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Tag: possibilità

prima e adesso

Le persone non mi interessano più, ecco qual è il problema. Le persone non mi interessano più. E non mi colpiscono, non mi emozionano. Non mi commuovono. Non mi fanno incazzare. Prima le persone erano storie. Erano grumi di parole da sviluppare, grumi di parole come nuclei di partenza. Prima, le persone, erano potenziali incarnazioni di particolari sguardi obliqui, e necessari, sul mondo. Le persone, prima, erano mondi. Piccoli mondi da narrare. Adesso le guardo, le persone, e non sento niente, non vedo niente. Non immagino niente. Prima era il caos. Ad ogni passo, in ogni situazione. Per strada, sul tram, in treno. Dappertutto. Ecco qual è il problema. Ecco perché, in un certo senso, non scrivo più. Perché non scrivo più le mie storie. Perché prima, le persone mi parlavano. Le mani arrossate e gonfie strette intorno ai sacchetti della spesa. Lo sguardo perso oltre il finestrino del treno. Il passo rapido e la cadenza frettolosa di un paio di tacchi. Un sorriso fatto a niente e a nessuno. Tutti, prima, erano lì a raccontarmi una storia. Prima, le persone, erano fatica, sogni da inseguire, sogni realizzati, sogni irrealizzabili. Erano rabbia sepolta da portare alla luce. Erano ribellioni possibili. Ecco. Prima, le persone, erano insurrezioni possibili. E mi parlavano. Adesso, no. Adesso non sento, non vedo e non immagino niente. Ecco qual è il problema. Niente più storie da far deflagrare all’improvviso. Niente potenziali esplosioni. Perché prima, le persone, incarnavano le infinite possibilità. Erano variabili impazzite, traiettorie deviate. Piccoli mondi possibili. Prima, le persone, mi interessano, mi parlavano, mi emozionavano, mi facevano incazzare. Adesso. Adesso no. Sono lo stesso schema ripetuto. Sono il binario morto. Ecco.

Berlino, un viaggio e qualche impressione

È passato più di un mese dal mio piccolo viaggio a Berlino. Eppure, ancora adesso, ogni tanto qualcosa riaffiora. Ed ho in mente le immense strade e le distanze fuori misura. La mia misura, ça va sans dire. La sensazione, forte ma non immediata, di trovarsi in un luogo carico di cose, di ritrovarsi a passeggiare in una città che, in un certo senso, ha solo poco più di vent’anni. Una città che si cerca, che cerca di trovarsi. Una città in continuo mutamento. Una città in cui il presente e il passato cercano un modo equilibrato di convivere. Una città con un senso artistico estremamente sviluppato, dalle piccole alle grandi cose. Una città piena di piccole e grandi macchie di colore. Che passeggi, e ogni tanto ti fermi, perché la macchia di colore ha preso il sopravvento. E nella macchia di colore, la sensazione di possibilità. Di eventualità. Ripenso al muro. Che nemmeno volevo andare a vedere, non so dire neanche bene perché. Che poi, quando lo vedi, e ci cammini accanto, nel bel mezzo di un ennesimo passo per quelle distanze chilometriche pensi. Pensi che l’uomo è folle. Un altro passo e pensi. Che l’uomo è così folle che ripete le sue follie, all’infinito. Ancora e ancora. E mi viene spesso in mente l’uso dello spazio pubblico. I parchi, i giardini per i bambini, gli orti collettivi. Ho avuto l’impressione, da viaggiatrice occasionale passata da lì per soli cinque giorni, quindi, insomma, magari mi sbaglio, che a Berlino si vive il fuori, e lo si vive insieme. E poi, anzi no. E sopratutto,

Capelli neri

Questo l’ho scritto un po’ di tempo fa. Lo tenevo infrattato perché aspettavo di conoscerne il destino. Si chiama Capelli neri. Certo che posso raccontarle come sono andate le cose. Si vuole sedere? No? Ci penso ogni giorno a quello che è successo, agli eventi che mi hanno portata ad essere qui, oggi. Le assicuro che ci penserebbe ogni giorno anche lei. Certo, poi, cosa si prova a ripensarci dipende da come uno è. Guardi, se mi permette, le do un consiglio, venga qua, si sieda e chiuda gli occhi. Io lo faccio sempre quando ci ripenso. E rivivo tutto come fosse adesso. La prego, chiuda gli occhi. Perché è l’adesso che conta. Sempre. La macchina è parcheggiata al sole. Mi sono tinta i capelli di nero e voglio che il sole li colpisca in pieno. Riesce a vedermi? E’ importante. Sono una casalinga di trent’anni, con due figli e un marito che non mi interessa di conoscere. Mi sono svegliata una mattina, mi sono voltata verso di lui, e mi sono domandata chi fosse, chi fosse davvero, scoprendo che non mi interessava saperlo. Nessun rancore, non ci sono colpe, non ci siamo mai fatti del male, anzi. Ma il nostro è un amore tiepido, che non si è scaldato e non si è raffreddato, e siamo due corpi a sé stanti che convivono, placidamente e tiepidamente. Sono una casalinga di trent’anni, con due figli e un marito che non mi interessa di conoscere, e sto per vendere della cocaina purissima. Ho pensato che un’occasione così non mi sarebbe capitata mai più. Per questo ho tinto i capelli di nero e ho chiesto a Lélé di parcheggiare la macchina al sole. Volevo che tutto fosse perfetto. Come in un film. Perché stavo per vendere della cocaina, purissima. Almeno così mi aveva detto lui. – Signora Caterina, questa è cocaina. Ed è pura. Purissima. Io guardo Lélé, lo guardo e gli chiedo, non so nemmeno come mai mi passa nella testa, gli chiedo – Quanto vale?,  invece di dire – Oh mio dio! , oppure – Portala via di qui, ho due bambini piccoli in casa. Non è vero, lo so perché gliel’ho chiesto. Devo averci cominciato a pensare quando ho trovato il sacco nero nascosto tra le lamiere nel parcheggio del supermercato. No, non apra gli occhi, davvero, mi dia retta, si fidi. Voleva che le raccontassi come sono andate le cose io lo faccio, ma lei mi deve ascoltare, ad occhi chiusi. Michele, mio figlio, quello grande, 8 anni, non sta mai dove deve stare. Mentre carico i sacchetti della spesa in macchina, con Giovanni, quello piccolo, 6 anni, che cerca di scartare un pacchetto di caramelle, lui girella nel parcheggio. – Michele, vieni qui – gli urlo. – Mamma, c’è un sacco, con delle cose – mi risponde. – Michele vieni qui! – urlo più decisa. – Mamma, vieni a vedere – mi risponde. Prendo Giovanni per mano e vado a vedere. Come sempre. Penso che bisogna sempre andare a vedere quando tuo figlio te lo chiede. Non per viziarli, non è questo. Uno decide di fare un figlio e questo figlio ha diritto ad avere risposte e attenzioni. Così la penso. Le fa caldo? Lo so, ci vuole del tempo ad abituarsi. Dove ero rimasta? Dentro il sacco, nero, sotto le lamiere, ci sono dei pacchetti di plastica trasparente pieni di polvere bianca. – O mio dio, ma è droga – penso, mentre nella mia testa appaiono quei filmati che fanno vedere al telegiornale quando la polizia sequestra quel genere di cose. – Che cos’è, mamma? – mi chiede Giovanni. – Non lo so – rispondo, mentre mi guardo intorno, nel parcheggio deserto. Penso che a volte ai figli non gli si può dare delle risposte oneste. E’ difficile, doloroso anche, ma non si può. Almeno non quando si trova della droga. Faccio tutto senza pensare, senza riflettere. Prendo il sacco nero. Dico ai miei figli di salire in macchina. Trascino il sacco, pesa, lo metto insieme alla spesa. Guido fino a casa. Scarico la spesa, tutta. Dico ai mie figli – Scendiamo al mercato, ho dimenticato di comprare una cosa. – Ci fermiamo da Lélé? – mi chiede Michele. – Ci fermiamo da Lélé – gli rispondo. Quando gli ho chiesto se poteva salire un attimo a casa mia mi ha guardata a lungo, Lélé, mi ha guardata con quegli occhi neri orlati di bianco in mezzo a quel mare nero che è la sua pelle. Mi guarda a lungo. Finché non dico: – Lélé, ti prego. Non ho nessun altro a cui chiedere aiuto. Ed era vero, è vero. So che è difficile da capire. Comunque. Lascia la sua bancarella al vicino. Mi segue silenzioso fino al mio appartamento, fissando intensamente qualcosa a terra, probabilmente le sue scarpe. Rimane zitto, in piedi, inquieto, in mezzo al salotto. Io mando i bambini in camera loro e vado a prendere il sacco nero, lo trascino, pesa, rovescio il contenuto sul pavimento, ai piedi di Lélé, che cambia faccia. In un attimo. Si china. Apre uno dei pacchetti di plastica. E fa come nei film. Lo apre, ci mette un dito dentro e poi mette il dito in bocca. E’ stato in quel momento che ho pensato che qualunque cosa sarebbe successa doveva essere come in un film. Subito dopo dice: – Signora Caterina, questa è cocaina. Ed è pura. Purissima. E io dico, senza riflettere: – Quanto vale? Lélé si alza. Riesce a vederlo? E’ importante. – Signora Caterina, questa non è una cosa che ha a che fare con lei. E nemmeno con me. La prego. Butti via tutto. E rimane lì. – Lélé. – Non è una cosa buona. Non è per niente una cosa buona. – Lélé. – Signora Caterina. E’ una cosa più grande di lei, e di me. Butti via tutto. Io sospiro, lentamente. Sono esausta. Come se in poche ore la mia testa avesse lavorato più che in tutta la

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