Sempre per la serie teniamoci in allenamento. Un po’ perché è già da tempo che ragiono sullo scollamento e da qualche parte dovevo pur cominciare. Un po’ è colpa della mia passione per l’estremismo surreale della Nothomb. E poi perché forse Mariarosa è un personaggio interessante. Buona lettura!
– Come si sente oggi?
– Perché mi fa sempre questa domanda?
– È il mio lavoro.
– E il mio è risponderle?
– Se vedere le cose in questo modo la aiuta, diciamo che sì, questo è il suo, di lavoro.
– Non mi aiuta.
– E cosa la aiuterebbe?
– Credo che sia questo il suo lavoro.
– Cosa intende dire?
– Trovare il modo di aiutarmi.
– Vuole essere aiutata?
– Non ho detto questo.
– E cosa ha detto?
– Credo che sia questo il suo lavoro. Trovare il modo di aiutarmi.
– E lei vuole, essere aiutata?
– Anche questo me lo domanda sempre. Mi domando se c’è una risposta giusta.
– Giusta per chi?
– È lei che l’ha chiesto. C’è qualcosa che vuole sentirsi dire?
– Pensa questo?
– Io non penso niente. Le mie sono ipotesi. Per questo faccio delle domande.
– E invece io perché le faccio delle domande?
– Perché vuole aiutarmi?
– Certo che voglio aiutarla, Mariarosa.
– Perché è il suo lavoro. Lo so, dottore.
– Allora, Mariarosa, me lo vuole dire come sta oggi?
– Sto come ieri, dottore. Sto come domani.
– Mariarosa, lei sa bene perché è qui, vero?
– Sono qui perché sono triste, dottore.
– Lei è qui perché è depressa, non triste. Quello che lei ha, Mariarosa, si chiama depressione.
– Come vuole lei, dottore. Lei può chiamarla depressione, io la chiamo tristezza.
– Va bene. E se le chiedo perché è triste, mi sa dare una risposta?
– Sono sempre stata triste. È la mia natura, non sono diventata triste per qualcosa che mi è successo.
– Non esiste la tristezza per natura, Mariarosa.
– Io esisto, dottore. E le ripeto che sono sempre stata triste. Io sono così.
– I suoi familiari, quando l’hanno portata qua non ci hanno detto che è sempre stata triste. Ci hanno chiesto di aiutarla perché lo era diventata.
– La mia famiglia confonde l’inizio con il momento in cui ha realizzato. Vede, non ho tutti i torti comunque, ad essere triste, se nemmeno loro si sono accorti che lo sono sempre stata.
– È arrabbiata con la sua famiglia, Mariarosa?
– No, dottore. Non sono arrabbiata con la mia famiglia, perché dovrei?
– Ha detto che non si sono mai accorti che fosse sempre stata triste. Questa cosa la fa arrabbiare?
– No. La tristezza si mangia tutto, anche la rabbia. E in fondo, penso sia una cosa positiva.
– Essere triste?
– No, essere triste è naturale. È positivo che quando si è tristi non si riesce ad essere contemporaneamente anche arrabbiati.
– Interessante, Mariarosa. Però lei deve capire che la tristezza non è una cosa positiva.
– Non lo è, dottore?
– No. E deve anche capire che questa sua condizione non è irreversibile. Mariarosa, lei può e deve guarire.
– Dottore, non si guarisce dalla propria natura. Forse è lei che dovrebbe capire.
– Capire che cosa? Si spieghi meglio.
– Che questa sono io, che questa tristezza sono io.
– E se lo capissi cosa cambierebbe per lei?
– Cambierebbe molto. Perché se capisce che non c’è niente da curare smette anche di volermi aiutare.
– Così non le farei più domande a cui non vuole rispondere, Mariarosa?
– No, dottore. Così potrei smettere di essere triste almeno per qualcosa.
– Per che cosa?
– Per questa cosa che lei si preoccupa per me. Che tutti vi preoccupate per me. Questo fa si che altra tristezza si appoggi sulla mia tristezza naturale. E si sa, su un terreno fertile un seme cresce florido.
– Quindi, da quello che capisco, lei vorrebbe essere solo lasciata in pace. È giusto?
– Queste sono parole ruvide. Preferisco pensare che mi piacerebbe essere lasciata libera di essere quello che sono.
– E chi è, lei?
– Una persona triste. Io sono triste.
– E non le piacerebbe cambiare?
– Ci ho pensato. Me lo sono chiesto molto tempo fa.
– E cosa si è risposta?
– Gliel’ho già detto. Non si muta la propria natura. Quando ci si conosce come mi conosco io si arriva a capire che non c’entra il desiderio.
– E che cosa allora?
– Accettare la propria natura. Il gioco della vita sta tutto qua. Accettare la propria natura.
– E lei ha accettato la sua, Mariarosa? Ne è sicura?
– Sicurissima, dottore.
– E questo come la fa sentire?
– Serena.
– Mariarosa, si rende conto che non si può essere sereni nella depressione?
– Io non sono depressa dottore, mi creda.
– Come preferisce. Ma la domanda non cambia. Lei sa che non si può essere sereni nella tristezza?
– E perché no?
– Perché la serenità è un sentimento che si sviluppa in un contesto di soddisfazione per la propria vita, per le sicurezze che siamo riusciti a costruire dentro di noi.
– Sono perfettamente d’accordo con lei. Non poteva trovare parole migliori per descrivere come mi sento.
– Quindi, Mariarosa, lei mi sta dicendo che oggi si sente soddisfatta?
– No, dottore. Non sto dicendo questo.
– E cosa mi sta dicendo?
– Le sto dicendo che sono serena, che sono sicura di me nell’accettazione della mia natura triste.
– Non credo di capire.
– Non mi stupisce.
– Si spieghi meglio, la prego, Mariarosa.
– Io sono in pace con me stessa. Io non fingo qualcosa che non c’è, io non cerco qualcosa che non desidero. Io non sono scollata.
– Scollata.
– Scollata da me stessa. Io non cerco di nascondere la mia natura, io seguo la mia natura. Non camuffo me stessa per trovare un posto in mezzo alle persone, non accontento gli altri, non mi nascondo. Capisce dottore?
– Non lo so.
– Lo so, lo so, non è facile. Ma faccia uno sforzo, immagini. Immagini che quello che lei è non differisca in nulla rispetto a quello che di lei appare. Immagini di essere, semplicemente questo. Essere. Senza doversi mettere abiti non suoi per non creare turbamenti nell’altro. Senza dicotomie, senza fratture nell’anima, senza strappi. Immagini semplicemente di essere quello che è. Di poterlo essere perché ha fatto pace con la sua natura.
– Essere quello che uno è.
– Si, dottore. Si tratta di questo. Io sono una persona triste, non rido, niente mi fa sentire felice, nemmeno l’amore. La mia anima è buia, incapace di provare piacere. Tutto mi fa sentire triste.
– Ma è capace di essere serena?
– Certo dottore. Perché accetto me stessa e non fingo di essere quello che non sono. Io non ho maschere, non recito un ruolo, non ho un copione da ripassare ogni mattina prima di uscire di casa. Non ho battute da scambiare con altri attori sul palco della vita.
– Mariarosa, si rende conto che mi sta dicendo che lei è
– Io sono cosa dottore?
– Felice.
– Non dica sciocchezze, la prego.
– Non sono sciocchezze. Lei è felice.
– Mi ascolti bene dottore. La felicità non esiste.
– Mariarosa, lei sa che questo non è vero.
– Dia retta a me. Chiamiamo felicità quei brevi attimi, quei battiti di ciglia in cui riusciamo, riuscite, in verità, ad ingannarvi, a dirvi ‘come è bella la vita’. Ma ci ha mai fatto caso, dottore?
– A cosa?
– Che si è felici solo e sempre per un motivo esterno da noi. Alla domanda perché sei felice abbiamo sempre una risposta. Ma se uno ci domanda perché siamo tristi, a volte capita di non saperlo, questo benedetto perché, e capita di rispondere non lo so. E lei lo sa perché succede questo, dottore?
– No, Mariarosa, non lo so.
– Perché la tristezza, a differenza della felicità, non è un sentimento indotto. La tristezza è. La tristezza esiste.
– Mariarosa, la prego.
– Mi ascolti, dottore. La tristezza esiste, indipendentemente da noi, indipendentemente dai casi della vita. La felicità dipende sempre e solo da quello che ci capita, dottore. Mi creda. La tristezza esiste a priori, la felicità capita come conseguenza..
– Ma perché, Mariarosa, perché?
– Questo non lo so. Certe risposte le lascio ai filosofi. O ai dottori.
– Mariarosa.
– Mi dica.
– Mariarosa.
– Dottore ma che fa?
– Niente.
– Dottore non faccia così, su, coraggio.
– Non è niente. Solo, alcune parole, sa, possono fare male. Ma non è niente. Niente.
– Dottore, la prego, non finga con me. Pianga pure, non si preoccupi.
– Lei deve conoscere bene le lacrime.
– No, dottore. La mia tristezza non porta lacrime. È una condizione dell’anima. La mia anima. Ma non parliamo di me, dottore. Mi dica di lei, lei come si sente?
4 risposte
Buondì.
sono Josè Pascal (figlio del fù Mattia Pascal e Ederì Buendìa discendente del grande colonnello Aureliano Buendía) e navigando sul web mi sono felicemente imbatutto nel suo blog.
Volevo segnalarLe la mia iniziativa “culturale e senza scopo di lucro” dal titolo “In Parole Semplici” http://parolesemplici.wordpress.com/mi-presento/ .
Per avere maggiori informazioni sui contenuti trattati clicchi qui: http://parolesemplici.wordpress.com/inserisci-nella-scatola/
Con grande piacere La invito a scrivere ed inviare i suoi preziosi contributi.
Grazie per l’attenzione e buona giornata.
Resto a sua disposizione.
Cordialmente
Jose,
ti ringrazio molto per l’invito. Sbircerò con piacere tra le tue pagine!
A presto,
Mia
Grazie Mia.
ogni volta tu vorrai nella scatola di latta scriverai