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Tag: scrittura

Distorsióne
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Distorsióne

Distorsióne s. f. [dal lat. tardo distorsio –onis, class. distortio –onis, der. di distorquēre «storcere», part. pass. distortus]. – 1. In genere, spostamento o deformazione che provoca un’alterazione della forma o dell’atteggiamento naturale: la d. dell’immagine riflessa da uno specchio concavo o convesso. In usi fig., alterazione, stravolgimento: d. del vero senso di una frase (nell’interpretarla o nel riferirla); un’intenzionale d. della realtà dei fatti; strana d. e caricatura del procedere filosofico (B. Croce); d. innaturale con cui aveva cambiato momentaneamente in odio l’amore per il figlio (V. Brancati). (Treccani) Sono io o sono loro. Distorta o distorti? Dalle casse rotte che gracchiavano (na na na na na) / Uscivano i Beach Boys distorti Io, sicuramente, nella banalità del doversi guardare nello specchio un po’ più a lungo, per riconoscersi. In questa immobilità innaturale, il corpo teso e deformato in una posizione di difesa inefficiente. La mente alterata nella sua forma, vaga, non si ferma mai, rincorre qualcosa. Io, sicuramente alterata nel mio atteggiamento naturale. Agitata. Mi sento scossa agitata-a, agitata-a, un po’ nervosa-a / Uoh uoh. In un acutizzarsi esponenziale della percezione dell’ostilità del mondo. Nella sentenza definitiva che sancisce il mio non poterlo abitare, trasformare, nemmeno all’interno di quel perimetro delineato negli anni. Anni di lotte, anni di pensiero critico, anni di condivisione. Il perimetro si restringe e posso solo abitare me stessa, nella rottura della condivisione, nella rottura della comunicazione. A cui, evidentemente, non riesco a rinunciare e provo a raccoglierne i pezzi. E provo a condividere, comunicare. Nello stravolgimento del vero senso delle frasi, nell’intenzionale distorsione della realtà dei fatti tutto intorno a me. C’è tutto un mondo intorno che gira ogni giorno / E che fermare non potrai / E viva e viva il mondo, tu non girargli intorno / Ma entra dentro al mondo, dai. Ma dal mondo arrivano messaggi distorti, le casse si sono rotte, le voci gracchiano. Non le riconosco, non riesco a collocarle nella galassia di cui ho, evidentemente, perso le coordinate sentimentali, insieme a quelle politiche, per la spedizione interstellare del pensiero e del procedere e le parole fluttuano alla deriva nello spazio, mentre il discorso critico muore su due binari paralleli. Le voci gracchiano parole deformate. Io credo, in qualche modo, deformate dal panico, e si manifestano in un rigurgito di attaccamento ossessivo, mentre il discorso critico muore su due binari paralleli alimentati dall’inquietudine, dal disagio, dalla confusione, dalla paura e da una rabbia malsana che annebbia gli occhi e perde di vista il bersaglio, e la comunicazione si interrompe e diventa soliloquio, tarlo che mastica in sottofondo. Ma i miei pensieri sono distorti, la mia testa gracchia. Per usare una citazione, più pop della metafora sulla spedizione interstellare ma sicuramente più calzante, la merda è entrata nel ventilatore.

Dissèsto
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Dissèsto

Dissèsto s. m. [der. di dissestare]. – 1. Condizione di squilibrio, d’instabilità: d. di un meccanismo; d. statico, nella tecnica delle costruzioni, l’insieme degli effetti (lesioni nelle pareti, rigonfiamento degli intonaci, movimento delle parti, ecc.) derivanti dalle insufficienti condizioni di stabilità di una struttura. 2. fig. Stato di disordine, cattive condizioni, situazione critica: avere dissesti di salute; sosteneva che tutta la moderna cultura è in dissesto; in partic., e più spesso, cattivo stato economico: d. finanziario; il d. del bilancio dello stato; causare, provocare un d.; trovarsi in grave dissesto. (Treccani) Cerco da giorni una parola che possa descrivermi. Che possa descrivere la condizione che mi trovo ad attraversare. Non so stare senza parole, non so stare senza la corrispondenza tra l’emotività, la mia, e la sua corretta definizione, per me. O descrizione, o metafora. Un appiglio, una boa. Un punto in cui stare senza andare alla deriva. Dissèsto mi descrive. Dice molto di me in questo momento. Delle mie insufficienti condizioni di stabilità della struttura. Dello stato di disordine, dello squilibrio. La situazione è critica, direbbero in uno di quei telegiornali che evito accuratamente di guardare. Cerco altre fonti, non mi accontento della versione ufficiale, non mi accontento dell’analisi di un servizio logoro in prima serata, non mi fido del giornalista servo e allarmista.Ma ho una sola fonte, purtroppo poco attendibile. In un processo piuttosto che farmi testimoniare la difesa chiederebbe alla giuria di andare in fiducia e di arrivare ad un verdetto sulla base del lancio dei dadi. Ci scherzo su. Questo è un buon segno. Una risata vi seppellirà. Citazioni, ancoraggi. Divagazioni. Anche se voi vi credete assolti / Siete lo stesso coinvolti. La scrittura è un’entità multiforme, vive di vita propria. Da anni non riesco a parlarci con sincerità quando si tratta di me. Da anni, quando si tratta di me, divento una fonte inattendibile. Bugiarda. La schivo, non mi faccio trovare. La distraggo. Mi arrendo. Mi scoppia il cuore, non riesco a sostenerla.Per questo mi serve una boa. Non c’entra la deriva. Mi serve una boa per non andare a fondo, lì dove dovrei andare. E come sempre sento che affondando ancora un poco arriverei alla verità. (Virginia Woolf – Diario di una scrittrice) Per questo cerco parole che possano definirmi nel momento. Che possano descrivermi il momento. Questo momento e non un altro. Perché sono capace di esistere solo nel momento. /dis·sè·sto/ /dis·se·stà·ta/ Vorrei ancora potermi tatuare sulla pelle In ogni caso nessun rimorso. Perché sono capace di esistere solo nel momento. Questo mi definisce. Questo mi descrive. Questo mi frega. E se il personale è politico, e viceversa, questo non è un buon momento.   Se avete voglia qua potete leggere Diśàgio e invece qui Distorsióne.

Roberto #Bolaño [cit. Último atardeceres en la tierra – in Putas asesinas]

En el cielo aparece, de forma por demás silenciosa, un avión de pasajeros. B deja de mirar el mar y contempla el avión hasta que éste desaparece detrás de una suave colina llena de vegetación. B recuerda un despertar, justo un año atrás, en el aeropuerto de Acapulco. Él venía de Chile, solo, y el avión hizo escala en Acapulco. Cuando B abrió los ojos, recuerda, vio una luz anaranjada, con tonalidades rosas y azules, como una vieja película cuyos colores estuvieran desapareciendo, y entonces supo que estaba en México y que estaba, de alguna manera, salvado. Esto ocurrió en 1974 y B aún no había cumplido los veintiún años. Ahora tiene veintidós y su padre debe de andar por los cuarentainueve. B cierra los ojos. El viento hace ininteligibles las voces de alarma del pescador y de los niños. La arena está fría. Cuando abre los ojos ve a su padre que sale del mar. B cierra otra vez los ojos y los vuelve a abrir sólo cuando una mano grande y mojada se posa sobre su hombro y la voz de su padre lo invita a comer huevos de caguama. Hay cosas que se pueden contar y hay cosas que no se pueden contar, piensa B abatido. A partir de este momento él sabe que se está aproximando el desastre. Roberto Bolaño Putas asesinas [Último atardeceres en la tierra]

Annie Ernaux [cit. Gli anni]

[…] Più ancora che un modo di affrancarsi dalla miseria, gli studi le paiono lo strumento di lotta privilegiato contro quell’impantanarsi femminile che le suscita pietà, quella tentazione di perdersi in un uomo che ha già conosciuto (come nella foto del liceo di cinque anni prima) e di cui ha vergogna. Nessuna voglia di sposarsi o di avere dei figli, la maternità le pare incompatibile con la vita dello spirito. Ad ogni modo è sicura che sarebbe una pessima madre. Il suo ideale è l’unione libera di una poesia di André Breton. A volte si sente schiacciata sotto il peso delle cose che ha imparato. Ha un corpo giovane e un pensiero vecchio. Sul diario ha scritto che si sente «stomacata da idee passepartout, satura di teorie», che è «alla ricerca di un altro linguaggio» per «tornare a una purezza primigenia», sogna di scrivere in una lingua sconosciuta. Le parole le sembrano soltanto «un ricamino ai bordi di una tovaglia di notte». Altre frasi contraddicono questa stanchezza: «Sono un volere e un desiderio». Non dice quale. […] […] Ora le voci erano vibranti, aggressive, si interrompevano senza tante cerimonie. I volti esprimevano la collera, il disprezzo, il godimento. La libertà dei gesti e l’energia dei corpi bucavano lo schermo. Se di rivoluzione si trattava, era in quei cambiamenti dei modi di fare che si stava davvero compiendo, in quella nuova espansività, in quella rilassatezza, in quei corpi seduti dove e come capitava. Quando il ricomparso de Gaulle – ma da dove sbucava? lo speravamo uscito di scena definitivamente – riesumava con una smorfia di disgusto il termine chienlit per parlare di quella che ai suoi occhi era solo una pagliacciata, senza nemmeno sapere cosa volesse dire quel vocabolo desueto percepivamo tutto lo sdegno aristocratico che gli suscitava la rivolta, ridotta a una parola che richiamava alla mente escrementi e amplessi, brulicare animalesco, scatenarsi degli istinti. Non facevamo caso al fatto che non stesse emergendo nessun leader operaio. Con la loro aria paterna i dirigenti del PC e dei sindacati continuavano a determinare i bisogni e le volontà. Si precipitavano a negoziare con il governo – che tuttavia era quasi immobile – come se non si potesse ottenere niente di meglio che l’aumento del potere d’acquisto e l’innalzamento dell’età pensionabile. Guardandoli uscire dal Ministero del lavoro dopo gli accordi di Grenelle, tutti intenti a enunciare pomposi, con parole che avevamo già dimenticato da tre settimane, le «misure» alle quali il potere aveva «acconsentito», ci si sentiva venir meno. […] Annie ErnauxGli anniL’Orma Editore Altro su Annie Ernaux Annie Ernaux – L’evento – cit.

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Adele H.

dettagli l’altalena, Adele H. e il caffè alla cannella le lunghe pause

Letizia Muratori [cit. Come se niente fosse]

«Prima leggo, ma poi scrivo» le dissi. «Sul serio?» Giacinta smise di accarezzare Belli e dannati. «Sì, ricopio le pagine che mi piacciono su un quaderno». «Ma che stranezza». «È come disegnare, se sapessi disegnare le disegnerei, quelle pagine». «Interessante, e perché lo fai?». «Così mi sembra quasi di averle scritte io. E mentre copio mi sento meglio». «Però non si fa. Se ti piace scrivere, magari ispirati ai libri che leggi, e poi prova a buttar giù qualcosa di tuo». Per me scrivere era davvero come disegnare, un gesto della mano. Dovevo allenarmi, tentare di riprodurre quegli spazi sicuri e inaccessibili, e così cominciai a fare come con le imitazioni. A imitare ero proprio brava, tutti mi chiedevano sempre: ti prego, facci questo e quello. A un certo punto, da un deserto di pensiero mi veniva fuori qualcosa che non aveva più niente a che fare con il modello, ma era un’invenzione di gesti e battute su cui potevo andare avanti a oltranza. Ci provai: dal copiato passai all’imitazione. Riga dopo riga, percorrendo quelle pagine con l’accanimento di chi va in bici a rotelle, vennero fuori i miei primi, stentati paesaggi. Avevo imparato a pedalare, e potevo cadere in ogni momento, ma non tornare indietro. Letizia Muratori, Come se niente fosse Adelphi

Milena Busquets [cit. También esto pasará]

Yo no puedo abrir un libro sin desear ver tu cara de calma y de concentración, sin saber que no la veré más y, lo que tal vez sea incluso más grave, que no me verá más. Nunca volveré a ser mirada por tu ojos. Cuando el mundo empieza e despoblarse de la gente que nos quiere, nos convertimos, poco a poco, al ritmo de la muertes, en desconocidos. Mi lugar en el mundo estaba in tu mirada y me parecía tan incontestable y perpetuo que nunca me molesté en averiguar cuál era. No está mal, he conseguido ser una niña hasta lo cuarenta años, dos hijos, dos matrimonios, varias relaciones, varios pisos, varios trabajo, esperamos que sepa hacer la transición a adulto y que no me convertía directamente en una anciana. No me gusta ser huérfana, no estoy echa para la tristeza. O tal vez sí, tal vez sea del tamaño exacto de la pena, tal vez sea ya lo único vestido de mi talla. Milena Busquets, También esto pasará Editorial Anagrama

come piombo

vuoto solido compatto piombo nebbia umida melmosa rete inciampo cado non mi alzo inutili schegge flebili non riesco più posso solo ricordare stanze e strade e persone movimenti desideri visioni costruzioni per poi restare senza fiato e male alle mani male al cuore e la paura non vedermi più con quello sguardo quel respiro quella gioia quel sentirmi sulla cima quel sentirmi in mezzo al mare barcollo non penso non posso pensare se penso sbatto contro il vuoto solido compatto come piombo faccio un passo so farlo so fare anche quello dopo ma poi trovo il vuoto solido compatto piombo respiro mi dico va bene mi dico doveva andare così ma non doveva andare così non sono capace sono stata capace non sono capace abbastanza dove ho sbagliato cosa ho sbagliato faccio un passo faccio un pensiero non respiro blocca aria blocca corpo sono ferma immobile senza memoria senza come si fa paura cosa amo come si fa riconoscersi caos codifica come si fa mi salta un battito salto mi scattano i nervi scuoto la testa le gambe le braccia nebbia silenzio spasmi dolore buio silenzio spasmi dolore buio silenzio spasmi dolore buio silenzio spasmi dolore buio silenzio spasmi dolore buio lascio andare cancello non penso muscoli contratti corti atrofizzati incapaci incapace le ho perse non le ho tenute strette sono scivolare nella nebbia melmosa rete acido ovatta spilli sotto le unghie fatica ossessione perdita se allungassi una mano se smettessi di pensare respirare guardare assaggiare sognare gesti interrotti pensieri ignobili fallimento pigrizia parole senza parola silenzio vuoto solido compatto piombo nebbia umida melmosa rete inciampo cado non mi alzo di nuovo un’altra volta non esco non si esce non si può uscire stessa strada avanti indietro febbre delirio apnea isterica trottola scarica pietosa impietosa disperata cercare sassi biglie pietre un luccichio una finestra una luce una parola uno sguardo una frase un colore un odore come prima come sempre come sarebbe dovuto essere mi aggrappo sorrido parlo vivo cerco non trovo insisto mi ignoro passo oltre passo altrove ballo vivo cerco non pensare non pensare non pensare lascia andare non è niente sassi biglie pietre un luccichio una finestra una luce una parola uno sguardo una frase un colore un odore come prima come sempre come sarebbe dovuto essere non questo vuoto solido compatto piombo

(non) recensioni di libri

L’amica geniale (quattro volumi) – Elena Ferrante – (non) recensione

Per scrivere dei quattro volumi de “L’amica geniale” di Elena Ferrante devo chiudere gli occhi, per afferrare tutto, e trattenere il fiato, per fermare le immagini, le sensazioni. Le parole. Occhi chiusi e fiato sospeso per tenere insieme la scrittura, i personaggi, la trama, le trame. Le storie. Ma tutto si mescola. Si smargina. Solo un sentire emerge e resta a galla. Il senso di appartenenza. Ma non sono questi quattro libri ad appartenermi. Sono io che appartengo a loro. E credo sia la prima volta che mi capita. Appartengo alla scrittura della Ferrante, netta e poetica, onesta, viva. Dura e delicata. Appartengo Lila e Lenù, imperfette e reali, che la narrazione mi porge vive nella loro ricerca di un posto nel mondo, nei mondi. Nel micro e nel macro, nel personale e nel politico. Appartengo alla rabbia e alla disperazione, al tagliarsi e poi ricucirsi, allo sfarsi e poi ricomporsi. Appartengo a quell’affetto profondo e a quel senso di famiglia al di là della famiglia. Ai corpi esplorati, rifiutati, cercati, odiati e amati. Appartengo allo spogliarsi e al rivestirsi. Appartengo agli amori sfibranti. A quel senso di sé sfuggevole, mutevole, in balia di dubbi e paure. Come il sali scendi della marea. Appartengo all’infanzia che resta nei gesti, nelle parole e nelle scelte. Nel bene e nel male. Appartengo al percorso di liberazione dall’approvazione dello sguardo altrui. Al desiderio incessante di dare un senso alle cose attraverso la scrittura. Alla volontà di esserci, alla paura di essere. Appartengo alla cattiveria, ai sentimenti sporchi e al tentativo di nasconderli. Appartengo alla realtà narrata nel suo fluire, senza argini, senza sconti, senza abbellimenti. Appartengo alle bugie dette per sopravvivere, alle verità urlate per non soccombere. Al perdersi e ritrovarsi. Ad occhi chiusi, con il fiato sospeso. Elena Ferrante L’amica geniale 2011 e/o p. 400 Elena Ferrante Storia del nuovo cognome, l’amica geniale volume secondo 2012 e/o p. 480 Elena Ferrante Storia di chi fugge e di chi resta, l’amica geniale volume terzo 2013 e/o p. 382 Elena Ferrante Storia della bambina perduta, l’amica geniale quarto e ultimo volume 2014 e/o p. 451

Elena Ferrante [cit. da Storia della bambina perduta]

Al solito mi bastava una mezza frase di Lila e il mio cervello ne riconosceva l’aura, si attivava, liberava intelligenza. Ormai lo sapevo che riuscivo a fare bene soprattutto quando lei, anche solo con poche parole sconnesse, garantiva alla parte più insicura di me che ero nel giusto. Trovai una sistemazione compatta ed elegante al suo brontolio digressivo. Scrissi della mia anca, di mia madre. Adesso che avevo intorno a me sempre più consenso, ammettevo senza disagio che parlare con lei mi suscitava idee, mi spingeva a stabilire nessi tra cose distanti. In quegli anni di vicinato, io al piano di sopra, lei a quello di sotto, era successo spesso. Bastava una spinta lieve e la testa che pareva vuota si scopriva piena e vivacissima. Le attribuivo una sorta di vista lunga, gliel’avrei attribuita per tutta la vita, e non ci trovavo niente di male. Elena Ferrante – Storia della bambina perduta [L’amica geniale – quarto e ultimo volume]

(non) recensioni di libri

Passaparola. A murder mystery – Simon Lane – (non) recensione

“Ma purtroppo la verità, come la luce, la senti tua in modo speciale quando sei l’unico a vederla, né ti immagini che gli altri riescano a percepirla come te, ammesso e non concesso che la vedano. Ognuno guarda il mondo con i propri occhi, e questo include la verità, che lo si voglia o meno, vale a dire che se anche tutti fossero onestissimi, cosa che non sono, persino allora la verità continuerebbe a essere una faccenda personale, un po’ come l’amore o la scelta di mangiare a colazione il croissant o il pain au chocolat, oppure uova e bacon se sei mister Penfold.” Passaparola è Felipe. Felipe che ad un registratore racconta come sono andate le cose, dall’inizio. Perché è questo che gli ha chiesto il suo avvocato. E Felipe racconta. Racconta i fatti, racconta se stesso. E l’amore e la solitudine. Racconta le persone dal suo personalissimo, invisibile, punto di vista. Racconta della luce che ogni giorno si posa sul pavimento, delle stanze che devono essere pulite e delle persone che non possono essere pulite fino in fondo. Felipe racconta di quel giorno lunghissimo, il giorno più lungo dell’anno. Racconta l’arte, i film e i libri. Racconta la scrittura e anche uno scrittore. Felipe racconta il genere umano nelle sue più semplici ma reali sfumature. Felipe racconta i fatti, dall’inizio, perché è quello che gli ha chiesto l’avvocato. Perché se non è stato lui ad uccidere monsieur Charles bisogna provare a capire chi è stato. Felipe è uno  di quei personaggi di carta che vorresti incontrare per poterci parlare, con la sua leggerezza, la sua fragilità e la sua filosofia. E Passaparola è un libro da cui si dovrebbe e potrebbe fare un film. Per le strade di Parigi. O adattarlo per il teatro. Un lungo monologo pieno di poesia, in scena un uomo e un grosso bidone per la raccolta differenziata. Non conoscevo questo libro, “Passaparola. A Murder Mystery”. E nemmeno il suo autore, Simon Lane. Ringrazio la 8libriedizioni per avermelo segnalato. Passaparola. A murder mystery Simon Lane Ottolibriedizioni pp. 192 traduzione di Cristina Ingiardi copertina di Stefania Morgante

Mi tremano le mani.

Mi tremano le mani. A voler essere precisa, mi trema la mano destra. Da quando non lo so, o forse sì. Mi trema la mano destra, come volesse compiere un gesto che la mente, però, si rifiuta di coordinare. Un gesto che tutto il corpo si rifiuta di sostenere. Mi trema la mano destra, ma non sempre. Mi trema la mano destra quando qualcosa colpisce la mia attenzione, quando una parola esplode. Quando una frase si sedimenta e attende. Inutilmente. Trema, perché saprebbe compierlo quel gesto se solo mente e resto del corpo non si rifiutassero ostinatamente di collaborare. Trema, e fa male.

sestanti

parole belle

queste sono le mie due nuove parole preferite Amélie Nothomb La nostalgia felice Voland, collana amazzoni

(non) recensioni di libri

L’armata dei sonnambuli – Wu Ming – (non) recensione

Una copertina che è la fine del mondo. Un romanzo che è la conclusione di un percorso iniziato con Q, uno dei libri che m’ha cambiato la vita, che mi ha insegnato che non si deve proseguire l’azione secondo un piano e che anche io ho una cosa che devo fare. Un personaggio, per me, sopra a tutti gli altri, Marie Nozière. I suoi artigli e una lacrima sopra pagina 597, il suo romanzo nel romanzo, i suoi nodi, la sua forza, i suoi buchi neri e quella sensazione di aver tralasciato qualcosa. Una scrittura eccellente, e viva, che si scapicolla per le strade di Parigi, sale sui tetti, reclama il pane e agguanta bastoni e chissene, quello era il giorno. Diramazioni narrative che impongono la rilettura e l’approfondimento, Storia e Romanzo a braccetto. Il vecchio mondo che si frantuma e tenta di ricomporsi, ancora si frantuma e ancora si ricompone, finché non troveremo il modo di frantumarlo definitivamente ed irrimediabilmente. E corrispondenze con il presente che sorprendono solo se non si è mai guardato alla Storia con la giusta attenzione. E le donne, diverse, uguali, l’hanno iniziata loro la cagnara, donne in cerca di una strada, in cerca di una Rivoluzione nella Rivoluzione a partire dallo strappo, dal taglio, dall’eccezione. La controrivoluzione, che, per qualcuno, non è l’opposto di una rivoluzione: la controrivoluzione è la rivoluzione opposta. E  il Terrore. E la parte smerda, che «Terrorista» era chiunque rammentasse al prossimo che anche i ricchi cagano. La parte smerda perché, tanto, eravam tutti te’o’isti. E la fame, quella che la testa non funziona più come prima, s’incaglia. E frasi come stilettate, come sassi lanciati lontano con notevole precisione. Parole che eccitano gli animi e causano turbamento dell’ordine pubblico, perché il potere rivoluzionario rispetta la libertà d’opinione, ma attenzione a quel che si dice. Una narrazione in armonia con lingua e linguaggio, ricercata e colma di dettagli che creano un’insieme compatto, tangibile, fin negli odori, fin nella massa, nel popolo, che si muove, avanza, arretra, ancora avanza, vive, muore, ride, piange e fa la Storia. E l’Atto quinto. E Scaramuche siamo noi. Wu Ming L’armata dei sonnambuli Einaudi (Stile libero big) 2014, 796 p copertina: Andrea Alberti, Chialab

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Stati di grazia – Davide Orecchio – una (non) recensione

[…] È colpa dei soprusi, della guerra per la vita, dell’ozio negato, della penuria, dell’insussistenza, dello squallore, dei rapporti di forza, delle classi, dei dipartiti che bussano sulla memoria oppure la scorticano. Quanto pesano fatica e schiavitù? Perché ha viaggiato fin qui, se ora prende nuovi ordini? In Sicilia era servo sottoterra, adesso lo è sotto il sole: cambia la luce e nient’altro. Spiegami cosa sarebbe questa felicità si domanda e risponde: Non «cosa», ma «dove»: abita con noi, striscia nell’orto, dorme sotto la brace. È qui, l’abbiamo portata assieme a tavolo e brande. Non la vedi? Non la vede. Resta triste. Non si fa una ragione e odia tutto quel vero. Odia il dominio, le angosce nel corpo. Tiene lo sguardo tra i rovi. Non è diverso da quello che era. […] Stati di grazia di Davide Orecchio, pubblicato da ilSaggiatore, è molto ma molto di più di questa citazione. Molto ma molto di più. Quella scritta qua sopra è solo una goccia, è solo una delle mille parti di questo libro che avrei potuto scegliere come inizio di questa (non) recensione. Stati di grazia è scrittura e Scrittura, una storia e una Storia. La Storia. Anche, in un certo senso. Stati di grazia è un viaggio per mano alle protagoniste e ai protagonisti, un viaggio che non saprei definire perché in fondo sto scrivendo di questo libro ma mi mancano le parole per farlo. Forse perché di parole, belle, giuste, precise, dosate, scagliate, appoggiate, urlate, sussurrate, scelte, allineate, compatte, giù come un’onda anomala inarrestabile questo libro ne è pieno, pieno zeppo. Pieno di parole, di virgole e di punti. Punti, soprattutto. Un’onda anomala potentissima e dolcissima, spaventosa e reale. Dicevo, un viaggio. Un viaggio umano e doloroso. Un viaggio forte e rabbioso. Come è la Storia, umana, dolorosa, forte e rabbiosa quando la si guarda da dentro, quando la si guarda per mano a qualcuno. Ma mi fermo qua, perché in fondo sto scrivendo di questo libro ma mi mancano le parole per farlo. Mi mancano sempre, le parole, quando un libro me ne regala così tante. Stati di grazia Davide Orecchio ilSaggiatore p. 309 collana La cultura

Murakami Haruki [cit. da L’arte di correre]

Può darsi che il numero di copie vendute, i premi letterari, le recensioni dei critici costituiscano dei criteri in base ai quali giudicare il risultato, ma non sono l’essenziale. Ciò che conta, più di ogni altra cosa, è che l’opera compiuta corrisponda ai criteri che lo scrittore stesso ha stabilito, e in questa valutazione non gli sarà facile barare. Davanti agli altri bene o male si possono trovare dei pretesti, ma ingannare se stessi è impresa ben più ardua. In questo senso scrivere un libro è un po’ come correre una maratona, la motivazione in sostanza è della stessa natura: uno stimolo interiore silenzioso e preciso, che non cerca conferma in un giudizio esterno. Murakami Haruki, L’arte di correre [Einaudi]

sestanti

Ecco per esempio un incipit

Sul treno Marsiglia-Nizza viaggiava una donna piena di vigore. Aveva superato da un pezzo la quarantina ed era piuttosto abbondante dalla vita in su. Le stringhe incrociate del busto le rinserravano il seno, le stecche s’incurvavano ad ogni respiro, e a ogni respiro, a ogni movimento, risuonava di molte catene dagli anelli d’oro grezzo, mente il tintinnio di grosse pietre pesantemente incastonate sottolineava i suoi più piccoli gesti. Sbatteva di continuo gli occhi nocciola, e di tanto in tanto vi accostava la lorgnette dal lungo manico e seguiva con lo sguardo il paesaggio che si sfocava nel fumo del treno. Djuna Barnes, Aller et retour in La passione

Appunti di scrittura – stato d’animo random #4

Vibro. Lo sguardo si posa su tutto e su niente in particolare. Con questa voglia di saltare che prima o poi dovrò seguire. Quando sarebbe utile mettere la parola fine, andare a capo e scrivere la parola inizio. Quando non mi basta quello che scrivo e non mi basta come lo scrivo. Con questa voglia di saltare che prima o poi dovrò seguire? Quando porto a spasso i se e mi addormento accarezzando i ma. E tutti sono lontani ma io sto bene da sola. E lascio andare le cose, e ancora non ho capito se c’entra la paura o qualcosa a cui non sono ancora stata capace di dare un nome. Ma vibro. Quando quello che scrivo sembra avere un senso. Un senso fuori da quello che scrivo. Quando quello che scrivo si espande e non sbatte da nessuna parte. Quando non so. Quando mi importa di non sapere e mi fermo. E non dovrei fermarmi, ché non c’è niente da sapere ma solo da fare. Solo da scrivere. Senza domandarsi come, cosa, quando, perché. Per chi.

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piccole cose con le zampe – michele orti manara – (non) recensione

Il racconto, quando è breve, brevissimo, deve essere preciso, precisissimo. È questione di equilibrio tra le parti, di suono, di ritmo. È questione di punteggiatura. Anche solo un punto fuori posto, una virgola mancata, e qualcosa stride irrimediabilmente. I tratti a disposizione sono minimi, c’è bisogno delle giuste sfumature, dei giusti punti di luce. I racconti presenti in piccole cose con le zampe di Michele Orti Manara sono precisi, precisissimi. La scrittura è accurata, curata. Ricercata nella struttura del periodo e nei passaggi di collegamento tra le immagini che compongono la linea temporale o la struttura della storia. Punto di flesso e Un posto vivibile, soprattutto, scivolano via senza mai perdere il ritmo. Sono due piccole bolle che non si ha voglia di far scoppiare. Un posto vivibile, in particolare. L’ho letto in apnea e me ne sono resa conto solo alla fine. Il filo della narrazione teso, ma mai sul punto di strapparsi. Mi piace leggere cose così, mi piace molto. Piccoli frammenti che aprono la finestra su un istante, un sentimento, un idea. E tutto quello che chi scrive riesce a metterci dentro, tra le giuste sfumature e i giusti punti di luce. […] Qualcosa è andato storto. L’accordo non prevedeva competenze mediche né telefonate salvifiche. Prevedeva una coreografia di gesti semplici per rendere più pulito l’appartamento, sequenze di movimenti in grado di migliorare la vita della miniatura e del suo fidanzato Sergio – e allo stesso tempo di soddisfare l’innata predisposizione di Wali Gupta all’ordine. In quelle stanze di una città ancora da conoscere, abitata da gente con cui fatica a condividere anche la gestualità – il grado zero della comunicazione – fare le pulizie per Wali Gupta è diventato un lavoro di più ampio respiro, quasi una missione, una tessera del grande mosaico in cui il mondo, tutto il mondo, anche le porzioni che non hai mai visto né abitato, è un posto sicuro, accogliente, dove le superfici sono immacolate e gli esseri sono trasparenti. […] piccole cose con le zampe michele orti manara eBook copertina di Shen

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