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Tag: parole

Chissà se m’avete uccisa

Chissà se m’avete uccisa. Me lo domando, in quest’assenza prolungata di parole. In questa prolungata assenza di immaginazione. Ché forse a mancarmi di più è proprio la capacità di immaginare, più che la perduta capacità di raccontare. Chissà se m’avete uccisa, con il vostro egocentrismo. Con la vostra frustrazione che riversate in giro, e addosso,  con quei piccoli, ossessivi, ripetuti gesti di cattiveria e violenza vigliacca. Ché la violenza può essere cosa buona e giusta se non la si confonde e non la si macchia con la mediocrità. Ma dubito siate in grado di coglierne il significato. Ché ciò che vi riguarda è sacro, ciò che non vi tocca è calpestabile. Chissà se mi avete uccisa, con la vostra pesantezza, le vostre sentenze lapidarie, il vostro vuoto emotivo e quella tristezza che vi aleggia intorno, che vi precede e vi segue e non sapete nemmeno riconoscerla, non sapete nemmeno chiamarla per nome. Ché se foste capaci di nominare le cose, di maneggiarle e di gestirle, sai che bel mondo sarebbe? Me lo domando, se m’avete uccisa. Seduta in questo non luogo, attraversando questo non tempo. In attesa. Un giorno legato all’altro e poi all’altro ancora, un calcio in bocca dopo l’altro. Ché li date così, negando l’evidenza. Negando il calcio in bocca. Con quei vostri piccoli occhi gelidi, con cui non riuscite nemmeno a guardarvi addosso. Chissà se m’avete uccisa, con la paura fottuta che avete di chi non ha paura della paura, del dubbio, dell’instabile e dell’incontrollabile. Con la paura che avete di chi non ha paura dei propri desideri. Con le vostre risate stentate, i vostri gesti invadenti. Con le vostre voci morte con cui articolate pensieri morti. Io vi osservo da qua, in questa assenza di parole, in questa assenza di immaginazione, seduta in questo non luogo attraversando questo non tempo. Vi osservo. Aspetto. E mi domando se m’avete uccisa. Perché io sono qua, e penso che m’avete portato via le parole, e la capacità di immaginare. E il piacere di bermi in silenzio un caffè e poi accendermi una sigaretta. Pensa un po’ come son strana. È la cosa che mi fa incazzare di più. M’avete tolto il piacere dell’ozio, del perdermi in un pensiero. E sto qui, e penso che m’avete tolto il sorriso e l’ironia. Che m’avete infettata, con il vostro procedere stanco e pallido. E prepotente, e arrogante. Penso che m’avete infettata, e mi domando se m’avete uccisa, uccisa veramente. Perché se fosse davvero così mi dispiacerebbe. Non tanto d’aver perso, quello capita. Mi dispiacerebbe vedervi vincere. E non potervi manco sputare in faccia.

Behind the Wall – Tracy Chapman [1988]

Io nel 1988 avevo dieci anni. E ascoltavo questa. Le parole sono come semi, che sedimentano e germogliano. Last night I heard the screaming Loud voices behind the wall Another sleepless night for me It won’t do no good to call The police Always come late If they come at all And when they arrive They say they can’t interfere With domestic affairs Between a man and his wife And as they walk out the door The tears well up in her eyes Last night I heard the screaming Then a silence that chilled my soul Prayed that I was dreaming When I saw the ambulance in the road And the policeman said “I’m here to keep the peace Will the crowd disperse I think we all could use some sleep” Last night I heard the screaming Loud voices behind the wall Another sleepless night for me It won’t do no good to call The police Always come late If they come at all Behind the Wall Tracy Chapman [1988] tracychapman.com

sestanti

Il padrone della festa Live – Fabi, Silvestri, Gazzè

poche, pochissime parole ultimamente, ma tanta musica questa in particolare e in fondo, di parole, tante comunque molto belle alzo le mani Nel mezzo c’è tutto il resto e tutto il resto è giorno dopo giorno e giorno dopo giorno è silenziosamente costruire e costruire è sapere e potere rinunciare alla perfezione [Costruire – Niccolò Fabi] Ma tu dormi ancora un po’ non svegliarti ancora no ho paura di sfiorarti e rovinare tutto no, tu dormi ancora un po’ ancora non so guardarti anch’io nel modo giusto nei tuoi occhi innocenti disarmanti devastanti quei tuoi occhi che ho davanti tienili chiusi ancora pochi istanti [Occhi da orientale – Daniele Silvestri] E tu sarai il pretesto per approfondire un piccolo problema personale di filosofia su come trarre giovamento dal non piacere agli altri come in fondo ci si aspetta che sia [Cara Valentina – Max Gazzè] L’amore se poi esiste è quest’idea di attaccamento che ha l’uomo del mio tempo per le tante storie viste non esiste fare i conti accontentarsi piano piano di una vita mano nella mano l’amore non esiste è un ingorgo della mente di domande mal riposte e di risposte non convinte vuoi tu prendere per sposo questa libera creatura finché Dio l’avrà deciso o solamente finché dura? Ma esistiamo io e te e la nostra ribellione alla statistica un abbraccio per proteggerci dal vento l’illusione di competere col tempo e non c’è letteratura che ci sappia raccontare i numeri da soli non riescono a spiegare l’amore non esiste, esistiamo io e te [L’amore non esiste – Fabi, Gazzè, Silvestri]

Maurizio Torchio [cit. Cattivi]

Ho paura. Mi vergogno a dirlo. Non lo dicessi, però, mi vergognerei di più. Ho paura perché ho speranza. Perché, assurdamente, sento di avere ancora qualcosa da perdere. È vero che ho il fine pena mai, ma le leggi cambiano… E poi,esiste pur sempre la grazia. Ho detto: So che la mia vita è finita… Be’, non è vero. Nessuno ha più speranza di chi è rinchiuso da tanto tempo; se non ti uccidi, accumuli fiducia nel dopo. È inevitabile. Come una grotta interna, dove cola speranza, Una riserva segreta. Non piove, perché non è in contatto col mondo. Ma neanche il sole, o il vento, possono seccare quel poco che, lentamente, si accumula. Stilla. Una goccia all’ora. Migliaia di litri in decine di anni. Un lago senza cielo, ma pieno di speranza. Mi vergogno più della speranza che della paura. Quando dieci anni fa ho smesso di fumare le guardie mi prendevano in giro. Cosa ti allunghi la vita a fare, mi dicevano. Io ho risposto: Smetto perché non voglio più aver bisogno dei soldi per le sigarette. Non voglio, un giorno, dovermi vendere per quello. E loro mi hanno creduto, rispettato. Non mi hanno più preso in giro. Mentre avrebbero fatto meglio a continuare, perché la verità è che ho smesso di fumare per vivere di più. Chi dice che in carcere si sta come in albergo sbaglia, perché niente come un albergo prosciuga la speranza. Fuori c’è un sacco di gente che dopo i cinquant’anni si ammazza, perché ha capito che il mondo non si aspetta più niente da loro. Tolto l’eredità, forse. Qui invece col fine pena a sessant’anni pensi di avere ancora tutto da fare. Di poter diventare astronauta, ballerino, imprenditore. Perché dietro hai poco. Come se le cose della vita stessero in un sacco, dove non puoi vedere, ma senti che pesa e comunque, se hai tirato fuori così poco, qualcosa dev’esserci rimasto. Maurizio Torchio Cattivi Einaudi

Letizia Muratori [cit. Come se niente fosse]

«Prima leggo, ma poi scrivo» le dissi. «Sul serio?» Giacinta smise di accarezzare Belli e dannati. «Sì, ricopio le pagine che mi piacciono su un quaderno». «Ma che stranezza». «È come disegnare, se sapessi disegnare le disegnerei, quelle pagine». «Interessante, e perché lo fai?». «Così mi sembra quasi di averle scritte io. E mentre copio mi sento meglio». «Però non si fa. Se ti piace scrivere, magari ispirati ai libri che leggi, e poi prova a buttar giù qualcosa di tuo». Per me scrivere era davvero come disegnare, un gesto della mano. Dovevo allenarmi, tentare di riprodurre quegli spazi sicuri e inaccessibili, e così cominciai a fare come con le imitazioni. A imitare ero proprio brava, tutti mi chiedevano sempre: ti prego, facci questo e quello. A un certo punto, da un deserto di pensiero mi veniva fuori qualcosa che non aveva più niente a che fare con il modello, ma era un’invenzione di gesti e battute su cui potevo andare avanti a oltranza. Ci provai: dal copiato passai all’imitazione. Riga dopo riga, percorrendo quelle pagine con l’accanimento di chi va in bici a rotelle, vennero fuori i miei primi, stentati paesaggi. Avevo imparato a pedalare, e potevo cadere in ogni momento, ma non tornare indietro. Letizia Muratori, Come se niente fosse Adelphi

Milena Busquets [cit. También esto pasará]

Yo no puedo abrir un libro sin desear ver tu cara de calma y de concentración, sin saber que no la veré más y, lo que tal vez sea incluso más grave, que no me verá más. Nunca volveré a ser mirada por tu ojos. Cuando el mundo empieza e despoblarse de la gente que nos quiere, nos convertimos, poco a poco, al ritmo de la muertes, en desconocidos. Mi lugar en el mundo estaba in tu mirada y me parecía tan incontestable y perpetuo que nunca me molesté en averiguar cuál era. No está mal, he conseguido ser una niña hasta lo cuarenta años, dos hijos, dos matrimonios, varias relaciones, varios pisos, varios trabajo, esperamos que sepa hacer la transición a adulto y que no me convertía directamente en una anciana. No me gusta ser huérfana, no estoy echa para la tristeza. O tal vez sí, tal vez sea del tamaño exacto de la pena, tal vez sea ya lo único vestido de mi talla. Milena Busquets, También esto pasará Editorial Anagrama

come piombo

vuoto solido compatto piombo nebbia umida melmosa rete inciampo cado non mi alzo inutili schegge flebili non riesco più posso solo ricordare stanze e strade e persone movimenti desideri visioni costruzioni per poi restare senza fiato e male alle mani male al cuore e la paura non vedermi più con quello sguardo quel respiro quella gioia quel sentirmi sulla cima quel sentirmi in mezzo al mare barcollo non penso non posso pensare se penso sbatto contro il vuoto solido compatto come piombo faccio un passo so farlo so fare anche quello dopo ma poi trovo il vuoto solido compatto piombo respiro mi dico va bene mi dico doveva andare così ma non doveva andare così non sono capace sono stata capace non sono capace abbastanza dove ho sbagliato cosa ho sbagliato faccio un passo faccio un pensiero non respiro blocca aria blocca corpo sono ferma immobile senza memoria senza come si fa paura cosa amo come si fa riconoscersi caos codifica come si fa mi salta un battito salto mi scattano i nervi scuoto la testa le gambe le braccia nebbia silenzio spasmi dolore buio silenzio spasmi dolore buio silenzio spasmi dolore buio silenzio spasmi dolore buio silenzio spasmi dolore buio lascio andare cancello non penso muscoli contratti corti atrofizzati incapaci incapace le ho perse non le ho tenute strette sono scivolare nella nebbia melmosa rete acido ovatta spilli sotto le unghie fatica ossessione perdita se allungassi una mano se smettessi di pensare respirare guardare assaggiare sognare gesti interrotti pensieri ignobili fallimento pigrizia parole senza parola silenzio vuoto solido compatto piombo nebbia umida melmosa rete inciampo cado non mi alzo di nuovo un’altra volta non esco non si esce non si può uscire stessa strada avanti indietro febbre delirio apnea isterica trottola scarica pietosa impietosa disperata cercare sassi biglie pietre un luccichio una finestra una luce una parola uno sguardo una frase un colore un odore come prima come sempre come sarebbe dovuto essere mi aggrappo sorrido parlo vivo cerco non trovo insisto mi ignoro passo oltre passo altrove ballo vivo cerco non pensare non pensare non pensare lascia andare non è niente sassi biglie pietre un luccichio una finestra una luce una parola uno sguardo una frase un colore un odore come prima come sempre come sarebbe dovuto essere non questo vuoto solido compatto piombo

(non) recensioni di libri

L’amica geniale (quattro volumi) – Elena Ferrante – (non) recensione

Per scrivere dei quattro volumi de “L’amica geniale” di Elena Ferrante devo chiudere gli occhi, per afferrare tutto, e trattenere il fiato, per fermare le immagini, le sensazioni. Le parole. Occhi chiusi e fiato sospeso per tenere insieme la scrittura, i personaggi, la trama, le trame. Le storie. Ma tutto si mescola. Si smargina. Solo un sentire emerge e resta a galla. Il senso di appartenenza. Ma non sono questi quattro libri ad appartenermi. Sono io che appartengo a loro. E credo sia la prima volta che mi capita. Appartengo alla scrittura della Ferrante, netta e poetica, onesta, viva. Dura e delicata. Appartengo Lila e Lenù, imperfette e reali, che la narrazione mi porge vive nella loro ricerca di un posto nel mondo, nei mondi. Nel micro e nel macro, nel personale e nel politico. Appartengo alla rabbia e alla disperazione, al tagliarsi e poi ricucirsi, allo sfarsi e poi ricomporsi. Appartengo a quell’affetto profondo e a quel senso di famiglia al di là della famiglia. Ai corpi esplorati, rifiutati, cercati, odiati e amati. Appartengo allo spogliarsi e al rivestirsi. Appartengo agli amori sfibranti. A quel senso di sé sfuggevole, mutevole, in balia di dubbi e paure. Come il sali scendi della marea. Appartengo all’infanzia che resta nei gesti, nelle parole e nelle scelte. Nel bene e nel male. Appartengo al percorso di liberazione dall’approvazione dello sguardo altrui. Al desiderio incessante di dare un senso alle cose attraverso la scrittura. Alla volontà di esserci, alla paura di essere. Appartengo alla cattiveria, ai sentimenti sporchi e al tentativo di nasconderli. Appartengo alla realtà narrata nel suo fluire, senza argini, senza sconti, senza abbellimenti. Appartengo alle bugie dette per sopravvivere, alle verità urlate per non soccombere. Al perdersi e ritrovarsi. Ad occhi chiusi, con il fiato sospeso. Elena Ferrante L’amica geniale 2011 e/o p. 400 Elena Ferrante Storia del nuovo cognome, l’amica geniale volume secondo 2012 e/o p. 480 Elena Ferrante Storia di chi fugge e di chi resta, l’amica geniale volume terzo 2013 e/o p. 382 Elena Ferrante Storia della bambina perduta, l’amica geniale quarto e ultimo volume 2014 e/o p. 451

Esserci

Esserci. Essere nel mondo. Essere nella realtà là fuori, dove poco o niente combacia con quello che vorrei. Resistere alla tentazione di chiudere le comunicazioni. Resistere alla tentazione di ignorare, non sentire, non vedere, non parlare, non pensare. Non soffrire. Esserci, e in ogni piccolo gesto, in ogni piccola parola, cercare il modo, i modi, di far combaciare l’essere e il potere essere. Opporsi al procedere distorto. Non tacere, prendersi i rischi e le responsabilità. Esserci, la fuori, tra le cose e le persone, seguendo traiettorie diverse. Non cedere. Anche se sembra inutile. Anche se indietro tornano sguardi e parole che, di nuovo, sempre, il più delle volte, non combaciano con l’intenzione. Non combaciano con il desiderio. La marea che ti strattona e ti spinge indietro, la marea che si mangia ogni volta un pezzo. La marea che ti sommerge. La marea che ti toglie il fiato e spezza, a tratti, la fermezza. Del corpo, della mente. Esserci. Essere, là fuori. Nonostante tutto.

(non) recensioni di libri

Passaparola. A murder mystery – Simon Lane – (non) recensione

“Ma purtroppo la verità, come la luce, la senti tua in modo speciale quando sei l’unico a vederla, né ti immagini che gli altri riescano a percepirla come te, ammesso e non concesso che la vedano. Ognuno guarda il mondo con i propri occhi, e questo include la verità, che lo si voglia o meno, vale a dire che se anche tutti fossero onestissimi, cosa che non sono, persino allora la verità continuerebbe a essere una faccenda personale, un po’ come l’amore o la scelta di mangiare a colazione il croissant o il pain au chocolat, oppure uova e bacon se sei mister Penfold.” Passaparola è Felipe. Felipe che ad un registratore racconta come sono andate le cose, dall’inizio. Perché è questo che gli ha chiesto il suo avvocato. E Felipe racconta. Racconta i fatti, racconta se stesso. E l’amore e la solitudine. Racconta le persone dal suo personalissimo, invisibile, punto di vista. Racconta della luce che ogni giorno si posa sul pavimento, delle stanze che devono essere pulite e delle persone che non possono essere pulite fino in fondo. Felipe racconta di quel giorno lunghissimo, il giorno più lungo dell’anno. Racconta l’arte, i film e i libri. Racconta la scrittura e anche uno scrittore. Felipe racconta il genere umano nelle sue più semplici ma reali sfumature. Felipe racconta i fatti, dall’inizio, perché è quello che gli ha chiesto l’avvocato. Perché se non è stato lui ad uccidere monsieur Charles bisogna provare a capire chi è stato. Felipe è uno  di quei personaggi di carta che vorresti incontrare per poterci parlare, con la sua leggerezza, la sua fragilità e la sua filosofia. E Passaparola è un libro da cui si dovrebbe e potrebbe fare un film. Per le strade di Parigi. O adattarlo per il teatro. Un lungo monologo pieno di poesia, in scena un uomo e un grosso bidone per la raccolta differenziata. Non conoscevo questo libro, “Passaparola. A Murder Mystery”. E nemmeno il suo autore, Simon Lane. Ringrazio la 8libriedizioni per avermelo segnalato. Passaparola. A murder mystery Simon Lane Ottolibriedizioni pp. 192 traduzione di Cristina Ingiardi copertina di Stefania Morgante

Mi tremano le mani.

Mi tremano le mani. A voler essere precisa, mi trema la mano destra. Da quando non lo so, o forse sì. Mi trema la mano destra, come volesse compiere un gesto che la mente, però, si rifiuta di coordinare. Un gesto che tutto il corpo si rifiuta di sostenere. Mi trema la mano destra, ma non sempre. Mi trema la mano destra quando qualcosa colpisce la mia attenzione, quando una parola esplode. Quando una frase si sedimenta e attende. Inutilmente. Trema, perché saprebbe compierlo quel gesto se solo mente e resto del corpo non si rifiutassero ostinatamente di collaborare. Trema, e fa male.

(non) recensioni di libri

Dettato – Sergio Peter – (non) recensione

Dettato è il primo titolo della collana romanzi della casa editrice Tunué, ed è anche, e soprattutto, il primo romanzo di Sergio Peter. Solitamente non inserisco questo genere di informazioni quando scrivo dei libri che leggo (e che mi sono piaciuti) ma in questo caso, non so, mi sembrano dettagli importanti. Primo titolo di una nuova collana, di una casa editrice specializzata in graphic novel e saggistica, primo romanzo. Già che ci sono. Altri due dettagli. Questo romanzo ha una grafica di copertina impeccabile ed è registrato sotto licenza Creative Commons. E quest’ultimo, di dettaglio, chi frequenta me e questo blog lo sa, fa guadagnare un sacco di punti all’autore e alla casa editrice. Detto questo. Dettato è un libro morbido, e gentile, che mi ha fatto commuovere e mi ha fatto sorridere. È un libro che sembra affidarsi completamente alla parola, al suo suono, al suo significato, a quel potere evocativo che apre mondi dopo mondi, aggrappandosi ad un’immagine dietro l’altra. Alla musica delle parole che formano frasi intercalate dalla giusta punteggiatura. Dettato è un libro intimo, un libro che parte dal sé dell’autore ma che è comunque riuscito ad essere anche mio. È una scrittura che sperimenta la possibilità di mescolare la prosa e la poesia per offrire a chi legge il suo personalissimo percorso di lettura, senza lacci, senza percorsi obbligati. Quasi senza una guida. Dettato non ha una trama riconoscibile, se non quella, forse fragile ma forse per questo efficace, costruita attraverso l’andare dei ricordi, il susseguirsi di personaggi e paesaggi. Dettato è casa, è famiglia, è origini. Le voci e i corpi, e i sentieri. Come frugare in una scatola piena di vecchie fotografie. L’abitato, in alto, si confonde col bosco; mi cade una rosa bianca in testa. Più in là di qualche passo parte il sentiero che porta a Madri, dove a certe case rurali diroccate hanno rubato le madonnine dalle nicchie sopra le porte. I gatti si sfidano sui tetti a prendere insetti; si fanno amici, per il latte, i pochi abitanti. Una stalla con numero civico 4 e la cassetta della posta arrugginita sta per crollare con davanti la vecchia rete di un letto di ferro. Le nonne che vedo sulle soglie delle case si nascondono subito per non mostrare le vestaglie scolorite. I vasi caduti per il vento, nelle corti dove l’erba è troppo alta, i tavoli appoggiati in verticale alle pareti, le due pecore magre addormentate in un angolo, mi dicono il silenzio. Ah, Sergio Peter ha scritto e pubblicato racconti. E si sente. E per me, e pure questo chi  frequenta me e questo blog lo sa, è un complimento. Dettato Sergio Peter Tunué | collana romanzi progetto grafico Tomomot, Venezia

sestanti

parole belle

queste sono le mie due nuove parole preferite Amélie Nothomb La nostalgia felice Voland, collana amazzoni

(non) recensioni di libri

Stati di grazia – Davide Orecchio – una (non) recensione

[…] È colpa dei soprusi, della guerra per la vita, dell’ozio negato, della penuria, dell’insussistenza, dello squallore, dei rapporti di forza, delle classi, dei dipartiti che bussano sulla memoria oppure la scorticano. Quanto pesano fatica e schiavitù? Perché ha viaggiato fin qui, se ora prende nuovi ordini? In Sicilia era servo sottoterra, adesso lo è sotto il sole: cambia la luce e nient’altro. Spiegami cosa sarebbe questa felicità si domanda e risponde: Non «cosa», ma «dove»: abita con noi, striscia nell’orto, dorme sotto la brace. È qui, l’abbiamo portata assieme a tavolo e brande. Non la vedi? Non la vede. Resta triste. Non si fa una ragione e odia tutto quel vero. Odia il dominio, le angosce nel corpo. Tiene lo sguardo tra i rovi. Non è diverso da quello che era. […] Stati di grazia di Davide Orecchio, pubblicato da ilSaggiatore, è molto ma molto di più di questa citazione. Molto ma molto di più. Quella scritta qua sopra è solo una goccia, è solo una delle mille parti di questo libro che avrei potuto scegliere come inizio di questa (non) recensione. Stati di grazia è scrittura e Scrittura, una storia e una Storia. La Storia. Anche, in un certo senso. Stati di grazia è un viaggio per mano alle protagoniste e ai protagonisti, un viaggio che non saprei definire perché in fondo sto scrivendo di questo libro ma mi mancano le parole per farlo. Forse perché di parole, belle, giuste, precise, dosate, scagliate, appoggiate, urlate, sussurrate, scelte, allineate, compatte, giù come un’onda anomala inarrestabile questo libro ne è pieno, pieno zeppo. Pieno di parole, di virgole e di punti. Punti, soprattutto. Un’onda anomala potentissima e dolcissima, spaventosa e reale. Dicevo, un viaggio. Un viaggio umano e doloroso. Un viaggio forte e rabbioso. Come è la Storia, umana, dolorosa, forte e rabbiosa quando la si guarda da dentro, quando la si guarda per mano a qualcuno. Ma mi fermo qua, perché in fondo sto scrivendo di questo libro ma mi mancano le parole per farlo. Mi mancano sempre, le parole, quando un libro me ne regala così tante. Stati di grazia Davide Orecchio ilSaggiatore p. 309 collana La cultura

Murakami Haruki [cit. da L’arte di correre]

Può darsi che il numero di copie vendute, i premi letterari, le recensioni dei critici costituiscano dei criteri in base ai quali giudicare il risultato, ma non sono l’essenziale. Ciò che conta, più di ogni altra cosa, è che l’opera compiuta corrisponda ai criteri che lo scrittore stesso ha stabilito, e in questa valutazione non gli sarà facile barare. Davanti agli altri bene o male si possono trovare dei pretesti, ma ingannare se stessi è impresa ben più ardua. In questo senso scrivere un libro è un po’ come correre una maratona, la motivazione in sostanza è della stessa natura: uno stimolo interiore silenzioso e preciso, che non cerca conferma in un giudizio esterno. Murakami Haruki, L’arte di correre [Einaudi]

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