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Il tarlo ippopotamo – I

Signore, signori
che volete che vi dica? A me l’idea di pubblicare a puntate mi ha sempre affascinato un bel po’. E quindi lo faccio. Un post ogni tre giorni da oggi fino al 17 di luglio. E se nel mentre mi partite per le vacane, tranquilli e niente panico, che come al solito metterò a disposizione il pdf.

E insomma, e dunque. Ecco a voi il primo capitolo de “Il tarlo ippopotamo”.

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I

Chi mi conosce lo sa, io sono una persona tranquilla, modesta. Ho cinquantadue anni e da quando ne ho venticinque mi occupo della contabilità di un’azienda di trasporti. Lo faccio senza velleità, con precisione. Ho un buon rapporto con il direttore, con la sua segretaria e con i corrieri. Sanno che svolgo il mio lavoro senza errori, senza incidenti. Sono sempre disponibile, per un sorriso, un favore o uno scambio di opinioni.
Mi accontento delle piccole cose, non oppongo resistenza alla vita e agli inconvenienti. Prendo quello che arriva, non mi danno per quello che non viene.
La domenica, a pranzo, vado a mangiare da mia sorella. Abbiamo preso questa abitudine dieci anni fa, quando i nostri genitori hanno deciso di trasferirsi al mare a godersi la pensione. Una decisione sorprendente, all’apparenza, per una coppia di allora settantenni, ma non per loro, ancora in forma, autosufficienti e decisi a passare nel miglior modo possibile i loro ultimi anni insieme.
Una volta alla settimana, il venerdì sera, gioco a pinnacolo con Sergio, Mario e Antonio. Ci conosciamo fin da bambini, con loro c’è quella facile confidenza che non concepisce deviazioni o alterazioni. Una volta al mese, il sabato mattina, vado da Michele, il mio barbiere.
Ho una sola, vera, grande passione, il mio piccolo giardino. Dieci metri quadrati che curo con dedizione. Taglio regolarmente l’erba, tolgo dalle rose le foglie e i fiori che hanno fatto il loro corso, parlo con l’azalea e mi confronto con la fucsia. Porto avanti un’onesta battaglia con le lumache che sembrano gradire particolarmente il mio basilico. Ammiro soddisfatto il prezzemolo e osservo rapito la salvia, vera matrona del mio piccolo eden. Poto sempre con un po’ di apprensione la passiflora che mi protegge dalla strada e dal suo viavai.
Quando finalmente la temperatura si addolcisce, sul finire della primavera che lascia spazio all’estate, mi piace sedermi, dopo cena, nel mio giardino, vagamente rischiarato dai lampioni che iniziano qualche metro dopo regalandomi una penombra piacevole, un giusto equilibrio che non è buio ma non è nemmeno luce.
Siedo lì, e mi compiaccio.
A volte mi preparo qualcosa da bere, un tè freddo, una limonata. Saltuariamente, per renderlo sempre speciale ogni volta che lo faccio, mi fumo un sigaro.
È il mio momento.

Tutto questo fino a quattro mesi fa.
Avevo appena finito di lavare i piatti, che a ben guardare era un piatto solo, come solo uno era il bicchiere, e così coltello e forchetta, avevo appena finito, insomma, di riportare la cucina al suo stato di stasi tra un pasto e l’altro, quando qualcosa ha colpito il mio sguardo, perifericamente.
Mi sono avvicinato alla porta a vetri che si affaccia sul retro, sul giardino, senza capire cosa fosse quello strano alone arancione. Poi mi sono versato da bere e sono uscito, sicuro che mi sarei sistemato al mio posto, sulla mia sedia a sdraio, come tutte le altre volte, fiducioso che quel bagliore non identificato sarebbe scomparso non appena mi fossi seduto a bearmi nella penombra.
Quando alla fine mi sono seduto, però, in barba alle mie ottimistiche previsioni, la fonte di quel bagliore, di quell’alone arancione, ha preso posto nel mio campo visivo.
Esattamente davanti a me, al di là della passiflora. Un lampione.
Dove prima non c’era.

Non so descrivere esattamente cosa ho provato.
Quello che ci si avvicina di più è la sensazione provocata da una scheggia di vetro che si infilza nel palmo della mano quando si decide di togliere le briciole dal tavolo senza l’apposito straccio o una spugna. Non ci si domanda nemmeno cosa ci faccia, una scheggia, minuscola di vetro sul tavolo dove niente si è rotto di recente.
C’è solo il dolore, forte, inaspettato e inspiegabile.

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ci vediamo venerdì per il capitolo II

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