«Prima leggo, ma poi scrivo» le dissi. «Sul serio?» Giacinta smise di accarezzare Belli e dannati. «Sì, ricopio le pagine che mi piacciono su un quaderno». «Ma che stranezza». «È come disegnare, se sapessi disegnare le disegnerei, quelle pagine». «Interessante, e perché lo fai?». «Così mi sembra quasi di averle scritte io. E mentre copio mi sento meglio». «Però non si fa. Se ti piace scrivere, magari ispirati ai libri che leggi, e poi prova a buttar giù qualcosa di tuo». Per me scrivere era davvero come disegnare, un gesto della mano. Dovevo allenarmi, tentare di riprodurre quegli spazi sicuri e inaccessibili, e così cominciai a fare come con le imitazioni. A imitare ero proprio brava, tutti mi chiedevano sempre: ti prego, facci questo e quello. A un certo punto, da un deserto di pensiero mi veniva fuori qualcosa che non aveva più niente a che fare con il modello, ma era un’invenzione di gesti e battute su cui potevo andare avanti a oltranza. Ci provai: dal copiato passai all’imitazione. Riga dopo riga, percorrendo quelle pagine con l’accanimento di chi va in bici a rotelle, vennero fuori i miei primi, stentati paesaggi. Avevo imparato a pedalare, e potevo cadere in ogni momento, ma non tornare indietro. Letizia Muratori, Come se niente fosse Adelphi
Per scrivere dei quattro volumi de “L’amica geniale” di Elena Ferrante devo chiudere gli occhi, per afferrare tutto, e trattenere il fiato, per fermare le immagini, le sensazioni. Le parole. Occhi chiusi e fiato sospeso per tenere insieme la scrittura, i personaggi, la trama, le trame. Le storie. Ma tutto si mescola. Si smargina. Solo un sentire emerge e resta a galla. Il senso di appartenenza. Ma non sono questi quattro libri ad appartenermi. Sono io che appartengo a loro. E credo sia la prima volta che mi capita. Appartengo alla scrittura della Ferrante, netta e poetica, onesta, viva. Dura e delicata. Appartengo Lila e Lenù, imperfette e reali, che la narrazione mi porge vive nella loro ricerca di un posto nel mondo, nei mondi. Nel micro e nel macro, nel personale e nel politico. Appartengo alla rabbia e alla disperazione, al tagliarsi e poi ricucirsi, allo sfarsi e poi ricomporsi. Appartengo a quell’affetto profondo e a quel senso di famiglia al di là della famiglia. Ai corpi esplorati, rifiutati, cercati, odiati e amati. Appartengo allo spogliarsi e al rivestirsi. Appartengo agli amori sfibranti. A quel senso di sé sfuggevole, mutevole, in balia di dubbi e paure. Come il sali scendi della marea. Appartengo all’infanzia che resta nei gesti, nelle parole e nelle scelte. Nel bene e nel male. Appartengo al percorso di liberazione dall’approvazione dello sguardo altrui. Al desiderio incessante di dare un senso alle cose attraverso la scrittura. Alla volontà di esserci, alla paura di essere. Appartengo alla cattiveria, ai sentimenti sporchi e al tentativo di nasconderli. Appartengo alla realtà narrata nel suo fluire, senza argini, senza sconti, senza abbellimenti. Appartengo alle bugie dette per sopravvivere, alle verità urlate per non soccombere. Al perdersi e ritrovarsi. Ad occhi chiusi, con il fiato sospeso. Elena Ferrante L’amica geniale 2011 e/o p. 400 Elena Ferrante Storia del nuovo cognome, l’amica geniale volume secondo 2012 e/o p. 480 Elena Ferrante Storia di chi fugge e di chi resta, l’amica geniale volume terzo 2013 e/o p. 382 Elena Ferrante Storia della bambina perduta, l’amica geniale quarto e ultimo volume 2014 e/o p. 451
Vibro. Lo sguardo si posa su tutto e su niente in particolare. Con questa voglia di saltare che prima o poi dovrò seguire. Quando sarebbe utile mettere la parola fine, andare a capo e scrivere la parola inizio. Quando non mi basta quello che scrivo e non mi basta come lo scrivo. Con questa voglia di saltare che prima o poi dovrò seguire? Quando porto a spasso i se e mi addormento accarezzando i ma. E tutti sono lontani ma io sto bene da sola. E lascio andare le cose, e ancora non ho capito se c’entra la paura o qualcosa a cui non sono ancora stata capace di dare un nome. Ma vibro. Quando quello che scrivo sembra avere un senso. Un senso fuori da quello che scrivo. Quando quello che scrivo si espande e non sbatte da nessuna parte. Quando non so. Quando mi importa di non sapere e mi fermo. E non dovrei fermarmi, ché non c’è niente da sapere ma solo da fare. Solo da scrivere. Senza domandarsi come, cosa, quando, perché. Per chi.
Il più delle volte è solo un’immagine. Un’immagine sola, nitida. Perfettamente a fuoco, perfettamente contrastata. Qualcosa, qualcuno. L’attimo prima dell’inizio, l’attimo esatto in cui tutto è finito. Il più delle volte, una fotografia. Da afferrare, da memorizzare prima che sparisca sommersa da altre immagini meno importanti. Poi ci sono le volte, tante, in cui è solo una parola. Una parola sola. Ammesso e non concesso che una parola possa essere sola. Senza l’universo che evoca, senza le altre parole che le si appiccicano addosso, come pezzi di ferro su una calamita. Una parola, una parola sola. Da afferrare, memorizzare, prima che sparisca sommersa da altre parole meno importanti. E poi ci sono quelle volte che è tutta una storia. Una storia tutta intera. Dall’inizio alla fine. E non c’è niente da afferrare, non c’è niente da memorizzare. La storia è lì. Tutta. Dall’inizio alla fine.
E poi ci sono queste lunghe pause, il tempo interno che rallenta, si dilata. Mentre fuori tutto si muove alla solita, impellente, velocità. Queste lunghe pause, il testo fermo, sigillato nell’istantanea dell’ultima frase, dell’ultimo passaggio. Cristallizzato. Mastico i periodi fino a farne poltiglia per poterli meglio digerire. Lascio che gli odori di stanze in cui non sono mai entrata si mescolino con quelli delle stanze in cui vivo, e cerco oggetti che in questo tempo e in questo spazio non esistono. Ogni volta, tutte le volte. Non ci penso. Sono. E cammino avanti e indietro lungo il filo della trama, delle pause, degli aggettivi. Dei colori e dei significati. Mentre mangio, lavoro, carico lavatrici e stendo panni al sole. Mentre ascolto, e parlo, e vivo e guardo. Come fossi due. Come fossimo in due. Queste lunghe pause. Sequenze ininterrotte. Che segnano il percorso. Come un fermarsi per poter prendere la rincorsa, un immergersi per riemergere. Tirare il fiato per finire di dire le cose senza pause, senza interruzioni. Finire senza paura di sbagliare. Mettere il punto senza paura di aver tradito. E poi riscrivere senza paura di perdersi. dettagli l’altalena, Adele H. e il caffè alla cannella
Quest’altalena mi ucciderà. Un momento mi sembra di averla qui accanto a me che sorseggia caffè alla cannella. Mi guarda, ride, ed annuisce. Le pagine scivolano via lisce. Niente stalli, niente stasi inutili. Lei sorseggia il suo caffè alla cannella ed è pronta ad andare con tutto il resto lì dove ho deciso di far andare a finire tutto quanto, mesi fa. Il secondo dopo è sempre qui, che beve il suo caffè alla cannella ma non c’è modo di ragionarci. Mi guarda, punta i piedi e dice che lei, lì, non ci va neanche morta, che vuole andare di là e che ci andrà, con o senza di me. Ogni virgola è uno spasmo. Ogni aggettivo è quello sbagliato. Ogni passaggio sembra un ponte di corda sfilacciata sospeso nel vuoto. Il secondo dopo non la vedo neanche più. Non vedo lei, non sento l’odore del caffè alla cannella. Non sento niente e non vedo niente. Quest’altalena mi ucciderà.
Ebbene sì. È tempo di piedi nudi e vestiti leggeri. È tempo di colazioni che si mischiano con il pranzo, e gesti lenti, e di caffè bevuti senza prescia. È tempo di libri appilati e pile di libri che si assottigliano alla velocità necessaria. È tempo di birre ghiacciate e mojitos. È tempo di lasciarsi trasportare dal tempo e smettere una buona volta di provare a trasportarlo. È tempo di lunghe sere d’estate. E di sudore che scivola lungo la schiena. Ebbene sì. È tempo di pensieri che diventano parole scritte. È tempo di progetti da sfare e disfare con la calura che fa tremolare l’orizzonte. È tempo di riassumere, di pesare, eliminare, aggiustare. È tempo di camminare, nuotare e dormire. È tempo mio.
Sarà il caldo, sarà la stanchezza. Non riesco molto a concludere in questo periodo. È un mese che non leggo, fatta eccezione per la rilettura dell’ultimo e del terzo volume della saga di Harry Potter, che è come andare in vacanza. Però ho in testa un progetto, che più che è un progetto è un desiderio, che più che un desiderio è la voglia di. Abbandono temporaneamente la forma romanzo. Torno al mio primo grande amore. I racconti. Non più come pausa quindi, come allenamento, ma come impegno tra me e me. Sto lavorando ad una cosa. Ci sto perdendo litri di sudore. Ce l’ho addosso, non mi da tregua. Ed è bellissimo, stendere la prima versione, prendere le misure, e poi le distanze. E poi tornarci, spostare, limare, chiudere gli occhi e cercare di sentirne l’odore. Mettere un punto lì dove sembra colpire di più. Alzarsi, guardarlo da lontano, accendersi una sigaretta, camminare, pensare, alla parola, quella parola e non un’altra. Domandarsi se sto dicendo esattamente quello che voglio dire. Seconda versione, terza versione, andare avanti, tornare indietro. Smembrare, rimontare. Costruire nella mente immagini da ricostruire sul foglio con le parole. Seguire il filo, filare la trama, il tempo narrativo. Adesso e non dopo. Questo e non quello. Scegliere. Scolpire. Tagliare. Annodare. Riprendere a filare. Il tempo che mi scivola addosso, mentre io faccio l’unica cosa al mondo che desidero realmente fare.
Possiedo la mia anima – Nadia Fusini – (non) recensione Più ci penso, a questo libro, più torno sulla parola armonia. Armonica è la scrittura di Nadia Fusini. Perché prima di tutto, oltre a tutto il resto, questo libro è scritto bene. Armonico è l’incontro di questa scrittura dell’autrice con quella della signora Woolf, i due linguaggi si fondono perfettamente. E questo è un pregio, io credo, quando si decide non di cimentarsi con la biografia di una vita ma con la biografia dell’anima, l’anima di una donna, la signora Woolf che ha fatto della parola e della scrittura la sua vita e viceversa. Armonica è l’anima di Virginia Woolf. Armonico è questo viaggio a cui la Fusini ci invita a partecipare, con molta educazione, discrezione e sincerità. Armonica è la struttura di questo libro, che senza strappi ci restituisce una vita intera raccontata attraverso le opere, le parole, i pensieri di una delle più grandi autrici che abbia mai letto. In certi momenti è stato come leggere i Diari e i Momenti di essere ma da un’altra prospettiva. C’è l’infanzia, Talland House, St. Ives e Hyde Park Gate. Ci sono Leslie Stephen e Julia Prinsep, quel padre e quella madre che tanto hanno significato, nel bene e nel male nella vita di Virginia. C’è Bloomsbury, Vanessa e Thoby. Lytton Strachey, Clive Bell, Roger Fry, E.M. Forster. Katherine Mansfield, Ethel Smith. C’è Leonard Woolf. C’è Vita Sackeville West, che pervade ogni pagina dal 1922 fino all’ultimo giorno di Virginia. Ci sono i libri. Gli amati libri. E c’è la guerra, con la sua insensatezza, il suo orrore, la sua eccessiva realtà. C’è la malattia. Più di tutti gli altri libri che ho letto sulla Woolf, questo delle Fusini, mi ha regalato due ritratti più approfonditi, quello di Leonard e quello di Vita, una visione più chiara dell’importanza che ebbe per Virginia scrivere il saggio “Le tre ghinee” e del passaggio creativo che la portarono a passare da “Le onde” a “Gli anni”, “Roger Fry” e “Tra un atto e l’altro”. Assolutamente da leggere. Se si ama Virginia Woolf, o se si desidera fare un viaggio nell’anima di un’artista. Possiedo la mia anima Nadia Fusini Mondadori p. 347 Possiedo la mia anima – Nadia Fusini – (non) recensione
L’uomo duplicato – José Saramago – (non) recensione (venerdì 12 marzo dal blogspot) Il mare è bagnato, la neve è bianca, il fuoco brucia. Saramago è un genio. Sempre pungente, mai banale, un punto di vista profondo e obliquo sull’uomo. Una scrittura a spirale che ti trascina dentro la storia del professore di storia Tertuliano Maximo Afonso che una sera, in un film, vede un attore secondario che è la sua copia esatta.Ti trascina nella sua metodica ricerca, nei suoi pensieri e congetture, scrupoli e paure. E del suo doppio. L’uomo messo a nudo che agisce all’interno di una situazione letteraria surreale che mette in atto gesti, e macina pensieri, di un’umanità disarmante. Nel bene e nel male. E ti lascia senza fiato. Come al solito. Una storia delirante, un gran bel libro, di quelli con la L. “L’uomo duplicato”José SaramagoEinaudi286 p.
Sto leggendo Middlemarch perché ho letto Virginia Woolf che parlava di George Elliot. Sto leggendo “Lezioni Americane” di Calvino. Era l’ora. Sto leggendo “Voglio guardare”, ché un amico mi ha detto che lo dovevo fare per forza, ché un libro così va letto, e punto. Middlemarch son 800 pagine e passa, me lo tiro dietro da gennaio. È un kolossal, dovessero farne un film costerebbe più di Titanic. La Elliot è brava, ti offre questa carrellata di personaggi apparentemente semplici ma in realtà rappresentativi di tanti e vari caratteri umani. Incuriosita da altri libri lo sto trascurando. Calvino. Beh. A suo tempo ci sarà bisogno di parlarne assai, di queste illuminanti lezioni americane. Sentire uno scrittore che parla del suo mestiere è sempre uno sporco piacere. Voglio guardare. Ho letto solo due pagine per adesso. Ha un suono strano. Olè. (lunedì 8 marzo 2010 dal blogspot)