. Un passo che sia fermo, un gesto che non sia di resa. Margherita cerca. L’anomalia, l’interferenza. L’epifania transitoria. Margherita cerca il difetto, l’indicibile. Il salto, il vuoto. L’inespresso. Il non detto. Margherita cerca l’errore, lo sbaglio. Margherita cerca, il reale. Margherita cerca i margini. I cuori oltre l’ostacolo. Margherita cerca i corpi sopravvissuti. Cerca i corpi che si sono salvati. Margherita cerca parole nuove. Corpi non allineati. Altri corpi al centro del conflitto. Parole grandi. Parole capaci. Margherita cerca la sconnessione, la visione altra, l’asincronia. L’interferenza armonica. Il capovolto. Il capoverso. Margherita cerca lo squarcio, la fessura. Margherita scava, annusa. Margherita ascolta. Margherita assaggia. Margherita si ferisce. Margherita ferisce. Margherita grida. Margherita insiste. Margherita cade. Rovina. Margherita sprofonda.  Margherita si aggrappa, scavalca. Margherita si riempie i polmoni, fino in fondo. Margherita svuota i polmoni, fino in fondo. Margherita si riempie i polmoni. Fino in fondo. Margherita svuota i polmoni. Fino in fondo. * Margherita sa che il suo corpo non è un corpo vuoto. Margherita sa, che Margherita è il suo nome. E di tutte le altre. Se chiude gli occhi. Margherita sa. Le sente. Continuamente.

margherita
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Margherita, frammento #4

Frammento #1, frammento #2, frammento #3 Riempie d’aria i polmoni, la gabbia toracica s’allarga. Margherita si immerge.  Ha indossato abiti comodi e sta. Seduta tra persone che conosce in ogni più intimo dettaglio. Sta, procede per imitazione. Ha memoria della leggerezza. Sta. Seduta in macchina, lo sportello aperto un piede sul cruscotto e un piede a terra. Procede per imitazione. Imita l’esistere tra persone che conosce in ogni più intimo dettaglio. Margherita esiste nell’imitazione. Seduta in macchina, lo sportello aperto un piede sul cruscotto e un piede a terra, è arrivata la primavera e la sera si può andare al mare, parcheggiare le macchine vicino al canneto e lasciare lo stereo acceso, le portiere aperte e i finestrini abbassati. Tra corpi e voci. Sorride, parla. Sta nei gesti, negli sguardi. Immersa nel momento. Procede per imitazione. Ha memoria della leggerezza, di come si ascolta, di come si sorride. Sta. In apnea. Ma vorrebbe. Ma non sa come dirlo.Di questo non ha memoriaDi questo, il suo corpo non ha esperienza. Le portiere aperte e i finestrini abbassati. Lo stereo acceso. Non so come dirlo. Che mi sfiorate in superficie. Che riconosco tutto di voi, ma non vi sento. Le emozioni galleggiano nella distanza, l’eco arriva attraverso il ricordo.  IoNonViSento IoNonSentoNiente Vorrei parlarvi del mio corpo vuoto. Dove prima c’era tutto ora non c’è niente. Fosse così semplice. ma non sento nienteevorrei, dirvi quanto sono difficili questi passi ciechi, e profonda questa cavità, e questi momenti in cui mi sfugge il senso per un soffio. Vorrei dirvi che mi dispiace ma che non vi sento, che navighiamo a vista e che ci sfugge sempre il senso per un soffio, lo soffiamo via, il senso, quasi ci facesse paura, più paura di questo non senso artificiale, vorrei toccarvi, colpirvi, toccatemi, colpitemi, facciamoci male, diciamoci le cose, chiamiamo le cose con il loro nome, non siamo innocenti, non siamo dalla parte del giusto, navighiamo a vista, e lo soffiamo via il senso, con un soffio. Un soffio per ogni parola taciuta, un soffio per ogni conflitto ignorato, un soffio per ogni gesto addolcito, un soffio per ogni bugia, un soffio per ogni ricostruzione accogliente accomodante. Vorrei dirvi che il senso è un altro, ma lo soffio via il senso. Lo soffio via. Un passo indietro. Due passi indietro. Vorrei dirvi che non riesco ad essere nel momento. Vorrei dirvi che non riesco ad isolare il momento. Che il momento mi scivola dalle mani, non riesco. Che posso solo immergermi in apnea. Che voglio tutto o niente, che non li voglio questi momenti strappati al tempo. Voglio tutto. Voglio essere, voglio avere, voglio esistere. Esistere oggi, esistere domani. Esistere. Voglio tutto. Ma.Margherita sta. In apena. Nella birra bevuta, nelle sigarette fumate. Nella testa appoggiata su una spalla, nelle mani sfiorate. Nella musica, nel vento, nel mare. Nelle promesse. Nell’imitazione della leggerezza. In apnea.

pensati libera
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Margherita, frammento #3

qui il frammento #1 e il frammento #2 ‘pensati libera’ Così c’è scritto sul muro ocra, una scritta grande fatta con la vernice nera e un pennello. E un ramo disegnato, un ramo con delle foglie, sotto la scritta. Stilizzato, didascalico, quasi un vezzo superfluo, come un desiderio, una decorazione che non lasciasse sole le parole, un segno per sottolineare il pensiero. ‘pensati libera’ Così c’è scritto sul muro ocra del giardino botanico. E Margherita si ferma. Si ferma e si siede sul marciapiede di fronte, a volte si siede tra una macchina e l’altra ferme parcheggiate. Si siede e legge. ‘pensati libera’  pensatemi libera pensatevi libere pensiamoci libere lasciateci libere pensiamoci pensiamoci  Margherita si ferma, si siede, a volte si siede tra una macchina e l’altra ferme parcheggiate. A volte si accende una sigaretta, ha pensato di smettere. Un giorno. Si ferma e si siede. Fuma e legge. ‘pensati libera’ e pensa. Pensa e si chiede. Libera da cosa? Libera da me stessa? Libera dall’inadeguatezza, da questa distanza? Margherita si ferma, si siede e fuma. Se c’è il sole chiude gli occhi e pensa ad occhi chiusi con il viso rivolto verso il sole e cerca. Cerca, ad occhi chiusi con con il viso rivolto verso il sole, di non sentirsi sola. Libera dal senso di colpa? Libera da questo inespresso che si espande nella cavità buia? Libera da un’immagine di me che non corrisponde a nessuna immagine intorno a me?  Margherita si ferma, si siede e fuma. Se c’è il sole chiude gli occhi e pensa ad occhi chiusi con il viso rivolto verso il sole e cerca. Cerca, ad occhi chiusi con il viso rivolto verso il sole, di non sentirsi sola. Se le viene fame, dalla borsa tira fuori qualcosa da mangiare. Mangia, al sole. E pensa. Seduta dall’altra parte della strada, di fronte al muro giallo ocra dell’orto botanico. E pensa. E si pensa. ‘pensati libera’ Nel perenne stato di non aderenza. In un eterno fuori posto, eternamente fuori luogo. Non poter essere nel momento, non poter essere al di là. Attraversata da correnti senza nome. Irrisolta vagante. Quasi aliena. Trasparente. Alienata. Scomoda. Una domanda ad ogni passo anche solo immaginato. Una domanda per ogni notte, una domanda per ogni risveglio. Pelle e sangue, ossa e nervi. Assemblata. In assenza di direzione, in assenza di traiettoria passata presente futura. Una frattura in cui inserirsi, un luogo in cui stare. Silenzio dove ricominciare. Nel perenne stato di non aderenza, in un reale che non può agire, assorbire, modificare. Sconosciuta. Eretta mai in modo corretto. Corretta dall’esterno. Mobile ma immutabile. Inadeguata secondo parametri indotti. Dicotomici. Impedita nel poter pronunciare io sono. Spostata, esaltata, eliminata, usata, discussa, esaminata, giudicata, derisa, annullata. Negata. Relegata in assenza di azione, ammessa solo nei gesti innocui. Costretta a rivendicare, ad urlare. Privata di un luogo che sia luogo accessibile. Non pronunciata, non verbalizzata. Privata di un linguaggio che sia riconosciuto. Marcia, sana, pulita, infetta. Oggetto identificato. Estromessa dal contesto. Nel perenne stato di non aderenza. Impossibilitata a pronunciare le parole semplici e indispensabili io sono. Una voce in un corpo scorretto, corrotto, dedotto, incantato, incatenato in un non luogo. Un corpo detto, stabilito. Destino, destinato. Tradotto. Cristallizzato nella differenza. Cristallizzato. Costretta a rivendicare, costretta ad urlare. Costretta a camminare su una strada tracciata solo con il prossimo passo, cercando nei passi passati un percorso da potersi definire suo. In attacco è in difesa, posizionamenti astratti su presupposti estranei. Io sono. Io sono niente se non quello che faccio. Io sono quella che sono. Ma non sono quello che dovrei, stando a quello che dicono. Ogni giorno, dovrei essere qualcosa che non sono, ogni giorno potrei essere qualcosa che non voglio. Ogni giorno sono quella che sono senza sapere cosa sono. Ogni giorno sono qualcosa che non so conoscere. Doppia, tripla. Accompagnata, accudita, sgridata, contemplata. In uno stato di vita apparente, il fare oltre l’essenza stabilita non ha un luogo, non ha parole per essere detto. Concepita solo nell’assenza, nell’essere altro da ciò che è come unico ed univoco. Esistenze ripetute, all’infinito. Io sono. Io sono. Mar ghe ri ta. Ma rghe rita Margherita. Sono un nome, un fiore, un nodo, un dolce, una pizza, una canzone, un lago, un’isola, una cima, una città, un satellite, una nave.

diritti d'autrice
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Margherita, frammento #2

Ma r gh e ri ta Scompone il suo nome tra le labbra. Mar ghe ri taMar gheri taMa r gh eri ta Fa rimbalzare le lettere sulla lingua chiusa al buio nella bocca. E intanto muove le dita dei piedi tra materasso e piumone, la stanza sospesa, non è notte non è giorno.Margherita sta. Sta nel letto, e snocciola le lettere del suo nome. Margherita non vuole perdere il suo nome. Margherita sa che finché si ricorderà il suo nome. Finché saprà ricordare e pronunciare il suo nome. Finché. Saprà il suo nome. Anche se è il nome di un corpo vuoto.Di un corpo che quindi non sente.Sdraiata su un fianco, non è notte non è giorno. Margherita sa, dove si trova. Riconosce la stanza come la sua stanza, nella sua casa. Riconosce come sua la scrivania sotto la finestra e il fico fuori dalla finestra, radicato nel giardino dell’appartamento al piano di sotto. L’armadio, i vestiti. I libri. Le foto. Sa, che sua madre e suo padre dormono nella loro stanza in fondo al corridoio. Che il corridoio è lungo e che in fondo al corridoio da un lato, davanti alla camera dei suoi genitori, c’è il bagno, in fondo dall’altro lato c’è il salotto.  M a r gh e r i t a M ar ghe r ita Margherita respira, sdraiata su un fianco sotto al piumone. Si tiene vicino a tutto quello che ancora sa. Tutto quello che ancora sa senza bisogno di pensare, decidere, capire, scegliere. Margherita affida ad un elenco mnemonico e dicibile la costruzione della sua cartina interiore. Margherita affida all’elenco puro ed inequivocabile la costruzione della sua direzione emotiva. Riduce distanze, delimita confini.Margherita sa. Margherita sa il suo nome e sa dove si trova. Riconosce le cose che la circondano. Conosce le strade da percorrere per andare e tornare. Le strade da percorrere per raggiungere e lasciare luoghi e persone.  Margherita respira, ripete il suo nome e ripete tutte le cose che sa con certezza. Ripete l’elenco di tutte le cose che esistono perché le può toccare.   Tutto il resto galleggia.Al di là delle distanze, dei confini. qui, il frammento #1

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Margherita, frammento #1

Prima di Rita, Ghita, Altra e Marghe. Intorno, e dopo. Margherita, in frammenti. Per poter lavorare devo far uscire dalla scatola quello che è stato scritto. Margherita, frammento #1 Margherita è un nome. Si volta verso la finestra, sul muro della casa al di là della strada un passerotto si posa e becca l’intonaco, vibra di piccoli movimenti ripetuti. Poi accade qualcosa, qualcosa che non vede e non sente, ma volano decine di passerotti, anche quello sul muro. Volano via. Margherita rimane a guardare il muro della casa al di là della strada. Vuoto. Margherita non si immagina di volare via con i passerotti. Non vuole sapere cosa non ha visto e cosa non ha sentito. Margherita ha una mano, piccola, bianca infilata tra le cosce accavallate. L’altra è un pugno, piccolo, bianco appoggiato sul tavolo. Nel pugno c’è una penna.Margherita è un nome, è il suo nome. È il suo nome e quello di tante altre Margherita. Che camminano, amano, mangiano, dormono, lavorano, odiano, ridono, escono. Tante altre Margherita, da qualche parte. Tante Margherita, che esistono. Avanzano. Corrono. Arretrano. Ballano. Tante Margherita. Che si provano vestiti, che annaspano. Che cercano. Che ascoltano, chiudono gli occhi, studiano, lavano i piatti. Si voltano, sbagliano. Camminano, toccano. Aspettano. Progettano, scappano. Restano. Cadono. Si nascondono. Tornano. Chiedono.Questa Margherita allenta il pugno. Nel pungo c’era una penna. La penna fa un piccolo rumore quando incontra il tavolo, fa un mezzo giro su se stessa e poi si ferma. Questa Margherita stringe i muscoli intorno agli agli occhi, le si formano due pieghe sulla fronte. Sigilla le palpebre e fa sparire tutte le altre Margherita. Quando si volta, il passerotto, un passerotto, torna e si posa sul muro a beccare l’intonaco, vibra di piccoli movimenti ripetuti. Margherita è un nome. È il suo nome. Ma Margherita sa che un nome senza corpo è solo qualcosa che puoi pronunciare senza che accada niente. Margherita. È un nome senza corpo.  E il corpo è.Il corpo è tutto. Il corpo sente, il corpo incassa. Il corpo vive. Il corpo si riempie. Il corpo ricorda. Il corpo non mente. Il corpo percepisce, dolore. Piacere. La fame e la sete. Il corpo reagisce. Il corpo accoglie. Il corpo si chiude, il corpo non dimentica. Il corpo traduce il mondo. Il mondo colpisce il corpo, il mondo accarezza il corpo. Il corpo risponde. Il corpo sceglie. Il corpo dice. Il corpo afferma. Il corpo trema, il corpo resta. Il corpo aspetta, ascolta. Il corpo tocca, riconosce, scopre. Il corpo esplora, il corpo conosce. Il corpo agisce. Il corpo sta. Margherita fissa i libri aperti, il quaderno aperto.  Il corpo è. Il corpo è tutto. Margherita sfila la mano dalle cosce accavallate, con tutte e due le mani si sposta i capelli lunghi, lisci, neri dietro alle orecchie. Con la mano che prima stava infilata in mezzo alle cosce accavallate, che sono sempre accavallate, sfoglia un pagina, l’altra mano riprende la penna. Margherita legge, costruisce un pensiero intorno a quello che legge, riporta il pensiero sulla pagina del quaderno aperto. Margherita studia.Margherita studia mentre il passerotto becca il muro della casa al di là della strada e vibra di piccoli movimenti ripetuti. Il corpo di Margherita, adesso, è vuoto. Un corpo vuoto non è.Un corpo vuoto non è niente. Il corpo di Margherita non è.E Margherita è solo un nome.Il suo nome. Ma un nome senza corpo è solo qualcosa che puoi pronunciare.Senza che accada niente. Margherita.

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Marghe – un racconto

Come Rita, come Ghita, come Altra. Vuoi passarti il palmo della mano sulla nuca sudata. Sollevare i riccioli rossi sudati, appiccicati sul collo sudato. E assaporare il sollievo. Ma non hai mani libere. Il sacchetto della spesa pesa, pesa nella mano destra. Non troppo, ma pesa. E la mano sinistra stringe il cappio di plastica che ciondola dal soffitto del tram. Fa caldo. E non hai mani libere. È una sensazione semplice, di semplice disagio temporaneo. Sotto pelle, si intromette. Di questo si tratta. Sensazioni che attraversano il corpo appena sotto la superficie. Nel caldo, nelle voci, nei corpi. Tutto intorno. Il tram che frena secco, si sposta il baricentro e perdi l’equilibrio. E lo ritrovi. Instabile. La spesa i finestrini chiusi il traffico le macchine i palazzi i negozi le persone sedute le persone in piedi. Si intromettono. Sotto pelle, a volte. C’è qualcosa, appena sotto. C’è qualcosa, quasi sempre. Qualcosa per cui a volte, al mattino, ancora ancorata al sonno, disarticolata. Come aver il corpo sparpagliato sotto le lenzuola. Conti le fermate. Le percorri e le superi, una dopo l’altra e sei a casa, hai fatto la doccia, stai preparando la cena. Sei al sicuro. Ma adesso è adesso, con i vestiti addosso e i corpi intorno, i respiri le parole le vite gli occhi i piedi nei sandali la borsa di traverso la tracolla di traverso i semafori rossi l’equilibrio perduto ritrovato. Instabile. Interferenze.Di questo si tratta.Interferenze. Si riparte, adesso e di nuovo. Al di là del vetro una ragazza in bicicletta attraversa il traffico. Sta cantando. Non la senti, ma la vedi, è evidente. Sorride e canta. La vedi, la guardi, la segui con lo sguardo. Pedala senza mani, in perfetto equilibrio. Il tram si allontana, la ragazza si allontana, fila via veloce oltre le macchine. Ti resta nello sguardo. Il tram si ferma, delle persone scendono. Spazio. Appoggi il sacchetto della spesa per terra.Ti passi il palmo sulla nuca sudata e sollevi i riccioli rossi sudati appiccicati sul collo sudato. È una sensazione semplice, di semplice piacere temporaneo. Si infila sotto pelle. Di questo si tratta. In questo tempo che passa e che scivola scivola e scivola e si stende si allarga si gonfia in questo tempo qui e ora. Di questo si tratta. Sensazioni. Interferente. Continuamente. Qui e ora. E qui e ora, dissolviti. Quante volte l’hai pensato. Quante volte ti è sembrato di sentirtelo dire? Imperativo. Dissolviti, ma senza fare rumore, fatti aria. Né troppo fredda né troppo calda. Evapora, fatti soffio. Dissolviti. Ma come se non fossi, mai stata. Mai stata qui né altrove. Mai esistita. Mai esistita in questo tempo che passa e che scivola scivola e scivola e si stende si allarga si gonfia. Dissolviti. Imperativo o desiderio. Comandamento. Attraversata da questa correnti senza nome, da queste parole sconosciute, incagliate. Disarticolate. Che si formano e si sformano, slittano e si insediano negli angoli bui, sull’autobus, mentre ti fai la doccia e poi ti guardi nello specchio, parli al telefono, cerchi il sonno sotto le coperte. Fatti aria, fumo o vapore. Senza lasciare alcuna traccia di te. Impronta. Vuoto. Assenza o differenza. Indifferenza. Come se non fossi, mai stata. Mai stata qui né altrove. Mai esistita. Incomprensibile, impronunciabile. Marghe, dissolviti.Interferenze imprevedibili.Di questo si tratta.Imperativi.Interferenzedisarmonichearmoniche.Desideri.Inclinazioni.Pieghe.Slittamenti.Contraddizioni.Asimmetrie.Esitazioni.Piani inclinati.Cacofonie. Conti le fermate, pensi ripassi ripensi le cose che devi fare. Perché di questo si tratta. Quello che devi fare. Ma c’è qualcosa, e ticchetta. Come il tempo, ma non è il tempo. Perché il tempo non ticchetta. Gli orologi ticchettano, ticchettano così forte che non riesci a dormire. Come i pensieri, che a volte ticchettano. Ticchettano così forte che non riesci a dormire. I pensieri. Ticchettano. Quando cerchi il sonno sotto le coperte.Incomprensibile, impronunciabile.Ma il tempo no. Il tempo non ticchetta, il tempo scivola, e scivola e scivola e scivola e tu ci scivoli dentro. Il tram ci scivola dentro. La vita ci scivola dentro.Senza arrivare mai.All’infinito.All’infinito attraversata da correnti a cui non sai dare un nome, da queste parole che non sai riconoscere.In questo tempo e negli altri, in questo luogo e negli altri.All’infinito.Di questo si tratta? Scivolare.Imperativi.Interferenzedisarmonichearmoniche.Desideri.Inclinazioni.Pieghe.Slittamenti.Contraddizioni.Asimmetrie.Esitazioni.Piani inclinati.Cacofonie. Se mi levassi di dosso uno strato dopo l’altro cosa resterebbe di me? Lascia stare. Non ci pensare. Non dubitare. Passati ancora una volta il palmo sulla nuca sudata, spostati i riccioli rossi sudati appiccicati sul collo sudato. Osserva il sole, il sole che batte. Mentre il tram vibra e freme al semaforo rosso. Il sole che batte sull’albero. Osserva il sole che batte sulle foglie. Foglie verdi che fremono. Foglie verdi, verde scuro, verde che sembra grigio, grigio che sembra argento, verde chiaro, verde quasi bianco, bianco. Trasparente. Fremono. Brillano. Danzano. Marghe, sorridi. Non troppo, né troppo poco. Sorridi, lascia andare. Lascia andare, sorridi. Marghe, non scavare, non domandare, non indagare. Non dubitare. Lascia che tutto sia come deve essere, e siedi al tuo posto. Marghe, sorridi. Sei quasi arrivata. Non dubitare. Dissolviti. Imperativo. Desiderio, trascurabile. Angoli bui. Parole insediate. Sibilano, insinuano instillano sobillano. Verità, e porte e abissi e specchi. E bastasse passarsi il palmo sulla nuca sudata per dissolversi. Farsi vapore o fumo o aria. Asincronie. Correnti senza nome. Incagliata, disarticolata. Bastasse passarsi il palmo sulla nuca sudata, e scostarsi i riccioli rossi sudati appiccicati sul collo sudato per non perdersi, e non essere sempre incerta nel passo, nel gesto, nella decisione. Bastasse passarsi il palmo sulla nuca sudata per non sentirsi. Per non sentirsi sempre. Qualcosa che sta negli angoli bui insieme alle parole insediate. Bastasse passarsi il palmo sulla nuca sudata, per non sentirsi trascinata. Incapace. inadeguata. Guidata. Indirizzata. O dissolversi. Dissolvere le interferenze. Le cacofonie. Questo senso di perdita. Questo senso di incompiuto. Irrisolta. Sul tram che riparte, ondeggia, rallenta, singhiozza. Fuori c’è il sole. Hai fatto la spesa. Tornerai a casa e preparerai la cena, studierai ancora un po’ per il colloquio di domani. Chiamerai i tuoi genitori. Di questo si tratta. Fare le cose che devono essere fatte. Questo è quello che sai, questo è quello

un racconto
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Altra – un racconto

Questo testo è lo specchio di Ghita. Come Ghita e Rita fa parte del famoso testo a cui sto lavorando. — So, in un secondo, che è di vitale importanza che il mio sguardo resti nel suo sguardo. Non sbatto le palpebre, non cambio espressione. Sto nel suo sguardo, ci precipito dentro. So, in un secondo, che quello che devo fare è restare. Qui e ora, nel suo sguardo. Resisto all’impulso, di uscire, precipitarmi sulle scale, precipitarmi in strada, sfondare la porta, trascinarla fuori. I muscoli si fanno cemento per trattenere lo scatto. Resto. In primo piano mentre lo sfondo si sfalda, sto. Nel suo sguardo, che mi si aggrappa al petto, mi scivola fino alla pianta dei piedi, radicati al pavimento. So, che all’improvviso il suo viso si contrare. So, che volta di scatto la testa, che chiude la tenda. So, che mi lascio andare sul pavimento, che torna lo sfondo mentre il mio corpo precipita a terra, il cemento si fa segatura. So, che rimango sfatta sul pavimento. Molle, sfinita. C’è una parola che possa descrivere uno sguardo che non è paura e che non è angoscia, che non è resa e che non è assenza, che non è dolore e non è vergogna, che non è rabbia e non è odio ma è tutte queste cose insieme? E c’è una parola che possa descrivere il restare in uno sguardo che è tutte queste cose insieme? Mi alzo, apro la finestra. Come quella sera. Fa caldo, anche stasera come un anno fa. Faccio entrare l’aria fresca. Come quella sera. Faceva caldo e volevo aria fresca, su di me sulla casa sudata. Torno sdraiata su letto, le mani intorno all’ombelico che si alza e si abbassa. Ci sono storie che devono essere raccontate. Chiudo gli occhi. Esistono quelle parole? Apro gli occhi, fisso il soffitto e guardo oltre. Narrare uno sguardo senza poterlo nominare, narrare lo stare in quello sguardo senza poterlo nominare. So, che quando riesco ad alzarmi dal pavimento il tempo è scivolato sotto la porta della mia camera senza fare rumore. Vado in bagno, metto i polsi sotto all’acqua fredda. Non mi guardo nello specchio, non ho spazio per guardarmi, parlarmi e non riconoscermi. So che vado a letto, affronto le lenzuola in uno stato di disordine che sbatte contro le tempie. Mi addormento. So che quando mi sveglio la mattina dopo sono dentro al suo sguardo, sono dentro al disordine. Mi alzo, vado alla finestra, lei non c’è. So che incrocio le braccia, che scuoto la testa per mescolare i pensieri e gettarli sul tavolo in una nuova combinazione. E poi un’altra, poi un’altra ancora. Il cellulare squilla sul comodino, mi muovo. È mia madre, allora rispondo. Ciao mamma. Ciao tesoro. Silenzio. Non hai ancora bevuto il caffè? No. Allora ti richiamo dopo, o magari ti chiama papà. Va bene. Ciao. Ciao. E poi sono di nuovo alla finestra, e lei non c’è. I muscoli si fanno nuovamente cemento. Resisto all’impulso. Scuoto la testa. Una volta, due volte, un’altra volta. Precipito in quello che ho visto. Ma vedere non è il verbo giusto. Chiudo gli occhi. So, che devo muovermi piano. Sdraiata sul letto, intreccio le dita delle mani. Guardo ancora oltre il soffitto. Non credo che esistano quelle parole. Né l’una, né l’altra. Mi ricordo tutto, però, in ogni più piccolo è trascurabile dettaglio. Per questo, forse, devo raccontare questa storia. In ogni suo più piccolo e trascurabile dettaglio. Partendo da quello sguardo. Dal precipitare in quello sguardo. Anche se non so come si dice né l’uno né l’altro. Perché so che non sarò mai più come ero prima. E forse anche per questo devo raccontare questa storia. Perché ci sono storie che devono essere raccontate, in un modo o nell’altro. E questa è una di quelle. Tutto quello che è successo, tutto quello che ci è successo. Come due pesci in un acquario, ognuna dietro alla sua finestra.Il suo sguardo, io che ci precipito dentro. E che scelgo. Io che so senza sapere come. Io che so, che è di vitale importanza muoversi piano. Io, che l’ho vista, un’ombra, distrattamente, perifericamente l’ho visto entrare e sparire nel portone un attimo prima. Io, che scelgo. So che devo muovermi piano. Ho portato la poltrona dal salotto alla mia camera dal letto. L’ho messa vicino alla finestra, insieme al comodino. Ho chiamato in ufficio. Mi prendo qualche giorno di ferie. Tutto bene? Sì, ho delle urgenze familiari da gestire. Se abbiamo bisogno posso farti fare delle cose da casa? Certo. Grazie. Ciao. Ciao. Poi mi siedo. Appoggio la testa contro la poltrona, sento il mio corpo. Aspetto. Mi lego i capelli. Mi alzo, mi faccio un caffè. Leggo un libro. L’ultima volta che alzo la testa e guardo fuori dalla finestra convinta di non vederla, come tutte le altre volte, lei è lì. Mi alzo, la guardo. Mi guarda. Bevo un sorso di caffè. Ormai è freddo. Quasi non respiro. Piano. Inclino la testa, leggermente. Anche lei lo fa. Sorrido, piano. Anche lei sorride, sospesa. Incerta. Il viso immerso in un mare infinito di espressioni interrotte. So, che devo muovermi piano. Muovo le braccia, le mani. Apri la finestra. Scuote la testa. Sorrido. Non importa. Mi dispiace. Non importa. Possiamo parlare? No. Resto qui? Sì. Così? Sì. Tutto il suo corpo mi investe, mi si schianta addosso. L’indicibile peso di un corpo intrappolato. Pelle, ossa, sangue. Uno schianto. Precipito. Nell’urgenza, nella totalità. Senza un inizio e senza una fine. Tutto il suo corpo parla. E quello che dice è un fracasso assordante. Un battere e un pulsare, ripetutamente. Resto. Lo posso sopportare. È lei, non sono io. Resto. Sciolgo le dita delle mani intrecciate. Mi guardo le dita dei piedi. Nudi appoggiati sulle lenzuola. Ascoltare un simile fracasso muta il tuo essere in punti in cui non credevi si potesse accedere. Ascoltare un simile fracasso riscrive le certezze e le illusioni. Riscrive il senso profondo di quello che pensi di sapere. Un simile fracasso

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Ghita – un racconto

Anche Ghita, come Rita, fa parte del testo a cui sto lavorando da un po’. Intanto. Ghita – un racconto Ghita si guarda. Il volto riflesso.Ghita si fissa, il volto riflesso nel vetro. Sa che se lo facesse abbastanza a lungo di lei, nel vetro, non rimarrebbe niente. Solo la casa al di là della strada, con la persiana sghemba della finestra al primo piano.Ghita si fissa, inclina la testa. Inclina la testa e appoggia il palmo della mano sul vetro.Accanto al volto riflesso, sotto la persiana sghemba. Ma non basta. Questo non basta. Vederla adesso, così non basta.C’è una cosa che dobbiamo provare a sentire. Per capire. No. Per provare anche solo ad immaginare. Rarefatta, senza contorni, non dico capire, no, ma immaginare sì, anche se rarefatto e senza contorni. Quello che dobbiamo provare a sentire è il quotidiano. Che si ripete.Sentire i giorni, che si fanno uno dentro l’altro, si sfanno. Uno dentro l’altro. Pensare i giorni, i mesi, gli anni. E i giorni, tutti. Uno dentro l’altro, uno dopo l’altro, prima dell’altro, dentro l’altro. Ghita, silenzio.Il volto riflesso. Il palmo della mano.La mano sul vetro.La testa inclinata. Non è qualcosa che va e che viene, che a volte accade e a volte no. C’è sempre, accade sempre, anche quando non accade, c’è il prima e c’è un dopo, per questo accade sempre. I giorni si infilano uno dentro l’altro. Uno dopo l’altro, prima dell’altro, dentro l’altro.Le ore che passano, fatte di secondi, le ore che passano fatte di secondi, i secondi che fanno le ore che fanno i giorni che fanno le settimane che fanno i mesi che fanno gli anni che sono fatti di ore, anni che sono fatti di secondi anni fatti di secondi intrecciati tic tic tic secondi ore giorni mesi anni senza interruzione senza sosta uno dopo l’altro questo dobbiamo sentire per riuscire anche solo ad immaginare.Tutti i giorni, un peso nel petto. Un bolo, gomitolo sudicio. È difficile respirare, i polmoni non si aprono, non si riesce a respirare, ad aprire i polmoni, a respirare, fino in fondo, non si riesce a respirare fino in fondo, ad aprire, tutto resta indietro, i pensieri anche quelli, i pensieri restano indietro, un passo due passi tre passi indietro. A volte lo vede. Un bolo, un gomitolo sudicio, polveroso. Pensa di toglierlo, penso di aprire e afferrarlo e lavarlo. No. Buttarlo. Ma è li, e non si può aprire, ed è grande radicato, fa parte del suo petto, fa parte del suo corpo, fa parte dei suoi giorni, e mesi e anni. Tutti i giorni. Immobile, si fissa. Il corpo teso, non troppo. Leggermente proteso. La camicia che indossa, la circonda. La nasconde, come fosse appoggiata ma non indossata. La gonna, le scarpe. Nere con un po’ di tacco. Non troppo. Si fissa, abbastanza a lungo da scomparire.Resta solo la casa al di là della strada, la persiana sghemba della finestra al primo piano.Sfila la mano dal vetro, rilassa le spalle con un respiro minimo, diaframma che si contrae. Non troppo.Sbatte le palpebre. Eccola di nuovo. Accanto alla persiana sghemba. Della finestra al primo piano della casa al di là della strada. Tutti i giorni. Non si distingue, nel tempo. Si perde e si confonde. I secondi, i minuti, le ore, i giorni, i mesi, gli anni. Soprattutto i giorni. Quelli dobbiamo sentire, i giorni. Fatti di una pasta. I giorni, certo. I mesi, gli anni. Non sono, non hanno un nome, non hanno un pensiero. Non una pasta, non è una pasta. No. Anche le parole si perdono, e i significati. Dobbiamo capire i giorni. Dobbiamo sentire i giorni. Dobbiamo stare nel quotidiano che si ripete senza inizio e senza fine. Un quotidiano infinito in un infinito quotidiano. E non si può uscire, non è come aprire la porta e andare, e anche quello, neanche quello si può fare. Non c’è un pensiero che possa anticipare il gesto, un gesto, qualcosa, un movimento che sia diverso. Se una cosa non la pensi, se una cosa non la riesci ad immaginare quella cosa non esiste. Non esiste il diverso da questo, da questa cosa che vive. Questa cosa in cui sta, immersa. Può solo stare. Sta. Ma non immobile. Sta in uno stato di immobilità, piuttosto. Non attende, non pensa. Non è in procinto di. Uno stare continuo senza fine in cui tutto si sovrappone. Il tempo è assente, il tempo è un sempre inagibile. Nuvole. Nuvole piccole in cielo, fuori. La luce cambia, i colori calano. Un momento. Il tempo di dirsi qualcosa sotto voce. No, non è nemmeno sotto voce, è solo un sospiro verbalizzato. Piano, le labbra si muovono. Un rumore, ottuso, da qualche parte. La luce cambia di nuovo, sempre e solo per un momento. Nuvole, nuvole piccole in cielo, fuori. Un sospiro, calma devi stare calma. Sta facendo buio, fuori dalla finestra, dentro alla finestra. Nuvole piccole in cielo. Fuori dalla finestra, nuvole, in alto nel cielo. Sta, nello stato di immobilità. Immutabile. Tesa e immobile. I pensieri non hanno forma in questa cosa in cui vive, i pensieri non si formano. Ci sono le cose che sa, le cose che ha acquisito, i gesti che ha imparato per rendere tutto meno acuto, meno pericoloso, è un non pensiero questa cosa in cui è immersa, è la ripetizione di una serie di cose che deve fare. Solo certi sentimenti sono. Sono acuti, ma sono anche opachi, come quando li perdi. No, come quando non li pensi, non li provi ma ci sei immersa. I pensieri la vivono. I sentimenti la vivono. Il tempo la vive il quotidiano la vive il tempo la vive lei non vive tic tic tic lei sta Ghita nel vetro. Guarda le nuvole, le ombre. Le luce offuscate dei lampioni. Le fissa. Poi si fissa. Scompare, di nuovo. Di nuovo c’è solo la persiana sghemba. Passa una macchina, fruscio di pneumatici, poi un’altra. Poi un’altra. Poi silenzio. La persiana sghemba al primo della casa al

Roberto #Bolaño [cit. Último atardeceres en la tierra – in Putas asesinas]

En el cielo aparece, de forma por demás silenciosa, un avión de pasajeros. B deja de mirar el mar y contempla el avión hasta que éste desaparece detrás de una suave colina llena de vegetación. B recuerda un despertar, justo un año atrás, en el aeropuerto de Acapulco. Él venía de Chile, solo, y el avión hizo escala en Acapulco. Cuando B abrió los ojos, recuerda, vio una luz anaranjada, con tonalidades rosas y azules, como una vieja película cuyos colores estuvieran desapareciendo, y entonces supo que estaba en México y que estaba, de alguna manera, salvado. Esto ocurrió en 1974 y B aún no había cumplido los veintiún años. Ahora tiene veintidós y su padre debe de andar por los cuarentainueve. B cierra los ojos. El viento hace ininteligibles las voces de alarma del pescador y de los niños. La arena está fría. Cuando abre los ojos ve a su padre que sale del mar. B cierra otra vez los ojos y los vuelve a abrir sólo cuando una mano grande y mojada se posa sobre su hombro y la voz de su padre lo invita a comer huevos de caguama. Hay cosas que se pueden contar y hay cosas que no se pueden contar, piensa B abatido. A partir de este momento él sabe que se está aproximando el desastre. Roberto Bolaño Putas asesinas [Último atardeceres en la tierra]

sestanti

Valeria Parrella – [cit. Troppa importanza all’amore]

[…] È che non potevano parlare, perché l’umido del mare gli aveva attaccato la gola. E quando li abbiamo illuminati con fari direzionali e loro ci hanno guardato, i loro occhi erano bianchi e vuoti. C’è stato un gran darsi da fare con Jim che coordinava il recupero e il capitano che si informava sulle leggi territoriali perché si capiva che venivano da un altro continente. Io ne ho tirato su uno, la sua mano era come una pietra di carbone ghiacciata, come quelle che si trovano sulle coste di Anversa perché ce le portavano dall’Essen, e lì le imbarcavano. La sua mano ormai non poteva più stringere nulla, così l’ho afferrato al polso e quando ho tirato ho avuto paura di romperlo questo ragazzo enorme di manco vent’anni che aveva perso la sua giovinezza in un naufragio. Gli abbiamo dato acqua e coperte, e finché non sono arrivate le charlie papa della guardia costiera per il trasbordo io gli ho tenuto quella mano in mano. Ma per rassicurarmi io: volevo cercare di far diventare quel carbone carne, quel ghiaccio dita. Se questo è un uomo deve avere le mani, dicevo. […]

Le parole di Adele

Ve la ricordate Adele? Ne avevo parlavo qua, qua e pure qua. Non è stato un rapporto facile, il nostro. Ci siamo piaciute, poi ci siamo azzuffate. Io la tiravo da una parte, lei mi tirava dall’altra. Mi sono decisa a seguirla, e lei ha cambiato un’altra volta direzione. È scomparsa ed è tornata. Ci siamo abbracciate, e poi ci siamo azzuffate di nuovo. Alla fine siamo riuscite a raggiungere un accordo. E questo accordo è qualcosa che non è un romanzo breve ma, mi sa, nemmeno un racconto lungo. Comunque, si chiama Le parole di Adele. Lo potete scaricare, e leggere, a questo link Le Parole Di Adele come sempre, il download è free come sempre per me è stato bellissimo, spero lo sia anche per voi buona lettura

Resto immobile mentre lei oscilla piano

– E poi?– E poi mi sono stufata. Non ce l’ho fatta più e ho smesso.  Lo dice senza nessuna inflessione particolare nella voce. La osservo, scruto la sua espressione. Anche gli occhi sono neutri. Non vuoti. O assenti.Neutri.  Si accende una sigaretta, me ne offre una. Non so perché rifiuto.– Che vuol dire che hai smesso?– Ho smesso.– Da un giorno all’altro?  Per un attimo ho l’impressione che mi stia sorridendo, ma non ne sono sicuro.– No, non da un giorno all’altro. È impossibile farlo così, all’improvviso.– E allora come hai fatto? Cosa è successo?  Si alza, i piedi nudi calpestano il pavimento della stanza fino al frigo. Lo apre e prende una birra.– Perché ti interessa tanto saperlo?  È la prima domanda che mi fa, se non consideriamo l’offerta della sigaretta. Resto in silenzio, non so cosa risponderle, alzo e abbasso le spalle.     Stappa la birra, mi guarda.  Neutra.– Ho smesso. Una cosa dopo l’altra.  Beve, i piedi nudi attraversano di nuovo la stanza. Si siede sul divano. Ho l’impressione che non respiri nemmeno, ma sono certo che sia solo questo.   Un’impressione.– All’inizio non è stato per niente facile. Opponevo resistenza, una resistenza quasi atavica, involontaria. Il corpo, il   cervello, l’anima. Tutto oppone resistenza. E questo crea una grande confusione, un grande disagio. Sei talmente abituata ad opporti, a non cedere, che finisci anche per opporti a te stessa.  Appoggia la sigaretta nel posacenere e si lega i capelli in una coda disordinata sopra la testa. Beve ancora, poi riprende la sigaretta dal posacenere.– È stato doloroso?– Doloroso?  Mi guarda, forse c’è della curiosità nel suo sguardo.– Sì, doloroso. Lo è stato?  Resta in silenzio a lungo, molto a lungo. Fuma e beve, come se non ci fossi. Mi muovo imbarazzato sulla poltrona su cui mi ha fatto sedere, penso che forse dovrei tossire per ricordarle che ci sono.– No.– No?– No, non è stato doloroso. È doloroso opporre resistenza. È doloroso insistere nel percorrere una strada impraticabile, è doloroso ignorare che quella strada non conduce da nessuna parte. In nessun dei luoghi tra quelli che ti è capitato di immaginare o di desiderare. E io un giorno mi sono stufata e ho smesso.– Hai smesso di opporre resistenza.– Esattamente. In ogni senso. A tutto. A me stessa, agli altri, alle cose. Al mondo e alla mia mutazione.– Ma perché?– Perché ero stufa. Te l’ho detto. Questo non credo sia difficile da capire.  Per un momento penso che mi stia sgridando, ma poi mi rendo conto che la sua è solo una constatazione.– Stufa di cosa?– Di insistere. E di resistere.  Adesso vorrei tanto chiederle una sigaretta, ma resto immobile, in silenzio. Dopo tutto sono di fronte a qualcosa di imprevisto, di imprevedibile. A qualcosa di sconosciuto.Anche lei resta immobile, in silenzio. Ma lo fa in modo diverso. In modo che non mi sono spiegare. Si alza di nuovo, di nuovo come se non ci fossi. Va alla finestra, la apre. Appoggia i gomiti sul davanzale e guarda fuori. Oscilla, piano, avanti e indietro. Non so più come sono finito qui, in questa stanza, in questa casa. Non so più cosa ci faccio, qui. Mi prude un punto irraggiungibile della schiena. Resto immobile. Lei oscilla, piano, avanti e indietro. Con i gomiti appoggiati sul davanzale, leggermente in punta di piedi. Potrei alzarmi e andarmene. Ma resto immobile.– Non so esattamente quale è stata la prima cosa che ho smesso di fare. Quello che c’era prima, quello che ero prima è molto lontano adesso. È tutto mescolato, in un certo senso.  Non si volta. Non sono nemmeno sicuro che stia parlando con me.– Ho smesso di pensare che le parole fossero importanti, ognuna con il suo peso e il suo bagaglio di significati. Ho smesso di chiedere alle persone di usare le parole giuste. Ho smesso di pensare che ripetere le cose, una volta, poi un’altra, poi un’altra ancora, all’infinito, potesse cambiare qualcosa. Ho smesso di pensare che fosse necessario essere coerenti per potersi guardare allo specchio senza spostare lo sguardo altrove. Ho smesso di pensare che il rispetto dovesse essere la bussola del mio agire. Ho smesso di osservare l’altro per capirne lo spazio vitale in modo da non calpestarlo. Ho smesso di commuovermi, ho smesso di provare compassione. Ho smesso di sentire il peso per le sofferenze altrui. Ho smesso di lasciarmi andare ai sentimenti. Alla nostalgia, alla malinconia, alla paura. Alla gioia, al piacere. Alla rabbia. Ho smesso di odiare e ho smesso di amare. Ho smesso di credere di poter fare la differenza, ho smesso di desiderare un cambiamento. Ho smesso di desiderare. Ho smesso di difendere il mio corpo e quello degli altri e delle altre. Ho smesso di fare attenzione a tutto, ho smesso di dire no. Una cosa dopo l’altra. Per questo sono mescolate e non so più cosa ho lasciato andare prima e cosa dopo. Ho smesso di opporre resistenza, ogni giorno, ogni minuto. Fuori e dentro. Ho smesso di guardare tutto, di cercare di capire, di buttare lo sguardo sempre qualche metro avanti. Ho smesso di dare e di cercare complicità. Ho smesso di guardare le persone negli occhi. Ho smesso di insistere. Ho smesso di pretendere.  Resto immobile mentre lei oscilla piano.– Perché non me lo chiedi?– Cosa?– Non sei qui per questo? Chiedimelo.– Chiederti cosa?– Chiedimi se sto meglio così. Chiedimi se si vive meglio, così. Sei qui per questo.

(non) recensioni di libri

Dettato – Sergio Peter – (non) recensione

Dettato è il primo titolo della collana romanzi della casa editrice Tunué, ed è anche, e soprattutto, il primo romanzo di Sergio Peter. Solitamente non inserisco questo genere di informazioni quando scrivo dei libri che leggo (e che mi sono piaciuti) ma in questo caso, non so, mi sembrano dettagli importanti. Primo titolo di una nuova collana, di una casa editrice specializzata in graphic novel e saggistica, primo romanzo. Già che ci sono. Altri due dettagli. Questo romanzo ha una grafica di copertina impeccabile ed è registrato sotto licenza Creative Commons. E quest’ultimo, di dettaglio, chi frequenta me e questo blog lo sa, fa guadagnare un sacco di punti all’autore e alla casa editrice. Detto questo. Dettato è un libro morbido, e gentile, che mi ha fatto commuovere e mi ha fatto sorridere. È un libro che sembra affidarsi completamente alla parola, al suo suono, al suo significato, a quel potere evocativo che apre mondi dopo mondi, aggrappandosi ad un’immagine dietro l’altra. Alla musica delle parole che formano frasi intercalate dalla giusta punteggiatura. Dettato è un libro intimo, un libro che parte dal sé dell’autore ma che è comunque riuscito ad essere anche mio. È una scrittura che sperimenta la possibilità di mescolare la prosa e la poesia per offrire a chi legge il suo personalissimo percorso di lettura, senza lacci, senza percorsi obbligati. Quasi senza una guida. Dettato non ha una trama riconoscibile, se non quella, forse fragile ma forse per questo efficace, costruita attraverso l’andare dei ricordi, il susseguirsi di personaggi e paesaggi. Dettato è casa, è famiglia, è origini. Le voci e i corpi, e i sentieri. Come frugare in una scatola piena di vecchie fotografie. L’abitato, in alto, si confonde col bosco; mi cade una rosa bianca in testa. Più in là di qualche passo parte il sentiero che porta a Madri, dove a certe case rurali diroccate hanno rubato le madonnine dalle nicchie sopra le porte. I gatti si sfidano sui tetti a prendere insetti; si fanno amici, per il latte, i pochi abitanti. Una stalla con numero civico 4 e la cassetta della posta arrugginita sta per crollare con davanti la vecchia rete di un letto di ferro. Le nonne che vedo sulle soglie delle case si nascondono subito per non mostrare le vestaglie scolorite. I vasi caduti per il vento, nelle corti dove l’erba è troppo alta, i tavoli appoggiati in verticale alle pareti, le due pecore magre addormentate in un angolo, mi dicono il silenzio. Ah, Sergio Peter ha scritto e pubblicato racconti. E si sente. E per me, e pure questo chi  frequenta me e questo blog lo sa, è un complimento. Dettato Sergio Peter Tunué | collana romanzi progetto grafico Tomomot, Venezia

qui prima poi – un trittico [appunti per “Avevo ancora qualcosa da dire #2]

E dopo il qui e il prima è arrivato anche il poi. E il qui e il prima son stati, necessariamente, rivisti e corretti. Buona [ri]lettura Qui. Qui non mi faccio domande, perché qui non ho bisogno di risposte. Qui le domande sono solo pensieri pensati, o pronunciati, con un’intenzione interrogativa senza tensione, senza l’ansia per la possibile assenza di risposta conseguente che qui è solo pensiero pensato, o pronunciato, con una intenzione assertiva senza tensione, senza l’ansia di non trovare aderenza e corrispondenza con il pensiero precedente. Qui ogni pensiero è minimo nel suo essere indispensabile e ogni pensiero, interrogativo, assertivo o condizionale che sia, si forma e si esaurisce nell’essenzialità della sua, più o meno lunga, esistenza temporanea. Qui, mi alzo la mattina e quando mi guardo nel grande specchio appeso in bagno, e che a mezzogiorno riproduce e moltiplica la luce del sole che entra dalla finestra, non ho niente per cui dover chiedere scusa. Non mi interessa stabilire chi sono e non c’è nessuno che vuole sapere, o stabilire, qual è il mio ruolo, il mio posto nel mondo. Qual è la mia funzione e la mia posizione all’interno del sistema. Qui non c’è nessun sistema in cui cercare di entrare e da cui cercare di sperata ente di uscire. Qui non sono buona, non sono cattiva. Non sono altruista, non sono egoista. Non sono sana e non sono malata. Non sono giusta e non sono sbagliata. Qui, in assenza di termini di paragone prestabiliti, non sono in nessun modo difettosa. Non devo essere qualcosa potendo, in un certo senso, essere tutto. E il contrario. Qui è un luogo che ho cercato a lungo. Attraversando lacrime, frustrazione e ostentata labile serenità. È un luogo che credevo di dover costruire nella mia mente, poi di poterlo costruire, ovunque mi trovassi. Con chiunque avessi a che fare. Sbagliandomi. O forse semplicemente illudendomi. Non è importante. Qui ogni gesto è nudo. Trasparente. Qui un passo è un passo, non una scelta essenziale difronte ad un bivio e nemmeno qualcosa di cui valutare le conseguenze e le diramazioni incontrollabili, che ci sono ma che essendo incontrollabili sollevano dall’ossessivo compito di controllarle, una volta che lo si capisce. E qui è facile capirlo, che un passo è solo un passo che serve ad allontanarsi o ad avvicinarsi. A qualcosa di cui di cui si è avuto o si ha bisogno nel momento in cui si è fatto o si fa il passo. Qui, bere dell’acqua significa solo soddisfare la sete e nel cono di luce che filtra tra i rami di un albero non c’è nient’altro che questo. Sole che attraversa i rami di un albero. Qui toccarsi non è accertarsi di esistere. Non sorrido per compiacere, non piango per commuovere. Qui è dove sono arrivata quando ancora sentivo il peso delle parole. Il peso della parola e del suo contrario. Il peso del potere che sta dentro la parola e di quello che può essere esercitato attraverso la parola. Quando vincevano sempre i pensieri, perché non sapevo farli tacere, non li sapevo ascoltare e osservavo, ancora stupita, chiunque mi desse anche solo l’impressione di saperli gestire. Prima di capire che nessuno è in grado di farlo davvero e che a fare la differenza è la capacità di accettare le debolezze e le paure, il dubbio e l’indefinito. Accettare che non c’è sempre una soluzione, e a volte nemmeno una spiegazione. Che non si può ordinare il caos per smettere di averne paura. La capacità di capire in tempo quando le storie che raccontiamo e ci raccontiamo per restare in equilibrio stanno per sfuggirci di mano. Qui è dove sono arrivata quando ormai ogni gesto si portava appresso il peso delle parole e il peso indicibile dell’inutilità. È un luogo molto silenzioso che odora di terra e di mare. D’estate il sole è tiepido per pochissime ore, fin poco dopo l’alba e da poco prima del tramonto. Per il resto del giorno è una palla incandescente che brucia la pelle. E forse chissà, anche i pensieri. Che accende gli spazi ampi, il mare gentile, la terra burla che pulsa e respira. E le montagne nude ricamate di sentieri che puoi camminare per chilometri e chilometri. Qui non non è un debole e vulnerabile luogo della mente, qui esiste ed io ci sono rimasta a vivere. E la mia mente non è né debole né vulnerabile. Quando sono arrivata ho lasciato cadere, uno per uno, i pensieri lungo i sentieri ricamati sulle montagne nude. Ho lasciato cadere le dicotomie. Quelle inutili e quelle nocive. Ho lasciato cadere le inadeguatezze e le distanze. E quando poi è arrivato il momento di tornare indietro non l’ho fatto. Perché per farlo avrei dovuto riprendere, uno per uno, tutti i pensieri. Tutte le dicotomie inutili e nocive, tutte le inadeguatezze e le distanze. Qui è dove sono rimasta quando ho sentito il silenzio dell’assenza di domande e la quiete del non avere bisogno di risposte lasciando indietro tutto quello che credevo di avere e invece non aveva neanche trovato. Qui è dove sono libera dagli sguardi. D’inverno a volte piove molto. Lassù, sulle montagne alle mie spalle, nevica. Ma qui, proprio qui, la temperatura è mite. Qui è una casa bianca molto piccola, e dalla finestra della cucina vedo il mare interrotto solo da una decina di agavi del deserto. Qui, nella casa bianca molto piccola, c’è un letto molto grande, un tavolo molto bello e una poltrona davanti ad un camino molto piccolo. Di notte, quando c’è la luna piena, esco. E lasciandomi le agavi del deserto alle spalle raggiungo il mare e mi siedo a guardarlo, metallo fuso che ondeggia, e brilla e va e viene. Di solito, lui, quando arrivo ha appena gettato l’amo e sta seduto a guardare, come me o con me, il mare di metallo fuso. Non ci diciamo mai niente, non ci siamo mai detti niente. Ma quando il silenzio è totale, e qui accade spesso, posso giurare

Marilù [appunti per “Avevo ancora qualcosa da dire” #1]

Marilù si è persa. E nessuno le aveva mai detto che sarebbe potuto accadere. Nessuno le aveva detto che un giorno le sarebbe potuto accadere di guardarsi e non riconoscersi, guardarsi, toccarsi e non conoscersi. Marilù allora si guarda intorno. Perché ci dovrà pure essere qualcosa, uno stipite, un colore. Un cassetto, un angolo. Ci dovrà pur essere qualcosa che la riporti alla normalità. Un oggetto, qualcosa. Che a guardarlo faccia tornare tutto come prima. Nessuno le aveva mai detto che il destino non è scritto da sempre e per sempre nel corpo. Nessuno le aveva mai detto che la strada tracciata le si sarebbe potuta disfare sotto i piedi, così. No. Non all’improvviso, no. Qualcosa, un germe, un virus. Sì, un virus, il germe della follia doveva esserle entrato dentro chissà quando. Per esplodere adesso, così. Questo sì all’improvviso. Sì. E non c’è pentola, o presina, che la possa salvare. Anche solo sollevarla per un attimo. Marilù si è persa, e il futuro solido maestoso e stabile che aveva sempre, da sempre e credeva per sempre, avuto davanti agli occhi adesso è solo un mucchietto di polvere che il vento si sta già portando via. Una polvere sottile, ormai impalpabile. Non riuscirebbe a trattenerlo con le sue lunghe mani bianche che adesso stanno appoggiate sul tavolo e che lei non riesce a staccare, a spostare. Dalla finestra aperta entra il miagolio straziante di un gatto innamorato. Sembra il pianto disperato di un neonato. A Marilù si drizzano i peli sulla braccia, e sulla nuca, la spina dorsale si inarca come prima di un conato di vomito. Riesce a muovere i piedi, quelli sì. Sotto al tavolo su cui però non riesce a muovere le mani. Li sposta appena, e le suole delle scarpe scivolano piano sul pavimento su cui ieri ha dato la cera. Ieri era domenica. E la domenica si da la cera ai pavimenti. Ieri era ancora tutto come prima. Come il giorno prima, come il giorno prima ancora. Da sempre, e sarebbe dovuto essere per sempre. Ieri Marilù lo sentiva ancora quel destino rassicurante scritto nel corpo. Caldo. Non discusso. Non interrogato. Non verificato. Ma adesso, oggi, che non è più ieri, Marilù sta seduta qui, con le lunghe mani bianche lasciate immobili sul tavolo, il miagolio straziante disperato del gatto neonato che le fa drizzare i peli sulle braccia, sulla nuca. Adesso, oggi, non ieri e non domani ma adesso, abbandonata in un presente straziante, estraniante, a Marilù gira la testa. Perché quel destino lo aveva sempre visto scritto nel corpo, nei fianchi, nei seni, nello sguardo, nei movimenti. Un destino che aveva sempre dato per scontato, indelebile. Perfettamente amalgamato, mescolato, aderente ad ogni più piccolo, infinitesimale, pezzo di sé. Adesso le gira la testa, e vorrebbe alzarsi a prendere e bere un bicchiere d’acqua. Ma ha paura. Che le sue gambe non ce la facciano a sostenere il peso di un corpo vuoto, senza destino. Adesso, ora, le gira la testa, vorrebbe alzarsi a prendere e bere un bicchiere d’acqua ma ha paura. Assediata, circondata, soffocata da domande di cui non aveva mai intravisto nemmeno il contorno e che ora sono lì, compatte, solidi solide. Urgenti come fossero state dietro l’angolo fino ad un attimo fa, fino a ieri. Allora sono le domande ad essere scritte nel corpo? Sono le domande il germe, il virus che le si è insediato dentro? Dove? Quando? Non sa rispondere neanche a queste. Meno che mai a queste. Come se non bastassero tutte le altre. Le mani immobili sudano. Forse tremano, dentro. Forse tutta Marilù trema dentro. Non c’è nessuno a cui chiedere se sta tremando. Non c’è nessuno a cui chiedere aiuto. Non c’è nessuno a cui raccontare di questo momento in cui niente è più come ieri, perché non c’è mai stato nessuno che le aveva detto che sarebbe potuto succedere. Non c’è nessuno a cui chiedere un bicchiere d’acqua. Resta seduta, le lunghe mani bianche, i piedi che si muovono piano sotto il tavolo. Il miagolio straziante disperato ottuso ripetitivo ossessivo del gatto neonato innamorato. E il volto luminoso tondo lentigginoso di Aurora le si compone davanti. Gli occhi, il naso, la bocca larga, le guance, gli orecchi, i capelli. Come uno schiaffo. Come un’epifania del passato. Come una bolla d’aria che sale dal fondo scuro profondo del mare. Aurora il destino scritto nel corpo non ce lo voleva avere. Aurora, il destino scritto nel corpo, Marilù riesce a scandire bene le parole, una dopo l’altra, in un sussurro limpido che si mescola al miagolio del gatto disperato neonato impaziente, il destino scritto nel corpo non ce lo aveva. Aurora il destino l’avrebbe scritto, vissuto, cancellato e riscritto ogni volta che ne avesse avuto voglia. Aurora il destino ce l’aveva inciso nel desiderio, nella prepotenza di quel corpo che era suo. Aurora che diceva che potevano essere tutto, che dovevano poter essere tutto e il contrario di tutto. Aurora che lo mostrava, quel corpo che era suo e senza nessun destino scritto sui fianchi, sui seni, sulle labbra, senza curarsi e preoccuparsi degli sguardi altrui. Senza sentire, negli sguardi altrui, una sentenza di colpevolezza. Aurora che diceva che dovevano godere, nel corpo e nella mente, senza vergogna. Aurora che diceva che voleva essere lei a scegliere, a sbagliare, e poi a scegliere ancora. Aurora che gridava, che graffiava, sputava. Aurora che non permetteva a nessuno di indicarle la via. Aurora che andava a guardare dove le strade andavano a finire. Aurora con quelle mani grandi che toccavano tutto, con quella bocca larga che assaggiava tutto. Aurora che un giorno l’hai trovata nel bagno al secondo piano, quello vicino all’aula di chimica, coi pugni stretti e gli occhi pieni di lacrime e le pupille dilatate dalla rabbia. Che si è voltata e tu hai avuto paura, e lei se ne è accorta, e allora ha cacciato via la rabbia, ma non le lacrime, e ti ha sorriso e ti ha detto è che potrebbe essere

(non) recensioni di libri

piccole cose con le zampe – michele orti manara – (non) recensione

Il racconto, quando è breve, brevissimo, deve essere preciso, precisissimo. È questione di equilibrio tra le parti, di suono, di ritmo. È questione di punteggiatura. Anche solo un punto fuori posto, una virgola mancata, e qualcosa stride irrimediabilmente. I tratti a disposizione sono minimi, c’è bisogno delle giuste sfumature, dei giusti punti di luce. I racconti presenti in piccole cose con le zampe di Michele Orti Manara sono precisi, precisissimi. La scrittura è accurata, curata. Ricercata nella struttura del periodo e nei passaggi di collegamento tra le immagini che compongono la linea temporale o la struttura della storia. Punto di flesso e Un posto vivibile, soprattutto, scivolano via senza mai perdere il ritmo. Sono due piccole bolle che non si ha voglia di far scoppiare. Un posto vivibile, in particolare. L’ho letto in apnea e me ne sono resa conto solo alla fine. Il filo della narrazione teso, ma mai sul punto di strapparsi. Mi piace leggere cose così, mi piace molto. Piccoli frammenti che aprono la finestra su un istante, un sentimento, un idea. E tutto quello che chi scrive riesce a metterci dentro, tra le giuste sfumature e i giusti punti di luce. […] Qualcosa è andato storto. L’accordo non prevedeva competenze mediche né telefonate salvifiche. Prevedeva una coreografia di gesti semplici per rendere più pulito l’appartamento, sequenze di movimenti in grado di migliorare la vita della miniatura e del suo fidanzato Sergio – e allo stesso tempo di soddisfare l’innata predisposizione di Wali Gupta all’ordine. In quelle stanze di una città ancora da conoscere, abitata da gente con cui fatica a condividere anche la gestualità – il grado zero della comunicazione – fare le pulizie per Wali Gupta è diventato un lavoro di più ampio respiro, quasi una missione, una tessera del grande mosaico in cui il mondo, tutto il mondo, anche le porzioni che non hai mai visto né abitato, è un posto sicuro, accogliente, dove le superfici sono immacolate e gli esseri sono trasparenti. […] piccole cose con le zampe michele orti manara eBook copertina di Shen

(non) recensioni di libri

Dieci dicembre – George Saunders – (non) recensione

Potrei scivolare anche io, parlando di Dieci dicembre di George Saunders, nella disquisizione capolavoro sì/capolavoro no. E potrei discettare di postmodernismo, e di scrittura minimalista. Potrei. Ma le mie sono (non)recensioni. E quindi potrei ma non lo farò. Mi sono piaciuti questi dieci racconti. Mi sono piaciuti tutti. E mi sono piaciuti perché la scrittura di Saunders è libera ma non per questo casuale. Perché il linguaggio è semplice e diretto e per questo estremamente efficace nel raccontare, con alcuni momenti di estrema dolcezza e altri di estremo squallore, cose di per sé non semplici da affrontare. Non curva mai, Saunders, nella sua scrittura. Non devia, non percorre una rotonda più volte prima di decidere la direzione da prendere. Mi sono piaciuti perché i dettagli che compongono trama e personaggi sono messi tutti al posto giusto nei momenti giusto giusti. Mi sono piaciuti perché dentro ci sono tante cose. C’è lo squallore (sì, lo so, l’ho già usata questa parola. Evidentemente qualcosa di questi racconti me l’ha appiccicata addosso) della provincia, la frustrazione dei traguardi non raggiunti e il sentirsi inferiori. C’è l’amore. C’è l’infanzia che si ripropone nell’agire dell’età adulta. E la necessità di scegliere una posizione, un gesto. Ci siamo noi, e gli altri. Ci sono gli esseri umani, con le debolezze, i rancori, le paure e desideri, che si lasciano andare a flussi di pensieri a volte commoventi. Mi sono piaciuti, sì. Mi permetto di aggiungere un pensiero mio. Quando ho finito di leggere Dieci dicembre sono andata su Anobii a leggermi un po’ di recensioni. Così, un po’ per curiosità un po’ per vedere se ci avevo preso. La quantità di commenti che iniziano con “Premetto che non leggo e che non mi piacciono i racconti” è stata sconfortante. E a chi pensa che il racconto sia facile da scrivere, a chi pensa che il racconto sia una forma di scrittura subordinata e minore rispetto a quella del romanzo posso solo suggerire di leggere Raymond Carver, Alice Munro, Checov, Virginia Woolf (si, la signora Woolf non ha scritto solo grandi romanzi ma anche grandissimi racconti), Italo Calvino, Ernest Hemingway. I racconti di Valeria Parrella, di Aldo Nove, di Niccolò Ammanniti. Grazia Deledda, Dino Buzzati. Kafka, i racconti di Kafka! E Saunders, naturalmente, a questo punto. E la smetto altrimenti mi esalto e faccio solo sfoggio di nomi. Potrei mettermi a discutere, potrei parlare di racconti per pagine e pagine. Potrei, ma non lo farò. Mi limito a dare un consiglio, leggete (anche) i racconti. Dieci Dicembre George Saunders minimumfax pp. 222

Prima (del qui)

Prima, aspettavo. Cercando educatamente di non soccombere. Aspettavo, di essere felice. Credevo che bastasse aspettarla, la felicità, per vederla arrivare. Aspettare e fare quello che deve essere fatto. Prima, credevo che bastasse. Una mattina qualsiasi di un giorno qualsiasi pensavo che mi sarei svegliata felice. Cercando, nel frattempo, educatamente, di non soccombere. Di non inciampare nel tentativo di andare a tempo. Il tempo su cui tutti sembravano scivolare senza difficoltà, senza timore, senza incertezze. Quel tempo, quel ritmo. Le cose che devono essere fatte. Prima, aspettavo. Che il senso di colpa sparisse, come inghiottito da un maelstrom improvviso e inspiegabile.  Miracoloso. Che il limpido e cristallino senso di inadeguatezza si disfacesse. Che quel senso di margine su cui accumulavo le giornate si aprisse, masticando e deglutendo, e magari digerendo, quel senso di esclusione e non appartenenza che stava masticando e deglutendo me. Mi impegnavo. Nell’attesa e nel fare quello che deve essere fatto. Nell’essere quello che. Quello che. Cercavo di essere qualcosa che gli altri potessero sempre riconoscere. A cui tutti potessero ricondurre aggettivi chiari, impressioni rassicuranti. Cercavo di suscitare pensieri innocui. Qualcosa di facilmente identificabile. Eseguivo quotidianamente il compito che mi ero data, o che qualcuno prima di me, qualcuno che avevo dimenticato, o qualcuno che non conosco ma conosceva me, mi aveva assegnato in un momento che non ricordavo. La parte più difficile, forse ve l’ho già detto, era mettere a tacere i pensieri. Fondamentale per non soccombere. Educatamente. Mantenere il passo, seguire il ritmo. Il ritmo di chi sembrava, oltre ogni ragionevole o irragionevole dubbio, essersi svegliato una mattina qualsiasi di un giorno qualsiasi felice. Mantenere quel passo, seguire quel ritmo. Senza inciampare. Prima, mi capitava di domandarmi se ci fosse un reparto del supermercato dove poter comprare lo spartito di quella musica, per impararlo quel ritmo. Un reparto del supermercato dove poter comprare, a qualsiasi prezzo, certezze e consapevolezza. Ma erano i momenti in cui inciampavo, in cui perdevo drammaticamente il ritmo. Erano i momenti in cui i pensieri prendevano il sopravvento, senza controllo. In cui mi immaginavo spettinata, malvestita, sbraitante sull’autobus affollato dell’ora di punta, invocando l’arrivo imminente dell’apocalisse. Come quella donna sul 56. I capelli bianchi, spessi ma radi. Gli occhi blu, piccoli. Intensi. Momenti. Momenti in cui mi domandavo se magari. Momenti in cui l’assenza. Momenti in cui i dubbi. Il dubbio. Momenti in cui l’eventualità di soccombere si faceva così vicina da poterla accarezzare. Momenti in cui mi domandavo se forse mi ero dimenticata un passaggio fondamentale. O se magari quel qualcuno che non conoscevo ma conosceva me se ne fosse dimenticato. Momenti. Intorno cesellavo la mia ripetuta quotidianità. Fatta di gesti calibrati in lunghezza, intensità ed estensione. Gesti proiettati verso l’approvazione e l’accettazione del prossimo. Qualunque prossimo. Prima, senza strappi, senza scosse, aspettavo e facevo quello che doveva essere fatto. Ero, senza strappi e senza scosse, quello che dovevo essere. Educata, accogliente. Moderatamente disponibile. Limpida, circolare. Facilmente maneggiabile. Stabile. Curiosa ma non invadente. Estranea al conflitto. Abile nella cura dell’altro, qualsiasi altro. Da seduta, le mie ginocchia si sono sempre toccate. Se capite cosa voglio dire. Ed ero brava. Ora, da qui, lo posso dire. Prima, ero di una bravura pericolosa. Mi sentivo goffa, fuori posto, incapace, inadatta. Inseguita dalle paure, plasmata dall’angoscia. Spappolata dall’attesa. Ero brava. A non lasciare spazi vuoti, porte socchiuse, vie di fuga. Prima ero brava. Ad osservare e ad imparare. Ad imparare e a mettere in pratica. A mettere in pratica per fare quello che deve essere fatto per svegliarsi, una mattina qualsiasi di un giorno qualsiasi, felice. Brava a non mostrare la cacofonia mentre tenevo il passo. Tenevo il ritmo. Quel passo, quel ritmo. Prima, ero brava a nascondermi. A nascondermi quei momenti. [prima c’è il qui, auspico anche un poi]

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