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Il tarlo ippopotamo – V

E cinque. Qui il primo capitolo, qui il secondo, qui il terzo e qui il quarto.

Olè!

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V

A riparlarlo ci hanno messo solo due giorni.
La terza volta cinque.
La quarta sette.
La quinta di nuovo dieci giorni.
E ormai il mio tarlo era grosso come un ippopotamo.
Un’ossessione grigia, con dentoni enormi, che non mi faceva lavorare, non mi faceva dormire, mi rendeva difficile mangiare e vincere a pinnacolo. Mia sorella voleva assolutamente che andassi dal medico di famiglia a fare un check up completo. Sergio, Mario e Antonio cercavano di capire cosa non andasse, ma io non riuscivo a spiegare il motivo del mio malessere. Non riuscivo né con loro né con nessun altro a parlare del mio tarlo ippopotamo, della mia vita fatta a pezzi da un lampione, della mia tranquillità annegata in un bagliore arancione.
La sesta tre.
La settima otto.
L’ottava volta hanno suonato alla porta.
Pallido, ancora in pigiama, avevo appena chiamato a lavoro per prendermi il terzo giorno di malattia di tutta la mia carriera. Il primo era stato sedici addietro, per un’otite, il secondo cinque anni dopo, di nuovo per l’otite.
Sono andato ad aprire e mi sono trovato davanti Alfonso, il vigile, ed una voragine mi si è spalancata sotto i piedi.
– Giovanni, ti disturbo? Devi andare a lavoro?
– No, no. Oggi non vado, non mi sento bene. Che succede?
– Non mi fai entrare? Avrei proprio bisogno di un caffè.
– Sì. Certo, entra pure.
L’ho fatto accomodare mentre tutta la casa sembrava gridare alla mia colpevolezza.
Ho barcollato dietro ad Alfonso che si è diretto senza esitare verso la cucina.
Lo sa, ho pensato. Lo sa, da sempre, dalla prima volta che ho preso in mano quel dannato sasso. Lo sanno tutti. Perderò il lavoro, perderò l’amore e il rispetto della mia famiglia, dei miei amici.
Alfonso si è seduto e io mi sono messo a preparare il caffè.
– Hai proprio una bella casetta Giovanni. E il giardino, è proprio un piccolo gioiello.
La moca mi scappa di mano, fracassandosi sul pavimento, acqua e polvere sparse e spalmate sulle mattonelle.
Lo sa, eccome se lo sa.
– Scusami.
– E di cosa? Scusami tu. Stai male e io mi faccio preparare un caffè.
Sedermi con lui, faccia a faccia a quel tavolo, era il primo dei miei incubi. Fare il caffè significava non doverlo guardare negli occhi.
– Ma figurati, ci mancherebbe altro.
Mi sono chinato a raccogliere tutto e ho ricominciato da capo.
– Ma veniamo al motivo della mia visita.
Tanto così, c’è mancato tanto così che mi mettessi in ginocchio, nell’acqua e nella polvere, a confessare tutto, tra le lacrime, ad ammettere di essere solo un vile, un teppista, un delinquente, un rifiuto.
– Ti sarai sicuramente accorto che c’è qualche buontempone che si diverte a prendere a sassate il lampione qua davanti.
Eppure qualcosa mi teneva chiuso nel mio silenzio, ancorato alla moca, alla manopola del fornello.
– Sì. Ho notato che a volte non si accende. Ma non sapevo che fosse perché qualcuno lo prende a sassate.
La menzogna m’è uscita così, sottile, viscida, mentre accendevo il gas e mi muovevo nella mia cucina per prendere zucchero e tazzine.
– A sassate, sì. Crediamo si tratti di qualche ragazzino della zona. Tu hai notato nessuno, non hai mai sentito niente? Ho già chiesto ai tuoi vicini, qualcuno di loro ha sentito il rumore di vetri frantumati ma non hanno mai visto nessuno.
Nessuno mi ha visto, nessuno lo sa. Nemmeno Alfonso.
– No, mi dispiace. Ora che mi ci fai pensare effettivamente ho sentito anche io qualcosa, ma sai, la televisione, la radio. Non ci ho fatto molto caso.
Sottile, viscida.
– Immaginavo, ti conosco, se avessi visto qualcosa saresti venuto subito a parlarne con me.
– Certamente.
– È davvero insolito, comunque.
– Cosa?
Ho appoggiato le tazzine e lo zucchero sul tavolo e sono andato a spegnere il fuoco. Ho cercato la presina, a lungo.
– Quest’accanimento su un solo unico lampione, quando in questa strada ce ne sono almeno venti.
Ho trovato la presina, ho afferrato il manico della moca. Un goccio di caffè bollente è atterrato sulla mia pantofola destra. Ho versato il caffè.
– Cosa vuoi che ti dica, Alfonso, la gente è strana, e se non lo sai tu che fai il vigile e che ne vedi una ogni giorno non so davvero chi possa saperlo.
Mi sono seduto. E l’ho guardato mentre metteva nel suo caffè due cucchiaini di zucchero.
– Hai ragione. Ma devo risolvere questa faccenda o dal Comune non mi daranno pace.
– Immagino – gnac gnac gnac gnac – e chi è il responsabile, adesso?
– Quel pignolo del Tugnetti, hai presente? Fa l’assessore del decoro urbano e si comporta come fosse il presidente degli Stati Uniti.
Gnac gnac gnac gnac.
– Lo conosco, di vista.
– Che razza di assessorato è poi, quello del decoro urbano, ancora me lo devono spiegare. Comunque, mi manderà al manicomio con questa storia. Buono il caffè.
Gnac gnac gnac gnac.
– Quindi è lui che si occupa di questo genere di cose?
– Sì. Senti Giovanni, domani mattina vengono a sistemare di nuovo il lampione. Fai attenzione se vedi qualcosa, dai un occhio insomma. Così mi libero di Tugnetti una volta per tutte.
– Ma certo Alfonso, ci mancherebbe. Se vedo qualcosa ti faccio sapere.
– Grazie Giovanni. Adesso vado, così ti puoi rimettere a letto.
Ci siamo alzati, l’ho accompagnato alla porta, l’ho salutato e guardato andare via.
Gnac gnac gnac gnac.
Gnac gnac.
Gnac.

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a mercoledì 29

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