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Tag: pensieri

Maurizio Torchio [cit. Cattivi]

Ho paura. Mi vergogno a dirlo. Non lo dicessi, però, mi vergognerei di più. Ho paura perché ho speranza. Perché, assurdamente, sento di avere ancora qualcosa da perdere. È vero che ho il fine pena mai, ma le leggi cambiano… E poi,esiste pur sempre la grazia. Ho detto: So che la mia vita è finita… Be’, non è vero. Nessuno ha più speranza di chi è rinchiuso da tanto tempo; se non ti uccidi, accumuli fiducia nel dopo. È inevitabile. Come una grotta interna, dove cola speranza, Una riserva segreta. Non piove, perché non è in contatto col mondo. Ma neanche il sole, o il vento, possono seccare quel poco che, lentamente, si accumula. Stilla. Una goccia all’ora. Migliaia di litri in decine di anni. Un lago senza cielo, ma pieno di speranza. Mi vergogno più della speranza che della paura. Quando dieci anni fa ho smesso di fumare le guardie mi prendevano in giro. Cosa ti allunghi la vita a fare, mi dicevano. Io ho risposto: Smetto perché non voglio più aver bisogno dei soldi per le sigarette. Non voglio, un giorno, dovermi vendere per quello. E loro mi hanno creduto, rispettato. Non mi hanno più preso in giro. Mentre avrebbero fatto meglio a continuare, perché la verità è che ho smesso di fumare per vivere di più. Chi dice che in carcere si sta come in albergo sbaglia, perché niente come un albergo prosciuga la speranza. Fuori c’è un sacco di gente che dopo i cinquant’anni si ammazza, perché ha capito che il mondo non si aspetta più niente da loro. Tolto l’eredità, forse. Qui invece col fine pena a sessant’anni pensi di avere ancora tutto da fare. Di poter diventare astronauta, ballerino, imprenditore. Perché dietro hai poco. Come se le cose della vita stessero in un sacco, dove non puoi vedere, ma senti che pesa e comunque, se hai tirato fuori così poco, qualcosa dev’esserci rimasto. Maurizio Torchio Cattivi Einaudi

chiudi bene la porta, che stasera tira vento

Chiudi bene la porta, che stasera tira vento, è un vento fortissimo. Tira su per aria le cartacce da terra e se le porta via, fa oscillare gli alberi e sbattere le persiane. Chiude bene, chiudi bene la porta per favore. Chiudi anche la finestra, chiudi tutto. Il vento mi fa paura, mi ha sempre fatto paura. E stasera non ho voglia di avere paura. Mi metto qua, nell’angolo comodo del divano e provo a non fare rumore. Respiro piano, passami solo la coperta. Non ho freddo, no, ma fuori c’è il vento, e il vento mi fa paura e con la coperta addosso mi sento più tranquilla. No, non leggo stasera. Guardo le pagine ma mi sfuggono le parole, non riesco a stringerle, non riesco a tenerle in ordine. Se ne vanno via senza dirmi niente. Sarà colpa del vento, chi lo sa. Sì, puoi sederti qua vicino a me ma non ho voglia di parlare. Non saprei cosa dire, ho pensato troppo oggi. Ho pensato troppo a cose a cui non mi andava di pensare e ora sono un po’ stanca. Mi piacerebbe che fosse inverno, almeno stasera. Questa stanchezza appartiene all’inverno. Domani no, domani voglio il sole, e il caldo. E passeggiare da qualche parte, ti va? Bene, allora domani ci facciamo una passeggiata. Hai sentito? Ho sentito un rumore. Sì, hai ragione, sarà il vento. Maledetto vento, lo odio. Hai chiuso bene la porta? Sì, lo so che non è solo colpa del vento se stasera son così, lo so. Ma non ho voglia di pensarci, preferisco dare la colpa solo al vento. Mi tremano ancora un po’ le mani, lo so, ma non ti devi preoccupare. È normale, sono i pensieri che si assestano. Ci sono abituata, mi conosco. So come sono fatta, quando penso troppo poi i pensieri si devono assestare e mi tremano le mani. No, non c’entrano le sigarette e nemmeno il caffè. Sono i pensieri, credimi. Cosa penso di fare? Non penso di fare niente, semplicemente. Non c’è niente che io possa fare. Non stavolta, non è compito mio. Un bicchiere di vino? Sì, beviamo un bicchiere di vino. No, non posso fare niente. Vorrei, in un certo senso, ma non posso. Vorrei in un senso astrattatto, se così si può dire. Vorrei sempre fare qualcosa, in questo senso dico, in senso generale, se stessimo discutendo per ipotesi e non nella concretezza. Mi dispiace sempre quando succedono queste cose. È una specie di perdita, no? Buono questo vino, ricordiamoci di prenderne ancora. Si, è come se perdessi qualcosa quando le cose vanno a finire così. Senti, senti che vento. Mettiamo un po’ di musica, sì? Un po’ di musica così non sento il vento. Domani dove andiamo a camminare? Ho voglia di far andare i piedi uno dopo l’altro, uno dopo l’altro. Decidiamo domani, domani ci alziamo e decidiamo. Sì, me lo domando cosa succederà. Ma non ce l’ho una risposta, e non è un problema. Avessi sempre tutte le risposte, sapessi sempre rispondere a tutte le domande che domande sarebbero? Sarebbero solo ragionamenti ininterrotti, un unico lunghissimo, noiosissimo discorso. Oddio, m’è partita la vena filosofica. Sarà il vino. No, non ho voglia di andare a letto. Ancora no. È troppo presto, è ancora tutto qui. Addosso, sulle mani, nella testa. Sento l’eco. Non voglio andare a letto portandomi l’eco di tutta questa giornata. Voglio stendermi nel letto, infilarmi sotto il lenzuolo e addormentarmi subito. Se vado a letto adesso mi porto appresso l’eco. Il vento e l’eco. Non ci voglio nemmeno pensare, guarda. Me lo immagino così l’inferno, provare a dormire mentre fuori c’è il vento e nella testa l’eco di una giornata di merda. Adesso basta però, basta parole. Basta pensieri. Altrimenti l’eco non se ne va.

andiam su, andiam su

Stancamente mi allungo sull’unico pezzo di letto libero e mi lascio andare, come se a lasciare andare il corpo mi potessi alleggerire di tutto, di tutti. Abbandonata sulla schiena, con una gamba che non entra nel letto e allora il piede s’appoggia necessariamente sul pavimento, chiudo gli occhi e faccio una smorfia. Si può morire di troppi pensieri? Se ne stanno ammucchiati disordinatamente come tanti piccoli lumini in lontananza. Potrei dire come miliardi di miliardi di miliardi di stelle nel cielo, che se allunghi una mano puoi afferrarne una. Ma non lo dirò. Non c’è niente di poetico in tutti questi pensieri. E non ci tengo ad allungare una mano e ad afferrarne uno. Afferrerei volentieri un po’ di silenzio piuttosto. E andiamo di metafore, perché afferrerei volentieri un po’ di silenzio come s’afferra una mongolfiera per salirci sopra e volare via, qualche chilometro su nell’aria, a fluttuare con rotonda eleganza lontano da tutto questo fracasso, lontano da tutto questo marciume. Lontano, di grazia. Anche solo un po’ più in là. Anche solo un po’ più su. Slegare un peso dopo l’altro, e andiam su, andiamo su, andiam sempre più su. O venitemi a prendere, fin qua su. Provate a raggiungermi, senza mongolfiera. E se ne trovate una, prima vi sputo in testa mentre cercate di raggiungermi. Poi, quando siete vicini, vi sorrido e va la buco. E vi guardo cadere giù.

domenica uggiosa e fredda

Che domenica uggiosa, e fredda. Tocca stare sotto la coperta, neanche fosse dicembre, e invece è aprile, fuori dovrebbe esserci il sole, e quella leggerezza che si porta appresso, quel potersi permettere l’abbandono dei problemi, almeno il tempo di un sorriso. E poi c’è il problema del vuoto.

un racconto
notes

qualcosa stride

Qualcosa stride. In un punto imprecisato, qualcosa. Un ingranaggio fuori posto. Un tassello che s’è messo di sbieco. Nel quotidiano impegno che metto nel tenere in ordine gli eventi, le parole dette e quelle sentite. E un posto anche per quelle pensate. Qualcosa stride. E vanifica gli sforzi. Inquina il desiderio. Anche il più piccolo, anche il più semplice da raggiungere. La frenesia, allora, dei gesti che girano a vuoto, e quella sensazione, inopportuna, a fine giornata, d’aver girato a vuoto insieme ai gesti. Manca qualcosa. O c’è qualcosa di troppo. E quella cosa che stride. E il tempo, nel modo più banale possibile, scappa. E tenere fuori ciò che mi ferisce. Tenere fuori ciò che mi distrae. Tenere fuori ciò che riconosco come nocivo. Preservarmi e difendermi è solo un agitar le braccia e le gambe, sul posto. Sudata e stanca senza aver fatto un passo. Né avanti, né indietro. Né tanto meno, e sarebbe già abbastanza, di lato. Fuori fuoco. Fuori asse. C’è qualcosa di troppo. C’è qualcuno, di troppo. Scendete tutti dal mio fungo.

(non) recensioni di libri

Se fossi fuoco, arderei Firenze – Vanni Santoni – pensieri sparsi – (non) recensione

Mi sono tuffata in “Se fossi fuoco, arderei Firenze” e ne sono riemersa con un sorriso. Vanni Santoni s’è messo una telecamera in spalla e m’ha detto ‘Oh giù, ‘ndiamo’. E seguendo ora questo personaggio, ora quest’altro, ora quest’altro ancora e così via, una storia per ogni personaggio, uno squarcio breve per ognuno, ogni personaggio collegato in un modo o nell’altro agli altri, ché si sa Firenze gl’é un buco e ci si conosce tutti, m’ha portato in giro per la mia Firenze. E non mi son lasciata convincere facilmente. Perché Firenze, appunto, è la mia Firenze. Non ci vivo più da nove anni, e chissà quando chissà come c’ho litigato. C’ho litigato perché s’è trasformata e non la riconosco più. Ci sono nata e cresciuta e lei adesso mi respinge, quando la guardo e provo a ricucire lei mi dice ‘non sono più la Firenze di quando ci siamo conosciute’. E allora l’amo, certo che l’amo, ma come s’ama l’idea di qualcuno che non è più come quando ci si abbracciava, ci si guardava e ci si diceva non ci lasceremo mai. La guardo e non la riconosco, ché c’hanno portato via tutto, un pezzettino alla volta. E di mettermi in posa nella cartolina tridimensionale luccicante per turisti di voglia ce n’ho poca. Ma tanto ha fatto tanto ha voluto, Vanni Santoni, che m’ha convinto a seguirlo, a seguire i suoi personaggi, a seguire le sue storie, con sullo sfondo e in primo piano la città. E un pezzettino alla volta me l’ha restituita. Un pezzettino alla volta, un personaggio alla volta, una storia, una strada, una piazza alla volta, un angolo che chissà come avevo dimenticato e invece eccolo, ben impresso nella memoria. E l’ha risvegliata, la memoria addormentata, e mi sono ricordata che sono comunque figlia di quei palazzi, e pietre e statue e ponti. E i pub, le case occupate e i centri sociali. I giardini e i vicoli. I vinaini e i trippai. Una pagina alla volta mi sono ripresa Santa Croce, via Torta e Borgo Pinti. Mi sono rimessa in tasca gli Uffizi, Ponte Vecchio e Ponte Santa Trinita. Santo Spirito e Piazza del Carmine. San Niccolò e il Piazzale Michelangelo. E tutti gli angoli nascosti, quant’è vero che spesso e volentieri s’allunga la strada pur di passare in un luogo preciso, quello e nessun altro. M’ha accompagnato e m’ha parlato in una lingua bella, una lingua che riconosco. Parole risciacquate in Arno. Parole familiari. E io mi sono ripresa tutti i passi che ho fatto, e le albe rosa rarefatte e silenziose in cui m’immergevo di ritorno da chissà dove, ma sicuramente con un po’ d’alcol da smaltire. Con quell’eterna voglia d’andare e di restare. E con Firenze mi sa che la pace non ce la farò mai. Però mi son ripresa quello che era mio. E tanto basta, finché dura. Se fossi fuoco, arderei Firenze Vanni Santoni pp. 158 Laterza 2011

Giusto così …

Faticoso rientro. E non parlo del traghetto in ritardo da Igoumenitsa di otto ore, della notte trascorsa a dormire in macchina all’attracco della nave, delle sedici ore diurne di sbattimento a ciondolare tra il ponte appiccicoso e ventoso e la sala interna a – 20 causa aria condizionata usata come arma impropria e quindi passibile di denuncia. No. Parlo del riprendere confidenza con la quotidianità. E non vista in relazione ai lunghi bagni, al sole, alle passeggiate nelle acropoli e nei resti archeologici. No. Parlo della qotidianità presa nella sua esistenza a sé stante, senza oggetto di paragone. Senza un meglio e un peggio. Parlo della fatica a rinfilarsi vestiti che forse non mi stanno più, a riprendere meccanismi di cui forse non afferrò più il funzionamento, o quanto meno di cui non riesco più a capire il significato. E questa volta non c’entra la scrittura. Io e le mie parole stiamo bene, nessun conflitto, nessun divorzio all’orizzonte. Mi ammutolisco e cerco di capire quale sia la nota stonata, quale sia la grinza nel lenzuolo, la mattonella lievemente sollevata del pavimento che mi fa inciampare, e inciampare, inciampare e inciampare ancora. Sospiro, sorseggio il mio caffè, mi accendo una sigaretta. Con una calma e una flemma sospette. Io non sono mai calma, io non sono famosa per la flemma. Mi riscopro a pensare ai miei 32 anni. Mi sorprendo a farci i conti. Mi sbircio e mi spio, e sul viso leggo soddisfazione. Quindi non è con me che ce l’ho. Non è a me che penso. Ché io, cazzo (ecco, questa sono io), mi sono fatta un culo così per superare gli errori commessi. Io mi sono rivoltata come un calzino per abbandonare certi meccanismi mentali malsani che non mi portavano da nessuna parte, oppure nell’unica direzione sbagliata. Io. Pericolosi rigurgiti di autocompiacimento e orgoglio sbandierato ai quattro venti. Ogni tanto me lo concedo. Non è decisamente con me che ce l’ho. Non ce l’ho con me, non ce l’ho con le mie parole. Non ce l’ho con la mia vita. Con la mia vita in senso lato, quella passata, con i passi fatti fino ad adesso, con le cose fatte, quelle lasciate a metà, quelle solo pensate e quelle scartate senza concedere neanche la brutta copia di un pensiero. Eppure qualcosa si agita nella mia testa, nel mio stomaco. E non è colpa della caffeina, mista a nicotina, mista a zuppa cinese liofilizzata mangiata davanti alla televisione in compagnia della signora Fletcher. Cerco l’accendino, l’occhio cade sul mio piccolo peloso coniglio nano. Ci faccio di nuovo caso, dorme molto di più da qualche tempo a questa parte. Sarà che invecchia? Comunque. La sensazione che ho è quella di aver abbandonato qualcosa, di aver finalmente chiuso con una parte della mia vita e con un certo lato del mio carattere. Come si fosse stappato un tappo, fosse fuoriuscito del liquido in eccesso che ha ristabilizzato un  certo equilibrio di cui sentivo la mancanza. Ad essere per natura spugna che assorbe quello che gli esseri umani spandono in giro c’è del positivo e c’è del negativo. Non fossi spugna non sarei scrittrice, non fossi spugna non avrei bisogno di trasformare in storie quello che assorbo. Ma a volte è troppo, a volte è tutto troppo, e non si fa in tempo a metabolizzare, non si fa in tempo a sezionare, incanalare, ordinare e restituire sotto forma di manufatto creativo. Ci vuole equilibrio, ci vuole mediazione. Ci vogliono zone franche in assenza di altro. Di altri. Anche perché a volte, gli altri, non controllano ciò che scaricano e rovesciano tutto intorno. Sacchettate di merda senza preoccuparsi di chi ne verrà sommerso. Frustrazioni, pentimenti, incapacità, vicoli ciechi, strade dissestate su cui continuano a camminare senza le scarpe adatte, caparbiamente nella stessa stupida, idiota direzione, ignorando i bivi, sottovalutando il potere delle inversioni ad U. Vivono e sono corpi pieni di rancore inutile, rabbia tumefatta, recriminazioni senza sostanza e cattiveria acida che finiscono con lo strabordare fuori ad ogni passo, ad ogni frase, ad ogni tentativo incancrenito di comunicazione con l’altro. Chiunque altro. Annaspano e si aggrappano, ma non per tornare  in superficie. Si aggrappano per portarti a fondo, nella melma, nell’inerzia, nel lamento, nel gioco al massacro, nello sputare veleno sull’altro per non sputarlo sapientemente e necessariamente su di sé. E questo è materiale difficile da gestire. Non è sofferenza che riesco a condividere, non è pratica che riesco ad accogliere. Non è realtà in cui voglio stare immersa, perché alla fine è qualcosa che finisce sempre con il sommergermi, facendomi boccheggiare, perché non riesco a sviscerarlo, non riesco a modellarlo, non riesco a trasformarlo. Ecco, questo volevo dire. Questo è quello su cui la mia testa ragiona, adesso. In questo inizio di settembre. Che mi fa pensare che voglio cose belle. Pensarle, cercarle, e se mi va di culo afferrarle. Ecco, così, giusto per fare un po’ di ordine. Olé.

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