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Capelli neri

Questo l’ho scritto un po’ di tempo fa. Lo tenevo infrattato perché aspettavo di conoscerne il destino.

Si chiama Capelli neri.

Certo che posso raccontarle come sono andate le cose. Si vuole sedere? No?

Ci penso ogni giorno a quello che è successo, agli eventi che mi hanno portata ad essere qui, oggi.

Le assicuro che ci penserebbe ogni giorno anche lei. Certo, poi, cosa si prova a ripensarci dipende da come uno è.

Guardi, se mi permette, le do un consiglio, venga qua, si sieda e chiuda gli occhi. Io lo faccio sempre quando ci ripenso. E rivivo tutto come fosse adesso. La prego, chiuda gli occhi. Perché è l’adesso che conta. Sempre.

La macchina è parcheggiata al sole.

Mi sono tinta i capelli di nero e voglio che il sole li colpisca in pieno.

Riesce a vedermi? E’ importante.

Sono una casalinga di trent’anni, con due figli e un marito che non mi interessa di conoscere. Mi sono svegliata una mattina, mi sono voltata verso di lui, e mi sono domandata chi fosse, chi fosse davvero, scoprendo che non mi interessava saperlo.

Nessun rancore, non ci sono colpe, non ci siamo mai fatti del male, anzi.

Ma il nostro è un amore tiepido, che non si è scaldato e non si è raffreddato, e siamo due corpi a sé stanti che convivono, placidamente e tiepidamente.

Sono una casalinga di trent’anni, con due figli e un marito che non mi interessa di conoscere, e sto per vendere della cocaina purissima.

Ho pensato che un’occasione così non mi sarebbe capitata mai più.

Per questo ho tinto i capelli di nero e ho chiesto a Lélé di parcheggiare la macchina al sole.

Volevo che tutto fosse perfetto. Come in un film.

Perché stavo per vendere della cocaina, purissima.

Almeno così mi aveva detto lui.

– Signora Caterina, questa è cocaina. Ed è pura. Purissima.

Io guardo Lélé, lo guardo e gli chiedo, non so nemmeno come mai mi passa nella testa, gli chiedo – Quanto vale?,  invece di dire – Oh mio dio! , oppure – Portala via di qui, ho due bambini piccoli in casa.

Non è vero, lo so perché gliel’ho chiesto. Devo averci cominciato a pensare quando ho trovato il sacco nero nascosto tra le lamiere nel parcheggio del supermercato. No, non apra gli occhi, davvero, mi dia retta, si fidi. Voleva che le raccontassi come sono andate le cose io lo faccio, ma lei mi deve ascoltare, ad occhi chiusi.

Michele, mio figlio, quello grande, 8 anni, non sta mai dove deve stare. Mentre carico i sacchetti della spesa in macchina, con Giovanni, quello piccolo, 6 anni, che cerca di scartare un pacchetto di caramelle, lui girella nel parcheggio.

– Michele, vieni qui – gli urlo.

– Mamma, c’è un sacco, con delle cose – mi risponde.

– Michele vieni qui! – urlo più decisa.

– Mamma, vieni a vedere – mi risponde.

Prendo Giovanni per mano e vado a vedere. Come sempre.

Penso che bisogna sempre andare a vedere quando tuo figlio te lo chiede. Non per viziarli, non è questo. Uno decide di fare un figlio e questo figlio ha diritto ad avere risposte e attenzioni. Così la penso. Le fa caldo? Lo so, ci vuole del tempo ad abituarsi. Dove ero rimasta?

Dentro il sacco, nero, sotto le lamiere, ci sono dei pacchetti di plastica trasparente pieni di polvere bianca.

– O mio dio, ma è droga – penso, mentre nella mia testa appaiono quei filmati che fanno vedere al telegiornale quando la polizia sequestra quel genere di cose.

– Che cos’è, mamma? – mi chiede Giovanni.

– Non lo so – rispondo, mentre mi guardo intorno, nel parcheggio deserto.

Penso che a volte ai figli non gli si può dare delle risposte oneste. E’ difficile, doloroso anche, ma non si può. Almeno non quando si trova della droga.

Faccio tutto senza pensare, senza riflettere.

Prendo il sacco nero. Dico ai miei figli di salire in macchina. Trascino il sacco, pesa, lo metto insieme alla spesa. Guido fino a casa. Scarico la spesa, tutta. Dico ai mie figli – Scendiamo al mercato, ho dimenticato di comprare una cosa.

– Ci fermiamo da Lélé? – mi chiede Michele.

– Ci fermiamo da Lélé – gli rispondo.

Quando gli ho chiesto se poteva salire un attimo a casa mia mi ha guardata a lungo, Lélé, mi ha guardata con quegli occhi neri orlati di bianco in mezzo a quel mare nero che è la sua pelle.

Mi guarda a lungo.

Finché non dico:

– Lélé, ti prego. Non ho nessun altro a cui chiedere aiuto.

Ed era vero, è vero. So che è difficile da capire. Comunque.

Lascia la sua bancarella al vicino. Mi segue silenzioso fino al mio appartamento, fissando intensamente qualcosa a terra, probabilmente le sue scarpe. Rimane zitto, in piedi, inquieto, in mezzo al salotto.

Io mando i bambini in camera loro e vado a prendere il sacco nero, lo trascino, pesa, rovescio il contenuto sul pavimento, ai piedi di Lélé, che cambia faccia. In un attimo. Si china. Apre uno dei pacchetti di plastica. E fa come nei film. Lo apre, ci mette un dito dentro e poi mette il dito in bocca.

E’ stato in quel momento che ho pensato che qualunque cosa sarebbe successa doveva essere come in un film.

Subito dopo dice:

– Signora Caterina, questa è cocaina. Ed è pura. Purissima.

E io dico, senza riflettere:

– Quanto vale?

Lélé si alza.

Riesce a vederlo? E’ importante.

– Signora Caterina, questa non è una cosa che ha a che fare con lei. E nemmeno con me. La prego. Butti via tutto.

E rimane lì.

– Lélé.

– Non è una cosa buona. Non è per niente una cosa buona.

– Lélé.

– Signora Caterina. E’ una cosa più grande di lei, e di me. Butti via tutto.

Io sospiro, lentamente. Sono esausta. Come se in poche ore la mia testa avesse lavorato più che in tutta la mia vita. Senza che nemmeno me ne accorgessi.

– Lélé, ascoltami. Io me ne voglio andare, voglio andare via. Non ho niente qua. Niente.

– Ma non è una cosa buona. Può andarsene via anche senza fare questa cosa.

– E come posso? Come? Lélé, guardami. Non ho niente. Niente.

Lélé mi guarda.

– Nemmeno io ho niente – dice.

Riesce a vederlo? Riesce a sentirlo? E’ importante.

– Non vuoi tornare a casa? A casa tua? – gli chiedo.

– Sì.

– Possiamo avere entrambi quello che vogliamo, Lélé.

– Signora Caterina, senza offesa, ma io non credo che lei si rende conto.

– E’ vero. Ma tu sì.

– Io non voglio sapere niente.

Mi siedo. Sospiro, di nuovo.

– Adesso è meglio che vado. Mi promette che butta via tutto? Sì?

Mi giro. Lo guardo.

– Aiutami Lélé. Ti prego.

Guardi, glielo giuro, non so dire cosa sia successo. Forse è stato il mio tono di voce, stremato. O forse i miei occhi, che non si sono mossi dai suoi finché non ho finito, in silenzio, di raccontargli  tutta quella patina grigia che non se ne va, mai, che sta dappertutto, sopra ogni cosa, dentro ogni cosa.

So solo che ha detto:

– Va bene. Nasconda tutto. Appena so qualcosa torno.

Ed è tornato. Dopo cinque giorni.

– Ho aspettato che suo marito usciva – mi dice mentre entra in casa.

Non mi spiega né mi racconta niente. Dove era andato. Con chi aveva parlato. Niente.

Dice:

– Ho trovato un compratore.

– Bene.

– Ci darà 80 mila euro.

La testa si svuota e si riempie, di tutto e di niente. Mi siedo, chiudo gli occhi. E penso – I capelli. Devo tingermi capelli.

Davvero. Così ho pensato. Non lo so perché. Tutta quella storia di essere dentro un film. Non lo so.

Lélé è nervoso, eppure c’è qualcosa in lui che mi dà pace e tranquillità. Mi dice che dobbiamo vederci con il compratore, così lo chiama, fuori città, nella zona industriale dismessa.

– Torno domani e andiamo insieme.

– No. Vengo io da te.

Il giorno dopo ho comprato il colore per i capelli, mi sono chiusa in bagno e li ho tinti. Stavo benissimo, ma questo non è importante. O forse sì. Comunque, ho lasciato i bambini dalla vicina e sono andata a prendere Lélé.

– Guida tu – gli dico, e poi aggiungo – quando arriviamo parcheggia la  macchina al sole.

– Va bene.

Non ci diciamo nient’altro.

Nemmeno quando siamo in macchina, seduti, e aspettiamo, ci diciamo niente.

Non ho paura. Dovrei averne, ma non ne ho.

Vorrei chiedere a Lélé se ha paura, ma non lo faccio. Guarda dritto davanti a sé. Non so a cosa stia pensando. A niente credo, io non penso niente.

– Signora Caterina?

-Sì.

– Quando arriva ci parlo io.

– Perché?

Non mi risponde. Si gira e mi guarda. Ci mettiamo a ridere.

– Va bene. Parlaci tu. Ma quando arrivano scendo anch’ io.

– No. Lei resta in macchina.

E mentre lo dice, tira fuori una pistola dalla tasca della giacca e mi dice:

– Se succede qualcosa metta in moto e vada via. Tenga questa sempre con sé e se qualcuno la viene a cercare la usi.

E io gli rispondo:

– Va bene.

I capelli sono tornati del mio colore, vede? E la gamba di Lélé è guarita.

Oggi fa davvero caldo, ha ragione. Di solito a quest’ora vado a prendere i bambini a scuola, ma oggi no. Non ci sarei andata nemmeno se lei non fosse arrivato. Torneranno da soli, ormai conoscono ogni centimetro di Popenguine, sa come sono i ragazzi. No? Lei non ha figli?

All’inizio non è stato facile, per loro, ma quando sono così piccoli si abituano in fretta, o almeno credo, magari invece i miei figli sono particolari, chissà. Per me non so dirle, né facile né difficile, naturale. Per questo ogni giorno penso a quello che è successo. Così non confondo le priorità.

Ogni singolo istante, che sommandosi ricrea nelle mia mente gli eventi che hanno cambiato la mia vita. Gli occhi, per favore, chiuda gli occhi, non ho finito.

Arriva una macchina, nera, si ferma, non vicino alla nostra, non riesco nemmeno a leggere la targa, ma forse è colpa del sole. Scendono due uomini. Anche Lélé scende, prende il sacco con la droga e va da loro. Parlano a lungo, non sento cosa dicono. Poi Lélé consegna il sacco, uno dei due uomini lo apre, poi annuisce e va alla macchina da dove tira fuori un’altra borsa. La consegna a Lélé, che la apre, poi fa una specie di inchino, ma non proprio, comunque, si gira e torna indietro.

Mentre cammina, mentre viene verso di me,

Riesce a vederlo?

i due uomini dietro di lui tirano fuori le pistole. Una puntata verso di lui, una verso di me.

Io lo guardo, guardo Lélé.

Non so dirle se ha capito, in quel momento, quando ci siamo guardati negli occhi. Non gliel’ho mai chiesto.

Prendo la pistola tra le mani.

Sparo.

Ad occhi chiusi.

Quando li riapro sono tutti a terra.

Anche Lélé.

Esco dalla macchina e corro, corro da lui. Apre gli occhi.

– Sono morti? – chiede.

– Non lo so – rispondo.

– Andiamo via.

– Ti ho colpito io.

– Non lo so. Andiamo via.

– Sì.

– Prenda i soldi.

– Sì.

Prendo la borsa e aiuto Lélé ad alzarsi. Zoppica, la gamba destra sanguina. Poi mi volto, un ciuffo di capelli mi cade sugli occhi. I due uomini non si muovono.

Rimango ferma, a guardarli.

Sento il mio corpo slittare.

Le è mai successo? No? Il corpo slitta, è attimo, e poi si riassesta, leggermente inclinato,  di qua o di là, oppure dritto. Dipende. Da cosa non lo so, ma quando si riassesta non lo fa sempre nello stesso modo. Per esempio, anche quando sono nati i miei figli e li ho guardati la prima volta, anche in quel momento il mio corpo ha slittato. Ma non si è riassestato nello stesso modo per entrambi, chissà perché. Lei lo sa? Non importa, un giorno lo troverò qualcuno che me lo spiega. Comunque.

Saliamo in macchina. Lélé si strappa la gamba dei pantaloni.

– Non è niente.

– Non è vero. Ti ho sparato.  Ho chiuso gli occhi e ho sparato.

– Andiamo a casa, signora Caterina.

– Sì.

Poi mi volto verso di lui. Quel mare nero.

– Lélé?

– Sì.

– Mi piacerebbe che mi chiamassi Caterina, e basta.

Così gli ho detto. Le pare? Con tutto quello che era successo, mica poteva continuare a chiamarmi signora Caterina, no? Avrei voluto anche chiedergli di darmi del tu, ma mi sembrava di pretendere troppo, in quel momento.

– Va bene.

Mi ha risposto così, semplicemente. E io allora ho detto, ascolti bene.

– Andiamo casa.

E ci siamo andati, a casa.

Siamo, a casa.

Gli occhi? Ah, sì, certo che li può aprire.

Le stavo dicendo, siamo a casa, lo capisce?

Non voglio certo dirle cosa deve fare, ci mancherebbe, ma prima di decidere della mia vita, di quella dei miei figli e di quella di Lélé, mi dica se ha capito quanto conta l’adesso, sempre.  Ad occhi chiusi, è riuscito a capirlo?

E’ importante.

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