Un racconto su suggestione, per Allegra.
Stasera ha addosso un paio di pantaloncini slabbrati e una canottiera costellata di macchie di unto. Sugo, forse. Ma potrebbe benissimo trattarsi di olio, quello che ti cola addosso quando mangi il fritto con le mani.
Spettinata, con i vestiti sporchi di unto, l’insonnia mi mordicchia le dita dei piedi.
Quando spengo la luce e dico al mio corpo dormi lei arriva.
Piccola, sciatta maledetta stronza insonnia.
Tengo il corpo immobile, la stanza ronza, le insegne lungo la strada si sciolgono, si fondono e si infilano tra i listelli delle persiane. Passa una macchina. Un’altra, un’altra ancora. Silenzio. Un’altra ancora.
E siamo alla giostra dei pensieri unitili, cavallini sbiaditi, meccanismo cigolante e musica distorta. La giostra dei progetti improrogabili e dei gesti irrisolti.
Agguanto il respiro, lo stringo per la collottola. Cerco di controllarlo e guidarlo, lei mi mordicchia l’alluce. Si scosta i capelli dalla fronte, mi guarda e sorride.
Ma perché mai ad un certo punto della mia vita ho smesso di farmi le canne?
E da lì l’onda anomala che sbatte sul spetto, si schianta e si sfrange. Mi inonda di memoria.
Tasto il comodino, prendo il telefono. Digito.
Ma te lo ricordi lo sciamano?
Fisso lo schermo per un po’ poi l’appoggio sul letto. Scanso il piede con un colpetto, l’insonnia mi sta massacrando un mignolo, l’illuminazione dello schermo di affievolisce fino a scomparire.
Passa una macchina, poi un’altra ancora. Asfalto umido.
Il materasso vibra, la luce dello schermo filtra attraverso il lenzuolo.
Sono le quattro del mattino
Sì, ma te lo ricordi o no?
No, non me lo ricordo lo sciamano. Dormi.
Insonnia.
Ma perché hai smesso di farti le canne?
Eh. Per questo volevo sapere se ti ricordavi dello sciamano.
Seee vabbè buonanotte.
Buio. La stanza ronza. Neon liquefatti che filtrano attraverso i listelli delle persiane.
Una macchina, un’altra. Un’altra ancora. Silenzio.
Mi arrendo, immobile. Aspetto che l’insonnia si stufi di mordicchiarmi le dita dei piedi.
*
Chissà se il treno fa ancora le stesse fermate. Il paesaggio fuori dal finestrino è lo stesso, o almeno mi sembra. Non riesco a definire i cambiamenti, a sovrapporre per immagini lo scorrere del tempo trascorso. Ho fatto questo tragitto l’ultima volta vent’anni fa, seduta nella macchina dei miei genitori tra uno scatolone e l’altro. Andavamo a vivere in città, ed io adolescente catapultata per direttissima in un’altra dimensione.
Il treno è cambiato, questo sì. Non è la stessa scalcinata littorina, ghiacciata d’inverno e bollente d’estate che ci trascinava ammassati dal paese a quella che chiamavano, con un mezzo sorriso, civiltà. E viceversa. Zaini, scarpe da ginnastica, e diana rosse morbide schiacciate nella tasca posteriore dei jeans.
Se chiudo gli occhi è come un’immensa lunghissima infinita diapositiva.
Vibro.
A che punto sei, qui stiamo aspettando tutti te.
Merda.
Di a mamma che stanotte non ho dormito, mi sono appena svegliata. La chiamo più tardi.
Cosa stai combinando?
Sono in treno.
In treno?
In treno. Sto tornando al paese.
Ma sei scema?
Vado a trovare lo sciamano.
Gesù cristo devi trovare te, al più presto.
Preferisco lo sciamano.
Ma cos’è questa storia dello sciamano (mamma non l’ha presa bene, dice che ti rifiuti di prendere la melatonina e che queste sono le conseguenze).
Lo sciamano, quello che viveva appena fuori dal bosco. Dai. Altro un metro e un sospiro, nodoso come un albero.
Quello sciamano?
Quello.
Sei scema. Ci sono modi meno complicati per trovare qualcosa da fumare.
Torno presto.
E ci mancherebbe. Non fare cazzate, torna tutta intera. Baciuz.
Ok. Baciuz.
Il paesaggio forse è lo stesso, o forse no, il treno sicuramente è diverso. Io sono sempre quella a cui viene detto di tornare a casa tutta intera e di non fare cazzate.
Sono quella che non ha finito l’Università e che ancora dice molti no e pochi sì. Sono quella che soffre d’insonnia e che a trentasette stridenti anni ancora preferisce i lavori a tempo determinato.
Io sono quella che si ricorda dello sciamano.
L’onda anomala che sbatte sul spetto, si schianta e si sfrange. Mi inonda di memoria.
*
C’era il sole. Avete presente il sole quando è perfetto? Così perfetto che se hai sedici anni e andare a scuola non rientra nelle tue priorità lui ti parla e ti accorda senza troppi discorsi il permesso di non andarci, a scuola?
Quel sole lì. Perfetto.
Arrivata alla discesa per la stazione proseguo dritta. Perché il sole è perfetto, perché la scuola non rientra nelle mie priorità, perché ho un morso alla bocca dello stomaco che mi dice costantemente di andare. Andare, andare, andare. Ho un morso alla bocca dello stomaco che mi fa sentire scomoda, febbricitante. Ho un morso allo bocca dello stomaco che mi fa dire no, questo no questo no, questo no, io devo andare, andare, andare. Lasciatemi stare.
E c’è un sole perfetto.
Attraverso il paese, passo accanto alla fontana con le rane di pietra, esco dal paese.
Nel bosco il sole perfetto si sparpaglia in infinite schegge ballerine, luminose chiazze vibranti di luce. Le foglie di castagno sotto ai piedi, e colossi che si stagliano, si annodano, fino alle fronde, i rami, le foglie, ai loro piedi massi rivestiti di muschio.
Cammino, mi spingo un passo oltre, sempre un passo oltre.
Il sole è perfetto, io sono perfetta.
È un movimento minimo, un fruscio tra le felci.
“Oh, Sciamano. Non è presto per i funghi?”
“Oh, cara. Macché funghi, ho perso un pezzo di fumo.”
“T’aiuto.”
“Brava nini. Dovrebbe essere qui, proprio qui.”
Cerchiamo in silenzio nel silenzio.
Anche se silenzio, nel bosco, non vuol dire nulla. Scricchiolii, fruscii. Tonfi sordi. Nel bosco, in realtà, silenzio e immobilità non vogliono dire nulla. Steli che oscillano come metronomi, fronde scosse da battiti d’ali.
Siamo solo io e lo Sciamano che ci muoviamo in silenzio, scansiamo foglie umide con la punta delle scarpe e ci accovacciamo naso a terra e sguardo fisso. Facciamo, come minimo, tra i cinquantacinque e i sessanta anni in due, difficile definire con certezza l’età dello Sciamano, eppure, penso mentre scanso un rametto secco, la sensazione è che potremmo iniziare entrambi a fare le capriole dei bambini da un momento all’altro. Così, per gioco.
È facile stare in silenzio con lui, averlo accanto e stargli accanto senza avere niente da dire e non sentire la stretta dell’imbarazzo nelle articolazioni.
“No, via, ‘un c’è. Lo vuoi un teino?
“Ma sei sicuro? Non può essere andato troppo lontano, se dici che l’hai perso qui sarà qui.”
“Eh, qui, lì. Chi lo sa. Andiamo.”
Camminiamo lenti. Lo Sciamano cammina sempre lento. Anche quando ha fretta. Da che ho memoria di lui non l’ho mai visto andare ad una velocità diversa di quella che ci si aspetta da un pensatore che accorda il passo con il pensiero.
Attraversiamo affiancati un pezzo di bosco in salita, raggiungiamo la cima e scendiamo a destra, dritti, scendiamo ancora, usciamo dal bosco e camminiamo ancora finché non ci ritroviamo davanti alla sua dimora elegantemente diroccata.
Un rudere, direbbero quelli che si comprano le case nel verde e poi fanno colate di cemento tutto intorno che sennò si porta la terra in casa.
Dentro, un circo. Cocci di terracotta, attrezzi arrugginiti, vasi di conserve, piante. Tronchi annodati da madama natura in forme che nemmeno si capisce come sia stato possibile, sassi. Vecchi lunari Sesto Cajo Baccelli abbandonati ovunque. Sono sicura che se cercassi bene potrei trovare quello del mio anno di nascita. Tutto arruffato e sovrapposto in un disordine cosmico assolutamente ineccepibile.
Mi arrotolo sul divano di velluto viola, scanso un po’ Leocorno, l’ammasso regale di pelo nero che mi ficca le unghie nella coscia e che, sono sicura, mi sorride da sotto le vibrisse.
Guardo lo Sciamano armeggiare con l’erba e la teiera.
Non c’è attrito in lui, non c’è scarto tra il dentro e il fuori. Immerso nel tempo, combacia perfettamente con se stesso e con tutto quello che lo circonda e di cui si circonda. In una reciprocità che non ha niente di costruito e tutto del semplicemente accaduto, lasciato accadere, desiderato che accadesse.
Non c’è traccia di ansia, di frustrazione, di un qualsivoglia interesse per tutto quello che è fuori dall’apertura totale delle sue braccia e dall’apertura totale della sua mente.
Nessuna contrazione, nessuno strappo. Lo Sciamano sta. Lo Sciamano è.
Nel dettaglio come nel quadro d’insieme.
Accarezzo Leocorno che si sdraia sulla schiena e mi mostra tutta la morbidezza della sua pancia vellutata.
Io gliela accarezzo, e sento sciogliersi anche l’ultimo muscolo, quello di cui nessuno si ricorda mai. Tutti ne hanno uno, ognuno ha il suo.
Gli ingranaggi del tempo saltano, e non conta più il da quando, per quanto o fino a quando.
Lo Sciamano appoggia due tazze sul tavolino sghembo davanti al divano.
“Brucia, sta’ attenta.”
Si siede su una sdraio da giardino, Leocorno mi abbandona e lo raggiunge. Gli si sedimenta sulla pancia in posizione perfettamente ovale. Gli passo la sua tazza poi prendo la mia. Inspiro le volute di vapore.
Chiacchieriamo, mi chiede della scuola e io gli chiedo cosa sono quei semi nel barattolo sopra al camino, parliamo di suo figlio, ci scambiamo uno sguardo di intesa e ci diciamo che è proprio un tipo fico anche se adesso è chiuso in classe a fingere di ascoltare una lezione di fisica, ridiamo, tra una lunga pausa di silenzio e l’altra in cui si sentono solo le sue fusa di Leocorno.
“La vuoi vedere la piantagione di quest’anno?”
“Certo.”
Lenti come nel bosco, Leocorno ci guarda andare via, verso le ultime stanze sul retro della casa. Lo Sciamano mi apre la porta che da sull’esterno. Mi avvicino. Le cerco, li per lì non le vedo.
“Nini, e tu devi guardare in sù.”
E io guardo in su. E sono enormi, di un verde sovrannaturale. Guerriere vichinghe.
Che sciocca. Le cercavo in basso, mi guardavo i piedi.
Guerriere vichinghe.
*
Il paese, a differenza del treno, non è cambiato. Stessi colori. Mi pare ci siano anche gli stessi odori. Qualche casa sprangata in più, per il resto sembra aver passato il tempo della mia assenza immerso nella formaldeide. Come un cuore in un barattolo di vetro. Che pulsa, nonostante tutto.
Quando entro nel bar della piazza e mi avvicino al bancone il barista mi fissa come si potrebbe fare con un animale esotico che però non suscita nessun interesse ma solo una lieve, involontaria, forma di curiosità di fronte a qualcosa di sconosciuto e inaspettato.
Dobbiamo avere suppergiù la stessa età. Al decimo grado di separazione e al secondo campari col bianco, ci collochiamo nella stessa scuola media, due anni di differenza, compagnie diverse ma forse ci ricordiamo l’uno dell’altra.
Quando gli chiedo dello Sciamano mi guarda come si guarderebbe l’animale esotico emettere all’improvviso un suono disarmonico.
Mentre mi prepara il terzo campari col bianco mi manda dal meccanico vicino alla chiesa.
“Suo figlio lavora lì”.
Lo ringrazio, anche perché non mi fa pagare i campari, quelli che quando arrivo dal meccanico sento perfettamente, tutti e tre, tra la testa e il cuore.
Mi riconosce subito, il figlio dello Sciamano, si mette a ridere e m’abbraccia. Dice che ho la stessa identica espressione di quando avevamo sedici anni. Mi chiede se posso aspettare una mezz’ora, che poi mi porta a pranzo fuori. Non mi chiede cosa ci faccio lì, come se non fosse importante saperlo, come se non avesse nessun motivo per dubitare dell’assoluta validità delle motivazioni che mi avevano portata lì.
Quando finisce di lavorare attraversiamo tutto il paese fino alla trattoria. Lungo la strada saluta tutti quelli che incontriamo, informa tutti quelli che incontriamo sulla mia identità con il minimo indispensabile di albero genealogico.
Ci sediamo, ordiniamo tagliatelle al ragù lui e tortelli di patate io e vino rosso della casa.
Quando arriviamo al caffè glielo chiedo.
“Ma tuo babbo?”
Sorride, disegnando ghirigori con la punta del cucchiaino nella crema sulla superficie del caffè.
“L’ultima volta che l’ho sentito era in Messico.”
“Messico?”
“Messico.”
Scoppiamo a ridere, una di quelle risate che se esistesse un traduttore risate parlato anche quelli seduti ai tavoli vicini potrebbe capire, ma che così resta tra di noi. Incomprensibile ai più.
In Messico, penso mentre rido.
Un pazzo, uno scellerato, direbbero quelli che incapaci di ascoltarsi si manipolano per poter aderire ad uno qualsiasi dei percorsi preconfezionati messi a disposizione.
Semplicemente lo Sciamano dico io, che incapace di manipolarmi tanto quanto lo sono di ascoltarmi mi sono fossilizzata in un tempo eterno e tutte le notti fisso il soffitto mentre la sciatta piccola stronza insonnia mi mordicchia le dita dei piedi. Io, che mentre rido capisco che ho ancora, e ho sempre avuto, quel morso allo stomaco ma che ho perso da qualche parte, chissà quando, quella frenesia, quel desiderio di andare, andare, andare. Fare. Fare quello che mi scioglieva i muscoli, tutti, fino all’ultimo, anche quello di cui non mi ricordo mai. Camminare nel bosco, accarezzare la pancia morbida come il velluto di un gatto. Fare forca nelle giornate di sole perfetto. Condividere lo spazio con qualcuno senza aver bisogno di avere qualcosa da dire. Fare le capriole dei bambini.
Nini, e tu devi guardare in su.
Costruire uno spazio a cui aderire e che ti aderisce.
Un circo.
Guardare in su.
“Ma la casa?”
“La casa di mi’ babbo, dici?”
“Sì.”
“È lì. Ogni tanto vado a controllare che non se ne venga giù.”
*
Riesco a prendere l’ultimo treno per un soffio. Saluto il figlio dello Sciamano dal finestrino, con un ciao ciao infantile, la mano aperta che oscilla veloce, lui mi fa un cenno buffo con la testa poi s’accende una sigaretta e se ne va, accompagnato da una nebbiolina fine fine che sale e si arrotola intorno alla luce gialla dei lampioni.
Quando mi lascio andare sul seggiolino quello che sento addosso, e dentro, e attorno non ha un nome. O almeno io non lo conosco. Quando il treno rincula leggermente all’indietro prima di proiettarsi in avanti in linea retta chiudo gli occhi e mi metto in ascolto del brusio che c’è nella mia testa.
Quando apro gli occhi e mi volto verso il paesaggio che scorre a velocità sostenuta e costante e mi guardo riflessa nel finestrino provo la sconcertante sensazione di riconoscere perfettamente ogni frammento del viso. Ogni linea, ogni curva. Ogni più piccolo dettaglio. Sono io, mi riconosco.
Quando sento vibrare la tasca della dei pantaloni sono ancora io, e sono ancora io quando tiro fuori il telefono e leggo il messaggio.
Ehi, sei tutta intera? Sei tornata?
Sono proprio io. Tutta intera.
Sono tutta intera, sono in treno e sto tornando.
Hai trovato lo Sciamano?
In un certo senso.
Tutto bene?
Benissimo, ho appena preso una decisione pazza e scellerata.
Oddio.
Sorrido, respiro a fondo. A fondo per davvero, la cassa toraci si apre, per davvero, i polmoni si allargano, si gonfiano e si sgonfiano. Mi tolgo le scarpe e stendo le gambe sul posto libero davanti a me. E mentre guardo le dita dei miei piedi che si sgranchiscono al sicuro dentro i calzini cerco le parole giuste per raccontare a mia sorella della mia decisione pazza e scellerata di trasferirmi temporaneamente nella dimora elegantemente diroccata dello Sciamano nell’attesa di trovare un’altrettanto elegantemente diroccata dimora dove allestire il mio circo.
E le parole giuste per convincerla a dirlo a nostra madre al posto mio.