Ci ho messo un po’ a trovare le parole per parlare di questo libro della Matteucci. Evidentemente avevo bisogno che le parole lette trovassero il loro spazio. Le ho lasciate sedimentare, per provare a centrare meglio il punto.
Prima un appunto del tutto personale. Non capita spesso, ma a volte succede. Aprire un libro, iniziarlo, e rendersi conto, con un leggero brivido di stupore, che quello che stiamo leggendo prende perfettamente posto nei pensieri del momento. È un periodo che nella mia testa passeggiano parole come famiglia, memoria, passato, frammenti che sommandosi danno come risultato la persona. Questo libro combacia perfettamente con questi pensieri.
A pagina quindici si legge,
“Nella campagna militare che sto per intraprendere le mie uniche alleate saranno le parole. Ecco, mi appresto a combattere. Non devo tralasciare alcun dettaglio per infimo che sia. Ho indossato la mimetica e tutta la santabarbara ad armacollo: pronomi, aggettivi, verbi, figure retoriche, arcaismi. Ho persino una confezione da borsetta di spry antistupro, per difendermi dai neologismi.”
Questa entrata in guerra armata di parole produce passaggi come questi,
“Pascetevi degli scarti della memoria, di questo tempo che è fuggito e che più non torna.
Delle occasioni mancate, delle fatalità, dei casi strani e della fatica di vivere che grava sul cuore. Amatevi l’un l’altro, sempre anche a costo di venir rifiutati, ma amatevi. Siate come la lepre, come il pipistrello, perché la determinazione a vivere sempre prevarrà di fronte alle disgrazie.
Perché a me la pena di vivere mi prese sin dalla nascita, le sono appartenuta da subito senza opporre la minima resistenza, perché ad essa ero votata già molto tempo prima di nascere.”
Questa entrata in guerra, spietata, da vita ad una immersione nella memoria, una dissezione chirurgica e implacabile di un passato che torna, un passato fatto di luoghi, oggetti, odori, abitudini familiari, tic, ossessioni. Dettagli che sommati uno dopo l’altro, uno sopra l’altro, ci restituiscono un affresco di vita personale ma insieme anche collettivo.
Questo libro è un mosaico fatto di piccoli e grandi frammenti, accostati così come memoria e necessità impongono.
Ricordi, schegge.
Che odorano e fanno rumore. Ancora e ancora.
Un distillato di ironico cinismo, dolore che a tratti è rabbia, che si mescola al profondo amore e si manifesta nel sorriso beffardo di chi sa che le cose devono essere chiamate con il loro nome per poterle guardare dalla giusta prospettiva, dalla necessaria distanza per poterle chissà, magari, archiviare.
L’autrice ci offre una catarsi, la sua, che possiamo fare nostra. Liberarci, magari. Magari, riprendere la giusta distanza.
Tutto fissato sulla carta con una padronanza della lingua italiana davvero invidiabile, una narrazione che corre, sale, si arrampica, si avvolge su stessa, gira, torna indietro e riparte, con un ritmo che non cala mai di tono, con digressioni che non stancano e descrizioni che non lasciano dubbi, e che spesso porta il sorriso a trasformarsi in sonora risata.
Tutta mio padre
Rosa Matteucci
p. 286
Bompiani