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Intervista a Mercè Rodoreda – traduzione (che parolone) dallo spagnolo

Mi son lamentata, qua, della difficoltà di reperire in rete informazioni, in lingua italiana, su Mercé Rodereda. Naturalmente in catalano abbondano, ma purtroppo non ci capisco quasi un accidente. Con il castigliano invece me la cavo un po’ meglio. Ho trovato questa intervista sul sito di El Pais, ho provato a tradurla. L’originale è qua, nel caso qualche anima pia volesse controllare se ho preso fischi per fiaschi, lucciole per lanterne e volesse darmi una mano a migliorare questa mia traduzione non dico maccheronica ma sicuramente da autodidatta. Mercè Rodoreda si è sempre sentita accompagnata dai fiori e dalle sue creature letterarie. Jaun Tébar – El Pais – 15 marzo 1983 Mercè Rodoreda ha concesso qualche mese fa, a questa giornale, un’intervista rimasta inedita. È una chiacchierata informale in cui Mercè Rodoreda difende la sua solitudine e afferma che se la felicità esiste lei potrebbe dire di essere felice. Queste parole, pubblicate ora, alleggeriscono il ricordo lugubre che può averci lasciato la sua recente scomparsa. È il miglior omaggio ad una scrittrice che ha saputo creare un giardino letterario e vivere tra i fiori, senza il minimo accenno di volgarità. È arrivata alla fine della sua vita senza la quotidiana claudicazione della sua Colombetta. Mercè Rodoreda ha un giardino. Vive in un giardino. Il giardino di questa grande scrittrice non è solo quello che si vede alla fine del viaggio sentimentale, quasi amoroso, che intraprendiamo per vederla, non è solo  il giardino in cui vive, tanto orgogliosa della sua piccola giungla. Il giardino della Rodereda è pieno di altri fiori di carta e mistero, il cui profumo hanno potuto respirare il suoi lettori dal 1937, anno della pubblicazione del suo primo romanzo, “Aloma”, che lei ama considerare il primo, “perché gli altri, veramente, erano così brutti …”. Sono fiori magici, drammatici, musicali, interiori, che sono cresciuti intorno alle sue pagine, cercando il profumo e i colori di una letteratura in un certo senso fantastica, anche dentro al più palpabile realismo. Domanda. Come si difende, adesso, con la fama, dall’attacco alla sua intimità? Risposta. Per esempio, non rispondendo al telefono, e i giorni pericolosi, come il sabato e la domenica, in cui arrivano molte persone per farsi autografare i libri, o farsi fare foto insieme a me come fossi una cantante, chiudo il cancello e le persiane come se non ci fosse nessuno in casa. Mi chiudo dentro come in una prigione, e a volte, anche se sono un po’ sorda, sento arrivare le macchine, perché una macchina si sente sempre in un posto così silenzioso come la Romania. E penso: ” Che rabbia, che rabbia, tanto non vi apro …” Questa persecuzione e iniziata quando ho compiuto 70 anni, quando i giornali iniziarono a parlare di me e a pubblicare mie foto. È andata avanti con la vincita del Premio de Honor del las Letras Catalanas. Allora fu terribile. E poi con i programmi televisivi, perché si vede che la televisione ha una influenza così grande che la gente impazzisce per conoscere chi ci va, chiunque sia. Ho sempre avuto bisogno della solitudine. Già a Ginevra ho vissuto quasi completamente isolata. Non conosco la Svizzera né ho praticamente lasciato amicizie lì. Ho coperto quello che io chiamo il triangolo delle Bermuda: Ginevra, la seconda casa che conservo a Parigi e la casa di Barcellona senza avere a che fare quasi con nessuno. E adesso, qui, chiusa in Romania, se la felicità esiste (lei ci crede?), potrei dire di essere felice … Ho bisogno della solitudine, per il lavoro e per la mia vita. In linea di massima le persone mi stancano terribilmente, e non mi interessano assolutamente. Avendo i libri, dei buoni dischi e la macchina da scrivere la mia vita è piena, non ho bisogno di altro. D. Nel prologo di “Mirall Trencat” (Lo specchio rotto) lei dice che “un romanzo si fa con una gran quantità di intuizioni, una certa quantità di imponderabile, con la caduta e la resurrezione dell’anima, con esaltazioni, disinganni, con riserve di memoria involontaria …, tutta un’alchimia”. Ultimamente si è parlato molto de “La placa del Diamant” (La piazza del diamante), dimenticando i romanzi posteriori come Mirall Trencat – bellissimo – o come il suo libro “Quanta, quanta guerra” (Cuánta, cuánta guerra). Può rivelarci qualcosa dell’alchimia utilizzata per questo romanzo? Quali dosi magiche ha utilizzato per rompere, apparentemente, la precedente linea più realistica, entrando in pieno in una narrazione assolutamente fantastica? R. L’alchimia è l’aver vissuto, aver vissuto molto. Io sono una fabbricante di storie. Quando ne scrivo una- quella che sto correggendo in questo momento, per esempio – è perché ho voglia di scriverla. E questa è una storia stranissima che non piacerà a nessuno. D. Questa predisposizione verso la magia non è proprio di adesso? Vero? R. Certo che no. Può sembrare che inizi in Mirall trencat, ed è più evidente in Viaiges i flors (Viaggi e fiori), ma già nella piazza (1962), c’è questo capitolo, quello della chiesa, in cui Colombetta vede quelle palline diventare rosse, sono le anime dei soldati. Non è già questa una cosa di tipo fantastico? Il seme c’è dall’inizio. E comunque, mi sono sempre piaciuti autori come Lovecraft, Poe, Machen … D. Come convivono il realismo caratteristico delle sue opere più celebri e questa costante tendenza all’onirico? R. Con grande amicizia: ripensiamo a “Le avventure di Gordon Pym”, quando Poe descrive quell’acqua striata di rosso, che in realtà è sangue. Questo è fantastico, però è come lo vedessimo veramente. E per quanto riguarda la guerra, che in questo ultimo libro appare come un incubo, è una esperienza disgraziatamente familiare a tutte le persone della mia generazione. “In guerra non è importante chi vince o chi perde, perché in guerra tutti perdono”. D. I fiori – come gli angeli e, a volte, gli specchi – sono temi ricorrenti nella lirica delle sue opere. Così tanti fiori sono apparsi nelle sue pagine che sono soliti invitarla frequentemente a mostre di floricultura. In uno dei suoi racconti c’è

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