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Tag: frasi

le lunghe pause

E poi ci sono queste lunghe pause, il tempo interno che rallenta, si dilata. Mentre fuori tutto si muove alla solita, impellente, velocità. Queste lunghe pause, il testo fermo, sigillato nell’istantanea dell’ultima frase, dell’ultimo passaggio. Cristallizzato. Mastico i periodi fino a farne poltiglia per poterli meglio digerire. Lascio che gli odori di stanze in cui non sono mai entrata si mescolino con quelli delle stanze in cui vivo, e cerco oggetti che in questo tempo e in questo spazio non esistono. Ogni volta, tutte le volte. Non ci penso. Sono. E cammino avanti e indietro lungo il filo della trama, delle pause, degli aggettivi. Dei colori e dei significati. Mentre mangio, lavoro, carico lavatrici e stendo panni al sole. Mentre ascolto, e parlo, e vivo e guardo. Come fossi due. Come fossimo in due. Queste lunghe pause. Sequenze ininterrotte. Che segnano il percorso. Come un fermarsi per poter prendere la rincorsa, un immergersi per riemergere. Tirare il fiato per finire di dire le cose senza pause, senza interruzioni. Finire senza paura di sbagliare. Mettere il punto senza paura di aver tradito. E poi riscrivere senza paura di perdersi. dettagli l’altalena, Adele H. e il caffè alla cannella

Gertrude Stein [cit. Autobiografia di Alice Toklas]

“È piuttosto difficile, ora che più nessuno si stupisce di nulla, dare un’idea dell’inquietudine che si provava posando per la prima volta gli occhi su tutti quei quadri alle pareti. Là c’erano allora quadri d’ogni sorta, non era ancora venuto il giorno che sarebbero stati solamente dei Cèzanne, dei Renoir, dei Matisse e dei Picasso, e nemmeno, come persino più tardi, unicamente dei Cèzanne e dei Picasso. A quel tempo c’erano in abbondanza dei Matisse, dei Picasso, Dei Renoir e dei Cèzanne, ma c’era anche una quantità d’altri. C’erano due Gauguin, dei Manguin, c’era un enorme nudo di Valloton, che somigliava, ma non era, l’Odalisque di Manet; c’era un Toulouse-Lautrec. Una volta, proprio in quei tempi, Picasso guardava questo quadro e disse in un impeto d’audacia: “Tutto sommato dipingo meglio io”. Toulouse-Lautrec era stato il più importante dei suoi influssi giovanili. Io, più tardi, comprai un minuscolo quadretto di Picasso, che risaliva a quest’epoca. C’era un ritratto di Gertrude Stein di mano di Vallaton; sarebbe potuto parere un David, ma non era; c’era un Maurice denis, un piccolo Daumier, molti acquarelli di Cezanne, c’era insomma di tutto, persino un piccolo Delacroix, e un Greco di notevole larghezza. C’erano enormi Picasso del periodo degli Arlecchini, due file di Matisse, un gran ritratto di donna fatto da Cèzanne e alcuni piccoli Cèzanne […] ” Gertrude Stein, Autobiografia di Alice Toklas [1933]

Il testo su cui lavoro da un anno. E se l’avessi perso?

Ché il problema, qui, è centrare il bersaglio. Ad ogni frase, ad ogni parola. Ad ogni virgola, punto e pausa. Qui è questione di ritmo, e suono, e musica. E significato. Contenere. Calibrare. Mantenere. Dosare. C’è da tenere il culo incollato alla sedia, come direbbe un amico mio. C’è da sudare, e vomitare. E camminare, fumare. Ancora camminare, ancora fumare. Ma il filo s’è sfatto. S’è sdrucito su quell’unico tassello. Su quell’unico passaggio. E quelle frasi, quelle frasi che dovrebbero legarsi in quel modo lì, che è uno solo, non ce n’è un altro, stanno un passo al di là della mia capacità di pensarle. E scriverle. Mi sfuggono. Sono sfatte. Sfracellate. Scomposte. Quello che devo dire. C’è un modo solo in cui posso dirlo. E non lo trovo. Non so nemmeno se c’è. Se è tutto da buttare. Tutto da mischiare, di nuovo. Cancellare e ricominciare. Ma mi viene il vomito. Contenere. Calibrare. Mantenere. Dosare. Sentire. L’equilibrio che colpisce la bocca dello stomaco. Il salto mortale. Le viscere che s’annodano e si rilasciano. Quell’insieme di parole. Quell’appoggio per lo slancio. Vomito.

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